Non è che l’inizio. I fatti di Milano, con gli scontri e l’assalto alla Stazione centrale, hanno oscurato buona parte delle proteste pacifiche per Gaza di lunedì 22 settembre. La stampa, anche internazionale, ha fatto fatica a distribuire i pesi. Anche a distanza di ore. Ricevo diverse newsletter, e ho particolarmente apprezzato quelle (un nome su tutti: Good morning Italia) che hanno titolato sul buono della piazza di ieri: grande, partecipata, sacrificata (non solo per il meteo, ma anche perché trattavasi di sciopero, e chi c’era rinunciava alla giornata di paga). La foto qui sopra è stata scattata nei luoghi della guerriglia, pochi minuti prima: non ci sono black block, perché la manifestazione è stata pacifica, e molto meno aggressiva di tante altre di questi anni, negli slogan e nell’atteggiamento.
Non è che l’inizio, perché ieri tanti sono tornati a casa e si sono sentiti dire: “Visto, te l’avevo detto, ma lascia stare, chi te lo fa fare”. E poi il commento peggiore, quello buono per tutte le stagioni: “Non serve a niente”.
La realtà è diversa. Prendere le strade in maniera pacifica serve, eccome. La protesta di ieri sarebbe finita sui media di tutto il mondo anche se non ci fossero stati gli scontri: ci sarebbe solo finita in maniera migliore. Guardiamo i portuali di Genova, che da mesi si danno da fare per impedire il transito di merci per Israele e carichi di armi.
Per bloccare un paese non serve distruggere una città: basta incrociare le braccia. Basta sedersi per terra, come insegnano da anni gli attivisti del clima, memori della lezione di chi ha protestato prima di loro.
Disaccoppiamo la violenza dalla visibilità: le cose, anche sui media, non funzionano così. Anzi. Si passa per delinquenti, si distrugge in poche ore quanto seminato per anni. E bisogna saperlo.
Ho letto a sinistra analisi che rimarcavano come la polizia abbia manganellato. Inutile girarci intorno: ci sono casi in cui il ricorso alle maniere forti è giustificato. E chi decide di vandalizzare una città, se non è un, passatemi il termine, cagasotto, deve accettare il rischio di prenderle. Questi pusinllanimi di quart’ordine, aggressivi a parole e nei fatti, e poi pronti ad andare a piangere a favor di telecamera mostrando le ferite fanno il gioco di chi non vuole mollare Nethanyahu, in questo caso, come il governo italiano; e, più in generale, di chi si oppone al cambiamento.
Non è che l’inizio perché chi c’era in piazza deve tornarci, senza lasciarsi scoraggiare dalla cattiva pubblicità. Bisogna isolare i violenti, diluire il ricordo di quanto accaduto con dieci, cento nuove piazze e iniziative, colorate e pacifiche. Con azioni di disobbedienza civile, scioperi bianchi, boicottaggi: c’è un campionario ricco cui attingere.
Le infatuazioni durano un battito di ciglia, e chi distrugge non ama una causa piuttosto che un’altra: protesta a prescindere. Per disagio, narcisismo, vanagloria. A volte anche perché prezzolato. E’ probabile che ieri vi fossero dei provocatori, non molti, seguiti a ruota da una manica di imbecilli privi di qualsiasi capacità di analisi, e a cui non pareva vero di avere un lasciapassare.
La parte buona della piazza di ieri deve tornare sulle strade, e farlo presto. Il momento è cruciale: c’è l’anniversario del 7 ottobre, l’assalto finale a Gaza City. C’è da immaginare il futuro della Striscia, senza America e senza Israele. I tempi della diplomazia sono lunghi, ma la soluzione a due Stati, se non diventa un alibi per l’inazione, è il primo passo, e va sostenuta, ora che è vicina. Diluiamo la violenza dei professionisti della protesta con la continuità della passione civile dei molti. E continuiamo a sacrificarci per combattere questo genocidio orrendo. Noi, che nel mondo proviamo ancora a cercare la bellezza, nonostante i nostri problemi, le nostre ansie, le nostre difficoltà. Nonostante questi tempi grami.
Non c’è solo Manfredi Catella, si direbbe, tra chi pare disporre a piacimento dell’edilizia pubblica milanese. Sulle eventuali responsabilità del patron di Coima, coinvolto nell’inchiesta sulle operazioni che hanno dato vita al “modello Milano”, sta indagando la magistratura. Che un risultato, invero, lo ha già ottenuto: ha posto fine a un’epoca, quella in cui si parlava al telefono serenamente di come spingere progetti nelle commissioni urbanistiche; e i suddetti, poi, trovavano la propria via fino al cantiere con percorsi facilitati. Uno stato di cose che stava bene anche al sindaco, innamorato del cemento e dell’acciaio dei nuovi quartieri. Solo chiacchiere tra conoscenti, si difendono loro: le città italiane sono piccole e, sapete com’è, ci si conosce tutti. Vedremo se reggerà in tribunale. Ma vale la pena di ricordare che nelle aule non si fa giustizia: si applica la legge. E il problema politico resterà, qualunque sia il verdetto. Un problema per il centro sinistra, per il Pd, e per tutti i milanesi che hanno chiuso gli occhi in questi anni (ma si sono affrettati ad aggiungersi al coro delle lamentele ora che è intervenuta la magistratura).
In realtà faremmo torto a Catella se riducessimo a lui la stagione del laissez faire all’ombra della Madunina: in città sono parecchi i soggetti che fanno pensare a Orwell e alla sua Fattoria degli animali, dove “Tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”.
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Veniamo al motivo di questo pezzo, precisando che, in questo caso, scrivo da cittadino e residente di via Gattamelata, dove la Fondazione Fiera Milano sta demolendo i vecchi capannoni per fare posto al nuovo centro di produzione della Rai, che accorperà gli studi di via Mecenate e corso Sempione.
Un po’ di storia. La Fondazione Fiera Milano ha origini negli anni Venti del secolo scorso. Gestisce il sistema delle fiere meneghine. Navigando in acque a volte perigliose (l’ex amministratore delegato Enrico Pazzali è indagato nell’ambito dell’inchiesta Equalize per una storiaccia di presunti dossieraggi illeciti. Il suo posto è stato preso a fine luglio da Giovanni Bozzetti, indicato dalla giunta lombarda e avallato da Palazzo Marino, cioè il Comune di Milano).
