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Milano, cronache dal fronte /2

(Premessa. Se non credete ai media, credete a uno che conoscete)


Il suono delle ambulanze spezza il silenzio ogni quarto d’ora. Milano è vuota, strade deserte, parcheggi liberi. Si potrebbe giocare a pallone in circonvallazione, unico pensiero schivare uno dei pochi rider che ogni tanto passano senza carico. I semafori segnano lunghi, interminabili istanti in attesa che nessuno attraversi. Gli infermieri che scendono quando le sirene si fermano non raccolgono superstiti di incidenti, ma pazienti da ricoverare per polmoniti da Covid. Uno dopo l’altro, casa per casa, in una processione senza sosta diretta ai tanti nosocomi della città. Tutti allo stremo.

Chi scrive ha creduto, come tanti, di poter abbassare la guardia per qualche giorno. Si sbagliava.
La zona rossa è a Codogno, si pensava, basta uscire un po’ meno. Giorno per giorno siamo tornati a condurre più o meno la solita vita. Le ordinanze e lo smart working avevano limitato il flusso di pendolari, gli studenti erano a casa; per il resto, la città aveva ripreso a vivere, a un ritmo più umano, senza la frenesia immotivata che caratterizza il capoluogo.
Intanto le cifre del contagio crescevano.

Oggi i malati in Lombardia sono più di 5mila, mille più di ieri, il 33% degli intubati ha tra i 50 e i 65 anni. Sospesi tra la vita e la morte ci sono ventenni e trentenni in buona salute. Chiunque potrebbe essere infetto. Ma mezza Italia non lo sa, e non crede ai resoconti. Il virus lavora nell’ombra, e la piena, al Sud, è attesa tra due settimane. A Palermo stanno preparando i letti. Ma quello che è chiaro ai dottori non lo è alla popolazione.

A Bergamo, Lecco, Como, medici e infermieri con 20 anni di esperienza piangono per quello a cui assistono in corsia, piangono perché sono costretti a scegliere a chi fornire l’ossigeno. Il criterio è l’aspettativa di vita, a pagare sono i più anziani. Che può voler dire sacrificare un 50 enne, se in attesa c’è un universitario che magari è andato a correre con la maglia dell’ateneo, come è accaduto stasera, porta Venezia, ore 19 e 30.

Metà delle insegne sono chiuse, l’altra è accesa. E viene da ringraziare chi, pur sapendo che non venderà un bottone, sceglie di scendere in strada e tenere aperto. La luce delle vetrine scalda il gelo di una notte che ricorda l’oscuramento bellico. Una chiesa di mattoni rossi, illuminata, le scritte in latino che si stagliano verso il cielo, e torno al Medioevo, quando l’uomo non si illudeva di aver imparato a dominare le forze della natura, e il giorno era giorno, la notte notte. Quando si guardava a questi altari urbani non come a belle suppellettili da studiare in mezzo ai grattacieli, ma come estrema invocazione verso la divinità: che fosse clemente, consapevoli che niente avrebbe potuto salvare l’umanità in caso d’ira.
Sabato sera la fiumana ha preso le vie del Sud, ma molti lombardi hanno lasciato il territorio e si sono rifugiati in Liguria, dove i piazzali della Riviera sono pieno di camper di finti turisti in fuga dal lazzaretto.
E mentre nelle carceri del paese infuria la rivolta, a Foggia un’evasione di massa rende le strade della città simili alla Baghdad dei tempi di guerra. Gruppuscoli di delinquenti fermano le auto, rapinano persone alla ricerca dei primi quattrini e di cellulari, in attesa di riallacciare i contatti con la malavita. La gente si chiude in casa. Per strada ci sono, letterlmente, i carri armati.

Si narra che circolino già soggetti che offrono passaggi in uscita verso il Meridione per qualche centinaio di euro. “Offerte speciali” rivolte a chi non possiede un’auto e non può prendere i treni a causa delle misure del governo. Magari per tornare a far festa, e far finta che basti non pensarci. Un modo di far soldi si trova sempre. E anche qualche stupido che ci casca.

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Milano, cronache dal fronte / 1

(Premessa. Se non credete ai media, fidatevi almeno di una persona che conoscete).

Dopo l’ottimismo di facciata e, mi viene da dire, sfacciato, dei giorni scorsi, anche il Comune di Milano e il sindaco Giuseppe Sala cedono al buonsenso e invitano alla prudenza. Altro che #milanononsiferma, magliette e cazzate varie. La situazione è seria, perché in Lombardia gli ospedali sono al collasso, le terapie intensive non hanno più posti e dottori e infermieri sono distrutti da turni massacranti. Anche, orribile dirlo, a causa di chi non si è presentato al lavoro con la più classica delle scuse, un certificato medico.

Bergamo rischia di diventare un’altra zona rossa, anche se ancora non viene detto. E il capoluogo? Pure, purtroppo. I numeri del virus che vediamo oggi non rispecchiano i contagi odierni, ma quelli di 15 giorni fa, dato che l’incubazione dura due settimane, e, ai tempi, probabilmente la città era molto più sicura di quanto non lo sia ora.

