(Premessa. Se non credete ai media, fidatevi almeno di una persona che conoscete).
Dopo l’ottimismo di facciata e, mi viene da dire, sfacciato, dei giorni scorsi, anche il Comune di Milano e il sindaco Giuseppe Sala cedono al buonsenso e invitano alla prudenza. Altro che #milanononsiferma, magliette e cazzate varie. La situazione è seria, perché in Lombardia gli ospedali sono al collasso, le terapie intensive non hanno più posti e dottori e infermieri sono distrutti da turni massacranti. Anche, orribile dirlo, a causa di chi non si è presentato al lavoro con la più classica delle scuse, un certificato medico.
Bergamo rischia di diventare un’altra zona rossa, anche se ancora non viene detto. E il capoluogo? Pure, purtroppo. I numeri del virus che vediamo oggi non rispecchiano i contagi odierni, ma quelli di 15 giorni fa, dato che l’incubazione dura due settimane, e, ai tempi, probabilmente la città era molto più sicura di quanto non lo sia ora.
E adesso, la parte più complicata di questo pezzo.
Ho girato a piedi, ho preso la metro. Non molto, ma l’ho fatto. Da cronista, per documentare cosa accadeva; ma anche da cittadino, per non impazzire in casa. Perché le uscite si possono ridurre, ma non ci si può rinchiudere tra quattro mura fino a che non sono le autorità a imporlo. Non ci si riesce proprio.
Non sono l’unico. La città non è il deserto dei giorni scorsi. Vedo studenti nei caffè. Anche la metropolitana sta lentamente tornando a essere rumorosa. Paura? Si, certo. Non tanto per il virus in sé, quanto per la quarantena di 15 giorni che ti aspetta se lo prendi. Il punto è che prima o poi rischiamo di beccarcelo tutti, l’abbiamo capito. Bisogna rallentare il contagio. Ma si può impazzire tra le pareti domestiche? Qual è il confine tra buonsenso e follia? C’è qualcun altro che si fa questa domanda?
Mi sembra che qui siano rimasti solo i residenti: una sorta di fotografia di chi, a Milano, ci abita. Deserti, soprattutto i giorni scorsi, i quartieri per turisti, a partire dal Duomo e dai Navigli; molto più tranquilli del solito, ma non certo vuoti, quelli residenziali, almeno Porta Romana, dove vivo ora. Sabato sera abbiamo sfidato la sorte in pizzeria, e c’era un pienone d’altri tempi. Non eravamo gli unici che cercavano sfogo dopo una settimana da reclusi.
Cosa c’è di complicato, allora? Il fatto di predicare prudenza e fare il contrario, probabilmente.
Sì, è vero, probabilmente abbiamo abbassato la guardia; ma, credetemi, è dura tenerla sempre alta. Non uscire, e, se esci, tieniti a due metri di distanza, non dare la mano, non toccarti il naso, e mille altre raccomandazioni. Chi va al lavoro è quasi guardato con invidia: ha la scusa per ammalarsi.
Invito a prendere sul serio l’epidemia sin dall’inizio. Ma inutile fare il manicheo, a ciascuno il suo: i giovani cerchino il compromesso tra esuberanza e precauzione, gli adulti chiedano lo smart working, e gli anziani se ne stiano a casa. Pare che il Comune stia attivando le reti di supporto, ed era ora: probabilmente anche a chi è solo i servizi sociali riusciranno ad assicurare un pasto.
Non si può rinchiudere i cittadini se non come extrema ratio, sarebbe inumano, per tutti, farlo prima. Certo, se accadrà, ci adegueremo. Ma sbarrare le porte ai city users – i pendolari per intenderci – ed evitare gli assembramenti nelle aule, nei cinema e nelle palestre è necessario. È dura, lo sarà ancor più nelle prossime ore: ma se non ci fossero state queste misure precauzionali l’impatto avrebbe potuto essere devastante.
Ancora una volta, e come sempre, non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Leggo editoriali di giornalisti navigati che rimpiangono l’allegria degli aperitivi, e mi ricordano quelli di certi studenti di liceo, bravi a fantasticare ma poco avvezzi al mondo reale: come si fa ad essere allegri se quando ci si alza al mattino e si guarda fuori dalla finestra alla ricerca di un segnale non lo si trova da nessuna parte? Chi sa dirci quanto manca alla fine di questo strazio lento, che si trascina una serie di incognite economiche che a scriverle tutte non basterebbe un libro?
Non ero lì, ma credo che dopo l’11 settembre New York abbiano vissuto più o meno la stessa cosa. Devi ricominciare a vivere in qualche modo, ma non sai bene come. Cerchi di sorridere, ma ti senti quasi in colpa. Alla fine, passerà, questo è sicuro. Ma sarà lunga, questa volta.