I lavori sono partiti a gennaio. Per mesi, lamentano i residenti, e fino a oggi, il cantiere è rimasto aperto sette giorni su sette. Si è dovuto procedere alla demolizione di un paio di padiglioni esistenti per far spazio alle nuove volumetrie, e se non avete presente le dimensioni del complesso, diciamo subito che non è facile raccontarle: ma parliamo di un paio di campi di calcio di cemento armato e metallo, altezza venti metri.
Probabilmente i lavori hanno marciato accumulando ritardo, e pare che una parte del complesso debba essere pronta per le Olimpiadi invernali di febbraio: così, si diceva, il cantiere si è fermato solo di notte, spesso attaccando alle 6:30 del mattino e continuando a martellare fino alle 18:30. Un massacro per i polmoni dei residenti (le polveri sollevate non erano abbattute con strumenti adeguati), le vibrazioni prodotte (sono diversi quelli che se ne lamentano costantemente da mesi, e notano crepe nei muri, tanto che sono stati installati dei sismografi nei palazzi per monitorare il rispetto dei parametri) e per le povere orecchie e la stabilità mentale di chi lì risiede: immaginate di lavorare tutta la settimana, magari su turni, ed essere svegliati anche il sabato e la domenica mattina dai macchinari impegnati in un cantiere demolitivo, in cui blocchi di cemento armato vengono frantumenti gettandoli da cinque o sei mesi di altezza.
L’amministratore di uno dei condomini, quello in cui abita il sottoscritto, ha provato qualche debole protesta, non troppo convinta. Risultato: nulla.
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Dopo mesi di weekend con sveglie militari, vista l’inazione di chi dovrebbe rappresentarci ed esasperato da una moglie che minaccia di trasferirsi in campagna (siamo appena arrivati al Portello a febbraio!), una domenica mattina decido di prendere in mano la situazione e chiamare i vigili personalmente. Il mio diritto alla salute, in fondo, prevale su consiglieri, amministratori e rappresentanze varie.
La polizia locale esce subito e chiede agli operai le autorizzazioni a lavorare di domenica: il capocantiere – ero lì presente – dice che non ne dispone in loco, ma le avrebbe fornite il giorno dopo via mail.
Gli agenti – sbagliando – se ne vanno: secondo le norme avrebbero dovuto fare sgomberare tutto. Le maestranze rientrano, non senza una certa soddisfazione, e il cantiere riprende.
Avendo fatto la gavetta per anni in cronaca locale, so come funzionano certe cose: mi attivo scrivendo alla circoscrizione e alla presidente Giulia Pelucchi, ma anche all’urp del Comune di Milano e all’indirizzo cantiereincorso@fondazionefiera.it. Come insegnano i manuali di comunicazione, bisogna averlo, un indirizzo del genere, e rispondere sempre con un paio di frasi fatte a chi si prende la briga di scrivere. Cosa dire, appunto, è un altro discorso. La statistica spiega che la gente si stufa, e prima o poi lascerà perdere.
Non è il mio caso. Nelle missive chiedo essenzialmente una cosa: se il cantiere della Fondazione fiera Milano abbia o meno una deroga per lavorare sabato e domenica. L’urp non entra nel merito: si limita a rispondermi citando il regolamento edilizio, che afferma che il sabato è concesso lavorare solo fino alle 1230, salvo deroghe. Idem la domenica. Ok, ma queste deroghe ci sono o no?, riattacco. Perché, per propria natura, dovrebbero essere temporanee, e non durare mesi: avrei parlato col dirigente comunale che le avesse (eventualmente) concesse per far valere le nostre ragioni di cittadini esasperati. Chiedo via pec una visura della documentazione: dopo due settimane non è ancora arrivata.
La Fondazione fiera Milano, dal canto suo, mi risponde con affettata cortesia dopo un paio di giorni che i lavori seguono le regole, che loro sono molto attenti al nostro benessere e che sospenderanno le lavorazioni rumorose la domenica. Replica: gentili, ma non basta questo. Dovete attenervi alle norme; e mostrare i permessi. Nessuna risposta.
La dottoressa Pelucchi, in copia a tutte le mail e presidente del municipio 8, si rende disponibile a incontrarci.
Tanto per non far,i mancare nulla, e a dimostrazione del fatto che l’azione sia corale, raccolgo 70 firme di condomini esasperati.
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La faccio breve: la deroga non ci è mai arrivata in visione, da parte di nessuno. E c’è un motivo chiaro: con tutta probabilità, allo stato, non esiste, e non è mai esistita.
Spiego meglio il concetto: la Fondazione Fiera Milano sta costruendo il cantiere dove sorgerà il nuovo centro di produzione meneghino della Rai radiotelevisione italiana non rispettando il regolamento edilizio e lavorando sette giorni su sette, incurante dei disagi e delle proteste di 70 cittadini che abitano lì di fronte e da mesi cercano di farsi sentire. La stessa azienda che fa trasmissioni tipo Mi manda Raitre.
E veniamo a oggi. Con incredibile nonchalance, da due settimane i lavori proseguono sabato e domenica, in orari vietati. Stamane io e altri condomini chiamiamo nuovamente i vigili. Questa volta la pattuglia, di una gentilezza e professionalità encomiabili, ha fatto ciò che è dovuto in questi casi: di fronte alle giustificazioni farfugliate dal capocantiere (le stesse che evidentemente la volta prima avevano funzionato), emette una sanzione, e fa sgomberare l’area seduta stante. Stop ai lavori, tutti a casa. Si chiude. Potrei anche raccontare che, mentre io e la custode del nostro condominio assistevamo all’operazione di sgombero, un paio di operai si sono prodotti in atteggiamenti da smargiassi paramafiosi: e mi verrebbe da chiedere ai committenti della Fondazione Fiera Milano che cosa ne pensano. Lascio a loro le risposte.
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Credetemi, non esagero dicendo che il rumore è micidiale, altrimenti non conbatteremmo questa battaglia (e non avremmo raccolto 70 firme). Confesso che, da giornalista, queste vicende le ho sempre seguite per conto di altri; mai in prima persona. Oggi sperimento che è incredibile la sensazione di impotenza che si prova nel trovarsi di fronte a un abuso e sentirsi le mani legate.
Scrivo questo pezzo per dare visibilità a un atteggiamento intollerabile da parte di chi dovrebbe dare l’esempio. Un ente come la Fondazione fiera non può fare quello che vuole, nemmeno nella Milano di questi anni. E neanche se gestisce una delle più grandi esposizioni al mondo. Anzi, soprattutto per questo.