E adesso, la parte più complicata di questo pezzo.

Ho girato a piedi, ho preso la metro. Non molto, ma l’ho fatto. Da cronista, per documentare cosa accadeva; ma anche da cittadino, per non impazzire in casa. Perché le uscite si possono ridurre, ma non ci si può rinchiudere tra quattro mura fino a che non sono le autorità a imporlo. Non ci si riesce proprio.
Non sono l’unico. La città non è il deserto dei giorni scorsi. Vedo studenti nei caffè. Anche la metropolitana sta lentamente tornando a essere rumorosa. Paura? Si, certo. Non tanto per il virus in sé, quanto per la quarantena di 15 giorni che ti aspetta se lo prendi. Il punto è che prima o poi rischiamo di beccarcelo tutti, l’abbiamo capito. Bisogna rallentare il contagio. Ma si può impazzire tra le pareti domestiche? Qual è il confine tra buonsenso e follia? C’è qualcun altro che si fa questa domanda?

Mi sembra che qui siano rimasti solo i residenti: una sorta di fotografia di chi, a Milano, ci abita. Deserti, soprattutto i giorni scorsi, i quartieri per turisti, a partire dal Duomo e dai Navigli; molto più tranquilli del solito, ma non certo vuoti, quelli residenziali, almeno Porta Romana, dove vivo ora. Sabato sera abbiamo sfidato la sorte in pizzeria, e c’era un pienone d’altri tempi. Non eravamo gli unici che cercavano sfogo dopo una settimana da reclusi.

Cosa c’è di complicato, allora? Il fatto di predicare prudenza e fare il contrario, probabilmente.
Sì, è vero, probabilmente abbiamo abbassato la guardia; ma, credetemi, è dura tenerla sempre alta. Non uscire, e, se esci, tieniti a due metri di distanza, non dare la mano, non toccarti il naso, e mille altre raccomandazioni. Chi va al lavoro è quasi guardato con invidia: ha la scusa per ammalarsi.

Invito a prendere sul serio l’epidemia sin dall’inizio. Ma inutile fare il manicheo, a ciascuno il suo: i giovani cerchino il compromesso tra esuberanza e precauzione, gli adulti chiedano lo smart working, e gli anziani se ne stiano a casa. Pare che il Comune stia attivando le reti di supporto, ed era ora: probabilmente anche a chi è solo i servizi sociali riusciranno ad assicurare un pasto.

Non si può rinchiudere i cittadini se non come extrema ratio, sarebbe inumano, per tutti, farlo prima. Certo, se accadrà, ci adegueremo. Ma sbarrare le porte ai city users – i pendolari per intenderci – ed evitare gli assembramenti nelle aule, nei cinema e nelle palestre è necessario. È dura, lo sarà ancor più nelle prossime ore: ma se non ci fossero state queste misure precauzionali l’impatto avrebbe potuto essere devastante.

Ancora una volta, e come sempre, non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Leggo editoriali di giornalisti navigati che rimpiangono l’allegria degli aperitivi, e mi ricordano quelli di certi studenti di liceo, bravi a fantasticare ma poco avvezzi al mondo reale: come si fa ad essere allegri se quando ci si alza al mattino e si guarda fuori dalla finestra alla ricerca di un segnale non lo si trova da nessuna parte? Chi sa dirci quanto manca alla fine di questo strazio lento, che si trascina una serie di incognite economiche che a scriverle tutte non basterebbe un libro?

Non ero lì, ma credo che dopo l’11 settembre New York abbiano vissuto più o meno la stessa cosa. Devi ricominciare a vivere in qualche modo, ma non sai bene come. Cerchi di sorridere, ma ti senti quasi in colpa. Alla fine, passerà, questo è sicuro. Ma sarà lunga, questa volta.

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La velocità che uccide chi non è pronto

Diffidate delle persone che sorridono sempre: a volte non hanno semplicemente altra scelta”.

Con queste parole si chiude la lettera di Pietro, 19enne milanese, che ha gettato la fidanzata dal settimo piano prima di lanciarsi nel vuoto.Pare avesse qualche problema di depressione, e che non si trattasse del primo tentativo di suicidio.

Una missiva scritta a mano, in stampatello, con le abbreviazioni tipiche degli adolescenti; una scrittura nervosa, storta, come quella di chi sta maneggiando un argomento troppo grande per lui; un epilogo lucido e metropolitanamente tragico per una storia d’amore finita.

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#myNYPD: l’hashtag che imbarazza la polizia

Quando un hashtag si trasforma in un disastro. Alla polizia di New York hanno pensato bene di invitare i cittadini a condividere su Twitter le immagini più significative del proprio rapporto con gli agenti. L’intento era evidenziare il legame tra il corpo e la città: non è andata così. Come racconta questo articolo di VICE, l’hashtag #myNYPD ha catalizzato una gran quantità di scatti. Moltissimi però riguardavano comportamenti discutibili delle forze dell’ordine in occasione di manifestazioni. E l’operazione è diventata un clamoroso autogol.

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