Aggiungo un’altra cosa. Gli operai stamane si divertivano a irridere chi protestava ieri per la vicenda Leoncavallo, con frasi becere tipo “sai se andavamo là quante zecche trovavamo da schiacciare?”- frasi fasciste, squadriste e volgari. Si tratta di proteste contro presunti abusi proprio come quello che vi ho raccontato. Che ne pensa la Fondazione fiera Milano?
(nella foto mia, gli agenti della polizia locale nel cantiere la mattina di domenica 7 settembre)
Qualcuno potrebbe pensare che la scarcerazione di Manfredi Catella e degli altri soggetti coinvolti nell’inchiesta sull’urbanistica milanese decisa dal tribunale del Riesame (contrariamente alla richiesta della procura) possa significare che finirà tutto in una bolla di sapone. Non è così. Si dispone la carcerazione preventiva se c’è pericolo di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. Quando al primo, pare sia possibile escluderlo; il danno di immagine sarebbe troppo grande per Catella, che è l’unico che avrebbe i mezzi per vivere all’estero. Per gli altri, fuggire semplicemente non è un’opzione praticabile. Reiterazione del reato? Da escludere. Pare siano ormai tutti lontani dagli incarichi che ricoprivano, almeno da quelli che scottano. Quanto all’inquinamento delle prove, evidentemente i giudici hanno ritenuto che i pubblici ministeri abbiano acquisito elementi sufficienti a dimostrare le accuse. Ci sono centinaia di pagine di chat private agli atti. E il collegamento con quanto effettivamente avvenuto (delibere, permessi, costruzioni) è materiale pubblico.
Quindi tornano a piede libero, ovviamente da osservati speciali. E già qualche giornale ha ripreso a scrivere del ras dell’edilizia milanese con toni compiacenti, suggerendo che quindici giorni ai domiciliari siano un mero incidente di percorso, roba che può succedere. Non è così.
Giova ricordare che nei tribunali non si fa giustizia; si applica la legge, peraltro recentemente depotenziata. Se nessuno subirà condanne penali – ed è tutto da vedere -, ci saranno ancora le cause civili. Ma, soprattutto, va sottolineato un fatto: l’inchiesta della procura ha scritto la parola fine su una stagione che pareva destinata a durare per sempre, tanto era ben oliata la macchina del marketing. E ci vorranno almeno quindici anni – speriamo – perché qualcuno ci riprovi. Costruttori, ex assessori e architetti coinvolti se ne dovranno fare una ragione: indietro non si torna.
Il Leoncavallo negli anni scorsi è stato l’unica realtà a protestare – assieme a tutta la galassia antagonista – contro il caro casa e la speculazione edilizia meneghine. Pochi i politici, e non certo il Pd, che governa Milano da un decennio con Beppe Sala. Nonostante le lacrime di coccodrillo di queste settimane.
Milano non ha mai (sottolineo: mai) fatto una manifestazione contro quanto accadeva in città. Si è limitata a non presentarsi alle urne, per non esporsi, e perché comunque l’aumento dei valori immobiliari stava bene a molti. Salvo poi indignarsi quando il lavoro sporco l’ha fatto qualcun altro.
Ma il merito di scoperchiare la pentola va solo alla procura.
Ne risulta, in maniera evidente, che il centro sociale è stato in grado di leggere la realtà meglio di tanti, inclusi quelli che pontificano a posteriori. Abbiamo già scritto che ci sono stati degli eccessi, negli anni; ma l’esperienza del Leoncavallo e il suo passato (e presente) di luogo di elaborazione politica lontano dal mainstream meritano, anche solo per questo, rispetto e tutela. E, di grazia, una sede.
E’ ironico che lo sgombero del Leoncavallo arrivi a poche settimane dall’inchiesta urbanistica che mette in discussione buona parte degli interventi realizzati in città negli ultimi anni, facendo finire ai domiciliari assessori, costruttori e architetti. Pare che l’ordine questa volta sia arrivato direttamente da Roma: il centro sociale milanese sarebbe, dunque, una questione nazionale. Ma il Leoncavallo è un simbolo, e si può capire.
Trasferito nella sede di via Watteau nel 1994 (era nato due decenni prima nell’omonima strada dalle parti di piazzale Loreto), incuneato in una mesta periferia urbana, il centro sociale in poco tempo ha ridisegnato la fisionomia dell’area.
Il quartiere Greco, a nord di Milano, è un’accozzaglia post industriale di spiazzi, capannoni, strade bigie, e pochissime vecchie case basse di ringhiera in stile meneghino. D’altro resta ben poco: torri residenziali che svettano in mezzo al nulla, un paio di supermercati, una farmacia. Poco più in là c’è il quartiere Bicocca, nato attorno all’università all’inizio del millennio, e mai realmente decollato. Si tratta di un’area divisa tra le aule dell’ateneo e grossi condomini, con pochi locali più che altro rivolti a un pubblico di studenti, un centro commerciale e nessuno spazio di aggregazione.
Quanto detto basta per ricostruire la fisionomia di una zona della città ispirata, a dir poco, alla mera funzionalità; dove le necessità di base sono soddisfatte, ma che giace da sempre al confine tra il non luogo e il dormitorio. Territorio dove è difficile incontrare, e incontrarsi.
Non è sempre stato così. Milano è una città policentrica per nascita, somma di comuni un tempo autonomi e autosufficienti: e Greco, che esiste da secoli, è citato già dal Manzoni. Renzo vi arrivava da Sesto san Giovanni sulla strada per il capoluogo, in tasca una lettera di Fra’ Cristoforo. La città era in preda alla rivolta per il pane. Come ricorda lo scrittore ottocentesco, ci troviamo abbastanza vicino a Lecco perché il viandante potesse girare la testa e ammirare i “suoi” monti.
Uno scorcio di Greco, il quartiere in cui si trova il centro sociale Leoncavallo
Il centro sociale, si diceva, trasloca in via Antoine Watteau nel 1994, dopo un paio d’anni di lotte. Uno spazio enorme, dotato di cucina, ampio salone per concerti, e ben tre bar. Prezzi popolari: una birra tre euro, un piatto di pasta poco più. Un’eccezione, nella Milano di quegli anni; figuriamoci di questi.
Ci ero tornato una sera del luglio scorso, dopo parecchio: e la sensazione era stata di insperato sollievo. Pareva che, tra quelle mura, il tempo si fosse fermato. L’ecosistema digitale – passatemi l’espressione – in cui ci troviamo nostro malgrado immersi non trovava cittadinanza nelle stanza ampie del Leoncavallo; sui muri erano ancora ben vive le vestigia del passato, con i manifesti delle lotte, i libri polverosi a disposizione di chi voleva portarli a casa, i volantini ciclostilati. Murales caleidoscopici, foto, panchine di legno. Odore di fumo di sigaretta e non solo (dispiacerà ai salutisti, ma il divieto di Sirchia qui non è mai arrivato; e l’odore di tabacco fa parte dell’arredamento).
Ai centri sociali fu concesso molto perché nati come risposta a esigenze trascurate: si accollarono, negli anni Settata, l’onere di fornire, alle periferie delle città, una serie di servizi che le amministrazioni non erano in grado di garantire. Corsi, asili, spazi di riunione e dibattito culturale: attività che sono presenti ancora oggi. Erano gli anni della prima emigrazione interna dal Meridione. Agli albori del nuovo millennio, i locali hanno aperto le porte agli stranieri, agli immigrati, che qui trovavano un posto dove riunirsi senza spendere troppo, e soprattutto essere giudicati, soprattutto nei primi, bui, tempi degli sbarchi.
Concerti, ce ne sono stati tanti nel corso degli anni; artisti di peso si sono alternati sul palco, e l’elenco è troppo lungo per farlo qui. Bandita la vendita di droghe: non il consumo – parliamo di cannabis –, in linea con la visione antiproibizionista. Ma ormai il tema è sdoganato ovunque.
Veniamo allo sgombero di giovedì 21 agosto 2025. Si dirà: resta pur sempre occupazione di proprietà privata, e poi al Leoncavallo non sono dei santi. E’ vero. La verità non sta mai da una parte sola. Certe prese di posizione, un certo oltranzismo, soprattutto negli anni duri della contestazione e delle guerre in Iraq e Afghanistan, sono stati decisamente opinabili.
Non è tutto passato. Al presidio di giovedì 21 agosto, sotto l’acqua, c’erano un paio di migliaia di persone. Tante, tantissime, considerato il periodo agostano e la pioggia. Durante la manifestazione, una parte del corteo ha sfidato i poliziotti che bloccavano i cancelli urlandogli in faccia slogan carichi di insulti. Poche decine di persone, protette e ringalluzzite dalla psicologia della folla.
Ora, è evidente che questi atteggiamenti, pur non rappresentendo la posizione ufficiale del centro sociale, spesso vi hanno indiscutibilmente trovato casa e accoglienza. Ma già i Clash negli anni Settanta avevano spiegato che tra i poliziotti ci sono molti proletari, mentre quelli che li insultano spesso sono i figli dei borghesi. Non si tratta di chiudere un occhio sulle violenze delle forze dell’ordine, ma di non lasciarsi trascinare dal branco. E un certo tipo di distinguo, purtroppo, nei centri sociali non hanno quasi mai trovato cittadinanza.
Gli anni, comunque, non passano invano. La linea è progressivamente diventata più moderata, complice anche la guida di una generazione più giovane rispetto a quella dura formatasi negli anni Settanta, quando la lotta politica poteva facilmente sfociare in violenza.
Il bilancio di mezzo secolo di storia, dunque, resta ampiamente positivo. E che il Leoncavallo abbia aggiunto valore a Milano, non il contrario, lo avevano riconosciuto anche tifosi insospettabili. Nel 2006 Vittorio Sgarbi, allora assessore alla Cultura del sindaco di centrodestra Letizia Moratti, organizzò una mostra sui graffitari (i writer) rimasta negli annali. Durante un tour coi giornalisti in via Watteau, gli fu chiesto come poteva un politico di destra appoggiare le scritte sui muri, e di conseguenza, il centro sociale. Risposta lapidaria (chi scrive era presente): “”Sono la Cappella Sistina della contemporaneità. Ma non vedete questi palazzi di merda…”
La somma di tutto fa un luogo che merita di sopravvivere. A Milano, negli ultimi anni, gli spazi di controcultura sono spariti quasi ovunque, e quelli rimasti sono sterilizzati da designer e dai soliti modelli di business che mischiano cultura, glam e profitto. Insomma, per usare un anglicismo: sono fake.
Il diritto alla proprietà privata dell’immobiliarista Cabassi non è in discussione, almeno per chi scrive. Non siamo d’accordo con le spese proletarie, le occupazioni, gli assalti alla polizia; ma con le lotte, anche quelle condotte a muso duro, sì. Con la resistenza allo strapotere del capitale, sì. Non dimentichiamo che la Milano perbenista non ha mai fatto una manifestazione contro la speculazione edilizia e il caro casa, salvo svegliarsi e piagnucolare quando a scoperchiare la pentola ci ha pensato la magistratura.
Al Leoncavallo, invece, certi temi sono sempre stati all’ordine del giorno. E a ragione. Per questo, se sgombero sarà, va trovata una sede adeguata alla storia che questo spazio si è conquistato sul campo, assieme al modo di assegnargliela in via definitiva.
Non solo. L’area che sarà lasciata vuota se il centro sociale se ne andrà (di proprietà dell’immobiliarista Cabassi) potrebbe essere occupata da nuove torri residenziali, che andrebbero a completare lo schema del quartiere dormitorio. Un dormitorio, per di più, destinato ai ricchi. I cosiddetti sviluppatori potrebbero addirittura mimetizzare la speculazione come va di moda oggi in città, con uno studentato da millecinquecento euro al mese a camera.
C’è da augurarsi che Palazzo Marino, che si è detto consapevole del valore dell’esperienza del “Leo”, sappia indirizzare la destinazione d’uso in maniera adeguata. Anche a costo di pronunciare qualche no, insolito a queste latitudini. Il centro sociale potrà pure andare altrove; ma la sua impronta nel quartiere non può più essere rimossa. E, anzi, mi spingo un passo oltre: bisognerebbe trovare il modo per salvare i graffiti del Leoncavallo, ormai parte irrinunciabile della cultura urbana e del paesaggio milanese. E’ possibile?
(Le foto sono mie. Qui di seguito qualche video tratto dalla manifestazione di ieri 21 agosto e pubblicato sul mio canale Instagram 1 | 2 | 3 )
Nelle carte dell’inchiesta sulla suburra dell’urbanistica milanese che ha condotto all’arresto di sei persone spunta anche la Cop, la Conferenza delle parti della Nazioni Unite sul clima.
E’ a pagina 401 dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Mattia Fiorentini su richiesta dei pubblici ministeri milanesi.
A parlare è Giuseppe Marinoni, a capo della Commissione paesaggio del comune di Milano. Nelle conversazioni sequestrate dai magistrati e finite agli atti, Marinoni si rivolge – tra gli altri – a Paolo Colombo, architetto titolare della società A++ di Massagno, vicino Lugano, studio internazionale di architettura con parecchi progetti attivi in Italia e all’estero. Secondo il Corriere del Ticino, Colombo sarebbe stato protagonista di alcune importanti operazioni immobiliari in territorio svizzero negli ultimi anni.
Tra i due ci sarebbe un rapporto di conoscenza, non esclusivamente personale, ma – pare – anche professionale.
“Caro Paolo, ho visto che andiamo assieme in Azerbaijan”, scrive Marinoni nel pomeriggio del 17 gennaio 2024. Nel paese asiatico si sarebbe tenuta otto mesi dopo la Cop29, conferenza internazionale con al centro i temi del riscaldamento globale. Nate come evento tecnico negli anni Novanta, le Conferenze delle parti sul clima (ce ne sono anche altre, come quelle sulla biodiversità, molto meno frequentate) col tempo sono diventate sempre più popolari e mediatiche. E’ in questa sede che, nel 2015, è stato raggiunto il compromesso sull’accordo di Parigi per limitare il riscaldamento globale a due gradi rispetto ai valori preindustriali, momento storico. Altro anno epocale il 2021, subito dopo il Covid, con l’edizione scozzese di Glasgow: il mondo appena uscito dalla pandemia si era raccolto con entusiasmo nella città britannica con uno slancio poi perso sotto i colpi di guerre e crisi energetiche. Grande copertura mediatica, allora, grande affluenza di delegati, grandi aspettative.
Fu l’anno della svolta, quello in cui la conferenza cominciò a crescere oltremisura inglobando sempre più aziende e figure opache. Tanto da rendere necessario un intervento delle Nazioni unite per rendere visibile sui badge l’affiliazione dei partecipanti: nei corridoi, tra diplomatici e negoziatori, si aggiravano anche dirigenti di multinazionali delle fonti fossili, uomini dei giganti della consulenza (interessati a vendere i propri servizi green e in palese conflitto di interessi, dal momento che lavorano anche per i big del petrolio). Come ho raccontato più volte su Wired, allargare le maglie e coinvolgere gli attori economici era un passaggio probabilmente necessario del percorso per raggiungere gli obiettivi climatici: ma per come è avvenuto, si è trattato di un allargamento frettoloso e lasso. Tanti si sono presentati ai cancelli delle Cop per dare una mano di vernice verde alle proprie attività, a favor di telecamere e social network. Tra questi, a quanto emerge dalle chat, ci sarebbe stato anche Marinoni. Torniamo alle carte.
“Ho detto a Raffaella che dobbiamo portare una presentazione con masterplan, considera anche la possibilità di mettere le realizzazioni di Porta nuova e piazza Gae Aulenti. Il masterplan è firmato anche da me e lo posso rendere pubblico. Se non ti offendi possiamo anche dire che lo abbiamo fatto assieme”, scrive sempre il 17 gennaio 2024.
Il 18 giugno, Marinoni torna alla carica. “Paolo, se andiamo in Azerbaijan non ci serve un’interprete italiano russo? Potrei chiedere alla mia fidanzata…”. La signora – di cui non facciamo il nome perché non risulta indagata – ha spirito di iniziativa. Qualche giorno prima, il 12 giugno 2025, aveva preso il telefono di Marinoni per piazzare il compagno. “Buongiorno dottor[…], sono […], la fidanzata di Giuseppe Marinoni. Giusppe ha appena pubblicato questo libro in italiano sulla sostenibilità ambientale della città”, scrive la donna, “tema che avete affrontato nelle interviste che Giuseppe e Paolo hanno rilasciato nella vostra televisione. Considerato che nel libro si parla anche della White City di Baku, Giuseppe chiede se poteste essere interessati a fare un’edizione in russo, sia come ebook che cartacea. Giuseppe potrebbe fare tutto con la sua casa editrice e farvi avere i libri stampati. Potrebbe essere interessante per voi distribuirlo in previsione della Cop29. E’ solo necessario che riconosciate alla casa editrice un rimborso spese. Se ti interessa possiamo fare una call per chiarirci meglio. Grazie anche a nome di Giuseppe”.
Niente di penalmente rilevante, ovviamente. Così va il mondo, ma leggere questo scambio mi ha fatto un certo effetto.
Ora che la prossima Cop, la più instagrammabile di sempre, sarà in Brasile e rischia di perdere rappresentatività perché sono molte le associazioni (e persino i governi) che faticano ad accollarsi i costi assurdi di una sistemazione a Belèm, sarà interessante vedere chi ci sarà, “a chi appartengono” i partecipanti. Tenete d’occhio i social: in Brasile a novembre volerà solo chi ha un vero interesse da difendere. Che si tratti di clima, di quattrini o di visibilità, beh, quello è un altro discorso.
Non è come sembra, dice il marito trovato a letto con l’amante. Innumerevoli film della commedia sexy all’italiana su questa litania hanno fatto fortuna. Ma, per chi amasse riferimenti più colti, torna ancora una volta utile il milanese Alessandro Manzoni, con il dottor Azzeccagarbugli dei Promessi Sposi (duecento anni fa, quattrocento nella finzione): uno che annegava nel latinorum, un intruglio di parole con l’obiettivo di non far capire nulla ai malcapitati clienti e ai giudici. Spieghiamo.
In sostanza, l’immobiliarista Manfredi Catella e gli altri indagati nell’inchiesta sulla suburra dell’urbanistica meneghina si difendono (chi con memorie scritte, chi nel corso di audizione ) disseminando dubbi, facendo distinguo riguardo alle chat messe agli atti. Non è come sembra, sostengono tutti assieme. Così, in questa narrazione, le parole intercettate dai magistrati diventano poca cosa, chiacchiere informali tra conoscenti. Ma in altri ambiti, distanti dall’urbanistica lombarda, quando si discute di questioni scomode si prendono certe precauzioni: si parla solo in presenza e ,quando lo si fa, non manca chi lascia il cellulare nell’altra stanza. Essere lassi al riguardo tradisce l’idea di sentirsi all’interno di una bolla dove nulla di male può accadere. Perché Roma ha assegnato a Milano il ruolo di locomotiva del pil italiano, un mandato ampio, tanto più dopo la crisi di inizio millennio: e il lavoro sporco qualcuno deve pur farlo. Tanto poi le cose si sistemano.
Nei tribunali non si fa giustizia: si applica la legge. Ed è per questo che le norme a Milano hanno cercato di scriverle da sé , arrivando a far votare al Parlamento un salvacondotto fortunatamente bloccato.
Con queste premesse, vedremo cosa dirà l’esame dei magistrati. Quello politico, però, è altra cosa. Si può evitare la galera, che peraltro è da poveracci: ma non il giudizio della Storia. E quello difficilmente sarà clemente. Una generazione di architetti, amministratori e faccendieri merita di essere allontanata dalla cosa pubblica: ed è strano che debba intervenire la magistratura per ricordarcelo. È strano che la gente abbia dato forma ed espressione alla propria rabbia solo dopo le inchieste della procura, come se prima fosse stata avviluppata dalle narrazioni marchettare all’americana, per cui “vivi in una città che offre tutto quanto si possa desiderare”, e se non ce la fai a tenere il passo “è solo perché non ti sei impegnato abbastanza”. È strano che a protestare contro l’andazzo del capoluogo lombardo fosse solo una ristretta cerchia di – chiamiamoli così – intellettuali, mentre gli altri, il popolo, si rifugiavano nel non voto, segno di una sfiducia ormai cronica verso il sistema. Come gli adolescenti che si chiudono in camera perché non si sentono compresi dagli adulti, e non hanno speranza di esserlo. L’adolescenza poi passa, di solito, e ci si prende la responsabilità della propria vita: è quello che c’è da augurarsi anche per Milano. A volte serve un supporto esterno: uno psicologo , un insegnante, un prete, ed è questo il ruolo della stampa. Ora che la questione è posta, non deve farsi irretire ancora una volta dai quattrini dei costruttori (Catella ha visto aperture, interviste e titoli accomodanti su troppi giornalini e giornaloni durante il suo regno). Perché il nostro non è e non sarà mai un popolo equilibrato; saremo sempre tentati parimenti dall’esaltazione e dalla forca; e in questo scenario, navigare fuori dalle acque tempestose non è facile. Tradotto: non facciamola finire in una bolla di sapone. Il potere di condizionamento di certi soggetti è suadente. E fra poco, passata la buriana e caduta qualche testa, ricominceranno a comprarsi le copertine, secondo i dettami della “comunicazione di crisi”, che ricalca il detto siciliano: calati juncu, che passa la china (piegati giunco, intanto che la tempesta passa ).
Dopo le Olimpiadi invernali senza montagna (e pure senza la neve: la coltre bianca è sempre più rara sulle Alpi, ma questo è un altro discorso), dopo la Ocean week senza il mare, la città del marketing perenne si inventa la Milano Longevity Week. A me la presentazione pare delirante. Riporto testualmente quanto appare sul sito, a partire dalla domanda iniziale, di una banalità che sconfina nell’incoscienza.
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Cito. “Si può ed è giusto rincorrere l’eterna giovinezza e prolungare le aspettative di vita? La ricerca scientifica più all’avanguardia risponde di sì. È una vera e propria rivoluzione nell’approccio all’invecchiamento, di cui Milano si fa portavoce con un summit di diversi giorni, un grande incontro scientifico internazionale policentrico, a carattere divulgativo e aperto al grande pubblico, agli operatori, agli studenti, che coinvolgerà le più importanti Istituzioni della città, sui temi “caldi” del momento, a livello di ricerca e di investimenti: l’invecchiamento sano (Healthy Aging) e il prolungamento della vita (Longevity).
Sessanta scienziati tra i più noti ed accreditati, vere e proprie star in questo settore, sveleranno le frontiere più avanzate della ricerca nel rallentamento del processo biologico dell’invecchiamento.
Il cambiamento demografico esige un approccio olistico, fondato su nuovi paradigmi sociali nel campo della politica assistenziale, dell’economia, del mondo del lavoro e dell’organizzazione delle città, ed anche una vera presa di coscienza politica e amministrativa. In quest’ottica il Summit ospiterà tavole rotonde con la partecipazione di demografi, investitori, imprenditori di startup e sindaci di alcune delle città che stanno già sperimentando nuovi modelli di organizzazione sociale ispirata ad una diversa composizione demografica.
Il Milan Longevity Summit si pone l’obiettivo di valorizzare Milano come centro scientifico all’avanguardia a livello internazionale e di produrre un documento in dieci punti, il Milan Longevity Program, per aiutare i legislatori, gli operatori del settore e il pubblico tutto a migliorare lo stile di vita della popolazione e contribuire ad una vecchiaia sana, attiva ed efficiente“.
Ora, l’allungamento della vita media (nei paesi del global north, cioè quelli i ricchi) è una realtà. Ma francamente è un problema grosso, e c’è poco da stare allegri. Nel longevity summit allo zafferano troviamo la solita accozzaglia di luoghi comuni, fondazioni e aziende, demografi e investitori (non è un errore: demografi accanto a investitori) senza arrivare a una chiara definizione della questione. Il risultato di questi 13 (tredici!) giorni di eventi sarà la solita dichiarazione inutile in dieci punti: la “Carta di Milano della longevità”, tento un titolo a naso. Nulla di più, e ci sarebbe molto da dire.
Quello che in questa visione da anni azzurri non sta scritto è che siamo in troppi; dovremo lavorare tutti fino a oltre 70 anni perché le patologie croniche pesano sul sistema sanitario e quindi su welfare; le pensioni pubbliche saranno sempre più basse, e quelle private non potranno permettersele quelli che guadagnano 900 euro; con la mobilità e flessibilità del lavoro, gli anziani con figli resteranno sempre più privi di appoggi e finiranno l’esistenza in struttura; ma molti non avranno prole (siamo al limite della denatalità) e finiranno anch’essi in struttura.
Quello che non viene detto è che la “silver economy” è una delle nuove frontiere del marketing: si vende agli anziani, dato che ci si è accorti che sono consumatori molto più a lungo di un tempo, e conviene tenerli attivi e curarseli.
Ma c’è un’altra questione, su cui forse davvero il sindaco di Palazzo Marino (quello vero pare sia un immobiliarista molto noto in città) dovrebbe insistere. Il lavoro ai cinquantenni che l’hanno perso. Perché hai voglia arrivare a 70 se quando ti licenziano a 50 non ti vuole più nessuno, e magari hai pure un figlio.
Ecco, degli Stati Generali per il lavoro ai cinquantenni, caro sindaco Sala, sarebbero utili e apprezzati. Il “modello Milano” potrebbe (dovrebbe?) diventare questo. E allora avrà finalmente legato il suo nome a qualcosa di utile.
Dopo NoLo, provincialismo newyorchese per North of Loreto (una volta scassatissimo quartiere a ridosso della Stazione Centrale e oggi nuova Mecca radical chic), state attenti a NaPa, Naviglio Pavese. Se avete quattrini da investire, e nebbia invernale e zanzare d’estate non vi spaventano, sia chiaro. Che la situazione di Milano sia fotografata con obiettività da un giornale di destra si deve senz’altro al fatto che al governo, in città, c’è la sinistra. Ma ciò non toglie valore all’inchiesta di Panorama di questa settimana, la cui copertina riporto qui sotto. Che, con belle fotografie, mostra ciò che, a chi vive in città, è noto. Si sa, siamo in epoca di narrazioni. Sono le parole a creare il mondo che vediamo. E tra fashion week, food week, wine week cinquantadue volte all’anno, il capoluogo lombardo rischia di restare sempre più weak. Con la a. Cioè debole.
Un bilocale in affitto a millecinquecento euro al mese (in vendita a cinquecentomila), un monolocale a mille. E intanto ci sono duemila sentatetto che dormono in quello scempio a cielo aperto che è il sottopasso tra viale Lunigiana e viale Brianza, sempre Stazione Centrale. Si svegliano, mangiano e dormono in mezzo allo smog puzzolente delle colonne di macchine. Una cappa irrespirabile, che si somma a quella delle sigarette, agli effluvi del vino in busta consumato dal mattino al posto del caffè.
Agenzie immobiliari spuntano come funghi nelle zone di prossima urbanizzazione, come Porta Romana, dove troverà sede il nuovo complesso al posto dello Scalo ferroviario. Centinaia di migliaia di metri quadri di vetro e acciaio, in tutto e per tutto simili agli altri progetti di “sviluppo” che disegneranno la città del futuro. A pochi passi da lì, come sottolineato da Francesca Mannocchi in un recente podcast (e no, lei non è di destra) c’è la Bocconi, che ha appena organizzato un servizio per accompagnare a casa le studentesse: hanno paura di essere aggredite nel vicino Parco Ravizza. Ma a un tiro di schioppo – o un minuto in monopattino – c’è anche il Pane Quotidiano di viale Toscana, che da cent’anni distribuisce viveri agli indigenti. Che sono sempre più italiani. Perché non tutti hanno una laurea, non tutti hanno digital skills da lucidare nel cv, non tutti sanno l’inglese e fanno networking discettando di Amarone e Barolo.
Ma giustamente, chi non vive qui queste cose non le sa. È colpito dallo storytelling, dai “Milano non si ferma”, storica gaffe del sindaco all’indomani del Covid, marzo 2020. Certo: perché c’è anche chi, se i valori salgono e la città si trasforma sempre più in un monopoli, con quotazioni che lasciano immaginare soldi di carta, brinda a champagne. Sono gli speculatori immobiliari, i fondi, i piccoli proprietari, per cui quattro mura non sono un ammasso di cemento e tubi, ma numeri su un atto di proprietà. E rendite potenziali. Plusvalenze. I report di settore trasudano entusiasmo: e con le Olimpiadi invernali – a Milano! dove ci sono nebbia, inversione termica, ma la montagna, la montagna proprio no – come ipoteca su un altro quinquennio di bicchieri tintinnanti.
Le ultime elezioni, a settembre, sono andate deserte: 40% dei votanti. Detto in altri termini: tre su cinque sono rimasti a casa. Tre su cinque. Sala, che ha vinto per mancanza di avversari, in campagna elettorale aveva dichiarato che non è peccato avere degli amici. I suoi sicuramente non sono quelli del bar sotto casa, ma frequentano i migliori salotti. Sarebbe bello sapere chi sono.
“La situazione è complessa” ripete spesso il primo cittadino. Si può capire. Non dev’essere facile fare il sindaco di sinistra quando a sostenerti c’è il mondo della finanza. Così, ci si rifugia, come sempre, nel territorio del politicamente corretto. Chiudo prendendo in prestito il finale dell’articolo di Panorama (autore, Giorgio Gandola). “Il primo gesto della responsabile ai Servizi Civici Gaia Romani (25 anni, piddina) è stato cambiare la targa sulla porta dell’ufficio. Ha voluto ‘assessora’ invece di ‘assessore’ e ha spiegato che ‘il cambiamento parte dalle piccole azioni’. Quando ha avvitato la placchetta nuova ha chiamato i fotografi. Della Vanity Milano ha capito tutto”.
Non c’è da esultare molto se vinci con il 60 % dei voti, ma alle urne si è recato meno del 50% degli aventi diritto, dato più basso di sempre a Milano. La sinistra ha tradizionalmente più potere di mobilitazione; il resto dei meneghini ha deciso che non valeva la pena perdere un quarto d’ora di vita per scegliere chi sostenere tra l’offerta politica di questo 2021.
E come dar loro torto. Con un avversario all’altezza sarebbe stato ballottaggio sicuro. Ma uno come Albertini, di prendere ordini da Salvini non ne ha voluto sapere. E infatti ha salutato, simpaticamente addossando la responsabilità alla consorte.
Con Sala vince l’idea di città internazionale ma poco attenta alla spina dorsale di lavoratori, quella delle settimane della moda ma anche del vino, del coniglio, del design, dello spritz (scegliete un sostantivo e cercatelo nel calendario: probabile che lo troviate). La città che non si ferma, quella degli Ambrogini alla Premiata multinazionale del marketing Ferragni / Fedez e dei progetti di riqualificazione tutti diversi eppure tutti uguali perché senz’anima (dov’è il rispetto delle identità dei quartieri, se fai sempre la stessa cosa da Loreto a porta Romana?).
Quella che spinge fuori i poveri per attirare manager e fondi di investimento. Quella che accontenta i proprietari immobiliari, felici degli aumenti folli dei valori perché guadagnano senza muovere un dito (si chiama rendita).
A Roma, dice il resoconto di un convegno recente, i palazzinari già esultano per la candidatura all’Expo 2030: il valore degli immobili è dato in salita, e si sono messi a fare i conti nei giorni scorsi, guarda caso poco prima delle elezioni.
Milano, naturalmente, da prima della classe le sue Olimpiadi le ha già. Quelle invernali. Peccato che nessuna città al mondo li voglia, i giochi, perché durano due settimane, costano miliardi, e di solito lasciano cattedrali nel deserto, come ben sappiamo qui in Italia. Non solo. A Milano la neve non c’è. Se il profeta non va dalla montagna, sarà la montagna a venire al Duomo, devo aver pensato a Palazzo Marino. Oppure è il solito marketing.
Insomma, chi, come chi scrive, ha il cuore che batte a sinistra (e conosce il mondo reale, non quello delle ztl) stappa una bottiglia per la fine dell’ondata sovranista. Ma tiene gli occhi aperti. Cherchez la femme, dicono i romanzi polizieschi. Qui bisogna cercare i finanziatori. “Non ho chiesto e non ho ricevuto – ha detto Sala – diciamo che godo di tanta stima e quindi ho amici e conoscenti che in trasparenza aiutano nella campagna, però l’ho fatto volontariamente, perché credo che l’indipendenza passi anche attraverso quello. Io non chiedo soldi ai partiti”. Da oggi, io direi cherchez l’ami.
Quando lo incrocio dal vivo a qualche evento, Beppe Sala non riesce proprio a non essermi simpatico. L’ho visto in azione a Expo, quando ha salvato praticamente da solo una manifestazione che sembrava condannata al fallimento tra ritardi, appalti truccati, infiltrazioni mafiose. È arrivato agli sgoccioli, e ha fatto quello che era necessario per condurre in porto l’esperienza: senza fare domande, e anche mettendo firme dove sarebbe stato meglio controllare. Ma un grande manager si riconosce da questo: finisce il lavoro per cui è stato assunto. Altrimenti non lo accetta.
Non solo. Ricordo bene la sensazione del primo giorno. Cielo plumbeo, viali semidedeserti, la cerimonia inaugurale con le sue scontate passerelle politiche che sembrava l’anticamera di un disastro annunciato e, finalmente, giunto a compimento.
Come è andata, invece, lo sappiamo. Expo è stato un successo. Dopo il primo mese di rodaggio, la gente ha cominciato ad arrivare. A luglio era tanta, a settembre per i viali non si camminava, a fine ottobre era impossibile vedere più di tre padiglioni in una giornata. Escluso, ovviamente, quello del Giappone, che da solo richiedeva otto ore di coda. Per saltare le file qualcuno arrivò a presentarsi con un passeggino riempito da un bambolotto.
Cosa era accaduto? Fu messa in piedi una campagna di marketing poderosa. Tra accordi con supermercati che fornivano biglietti scontati e un lavoro incessante di creazione del buzz, il passaparola, su social media e blog, la voce si sparse in fretta. Si crearono tormentoni come il già ricordato Giappone che divennero virali.
L’incremento di pubblico fu esponenziale. La macchina comunicativa aveva fatto il suo dovere. I conti erano salvi (più o meno, ma non era colpa di Sala). La manifestazione, però, però divenne invivibile. La situazione era sfuggita di mano. Tra i padiglioni, letteralmente, non si respirava per la calca. Scesero in campo le associazioni dei consumatori: perché vendere così tanti biglietti se uno poi non può vedere nulla? Avevano ragione.
Erano gli anni del renzismo, e il capo fu generoso nel ricompensare il manager , appoggiando la candidatura di Sala a sindaco di Milano. Sembrava l’uomo giusto per proseguire il discorso di una città internazionale, aperta e rampante. Fino al Covid, il capoluogo lombardo era una città da copertina, l’unico posto in Italia dove la crisi del 2008 2011 era davvero passata. Tutti volevano Milano.
Poi arrivò la pandemia. E si vide che durante la crisi, in città non erano restati i manager internazionali o gli expat strapagati che tornavano attirati unicamente dal regime fiscale favorevole. C’erano i panettieri, i baristi coi locali chiusi, gli operai, i cassieri, gli impiegati delle poste da 1200 euro al mese. Quelli che hanno fatto funzionare Milano anche quando avrebbe potuto, e in parte lo è stata, trasformarsi in un deserto.
Arrivo al punto. Qualcuno dice che c’è una scelta: o la città internazionale, “attrattiva”, o la città disegnata per chi ci vive. Terza possibilità, questa la tesi, non è data. Con Sala, Milano ha scelto la prima. E dimenticato la seconda. Affitti alle stelle, un centro senza vita, periferie dimenticate da cui il Duomo dista ben più dei sette chilometri indicati sulla mappa. Se ne accorse persino l’Economist, non certo un giornale di sinistra, con un articolo a gennaio 2020.
La speculazione edilizia ha innescato una spirale difficile da contenere. La gentrification fa sì che anche alcune periferie stiano diventando patrimonio dei ricchi mente i poveri sono confinati nei soliti quartieri (Barona, Corvetto, Quarto Oggiaro, Bovisa). La politica ambientalista del “tutto subito” (ah! ancora il marketing) ha costretto tanti a cambiare auto senza alternative valide a livello di trasporto pubblico . I negozi di quartiere stanno chiudendo uno a uno, sostituiti da catene. Gli scali ferroviari, progetto bandiera di riqualificazione , sono stati disegnati come usa adesso: tutti uguali, nonostante gli architetti siano diversi. Il solito modello internazionale buono per tutte le stagioni, a base di vetro, acciaio e boschi verticali. Persino i tram cambieranno, in peggio. Aggiungete l’Ambrogino d’oro alla Ferragni e il cocktail è pronto.
Sala ha fatto il politico come faceva il manager. Non è colpa sua, è il suo DNA. Il marketing davanti a tutto per attirare gli investitori, il resto arriverà. A Expo esagerò. A Milano è accaduto lo stesso. Lo slogan che ha sintetizzato la visione è quel “Milano non si ferma” ripetuto in piena pandemia che mostra quanto la percezione del sindaco fosse slegata dalla realtà. Fuori i bar cinesi erano chiusi e la città aveva paura: ma guai a mostrare la verità. Par condicio : anche l’aperitivo di Zingaretti è stato una cagata mostruosa, per dirla alla Fantozzi.
Sala continuerà a essermi simpatico dal vivo; meno, quando lo vedo sui manifesti in cui si alterna tra Obama e i vecchietti del circolino. Con ogni probabilità vincerà senza problemi. Più per incapacità del centrodestra di trovare candidati, per gli scandali da fan page, per il fatto che le carte ormai (purtroppo) le dà Salvini che per meriti propri. Ma io non l’ho votato. Milano ha bisogno di altro, e di pensare ai suoi cittadini prima che agli investitori e alle copertine. A quelli che ci vivono davvero, non ai bocconiani pronti a lasciarla in cerca del regime fiscale migliore, fosse anche in capo al mondo. Insomma, consideriamo le alternative. Leggiamo le interviste. Valutiamo i programmi. Ci sono ottimi candidati anche a sinistra che non hanno foto con ex presidenti ma hanno molto da dire da dare. Diamo loro una chance, anche solo di far sentire la propria voce. E buon voto a tutti.