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L’inchiesta urbanistica e il ruolo dei centri sociali

Qualcuno potrebbe pensare che la scarcerazione di Manfredi Catella e degli altri soggetti coinvolti nell’inchiesta sull’urbanistica milanese decisa dal tribunale del Riesame (contrariamente alla richiesta della procura) possa significare che finirà tutto in una bolla di sapone. Non è così. Si dispone la carcerazione preventiva se c’è pericolo di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. Quando al primo, pare sia possibile escluderlo; il danno di immagine sarebbe troppo grande per Catella, che è l’unico che avrebbe i mezzi per vivere all’estero. Per gli altri, fuggire semplicemente non è un’opzione praticabile. Reiterazione del reato? Da escludere. Pare siano ormai tutti lontani dagli incarichi che ricoprivano, almeno da quelli che scottano. Quanto all’inquinamento delle prove, evidentemente i giudici hanno ritenuto che i pubblici ministeri abbiano acquisito elementi sufficienti a dimostrare le accuse. Ci sono centinaia di pagine di chat private agli atti. E il collegamento con quanto effettivamente avvenuto (delibere, permessi, costruzioni) è materiale pubblico.

Quindi tornano a piede libero, ovviamente da osservati speciali. E già qualche giornale ha ripreso a scrivere del ras dell’edilizia milanese con toni compiacenti, suggerendo che quindici giorni ai domiciliari siano un mero incidente di percorso, roba che può succedere. Non è così.

Giova ricordare che nei tribunali non si fa giustizia; si applica la legge, peraltro recentemente depotenziata. Se nessuno subirà condanne penali – ed è tutto da vedere -, ci saranno ancora le cause civili. Ma, soprattutto, va sottolineato un fatto: l’inchiesta della procura ha scritto la parola fine su una stagione che pareva destinata a durare per sempre, tanto era ben oliata la macchina del marketing. E ci vorranno almeno quindici anni – speriamo – perché qualcuno ci riprovi. Costruttori, ex assessori e architetti coinvolti se ne dovranno fare una ragione: indietro non si torna.

***

E qui veniamo ai giorni nostri.

Giovedì 21 agosto la polizia ha sgomberato il centro sociale Leoncavallo, un pezzo di storia milanese, in un quartiere – quello di Greco – bigio e preda dei palazzinari.

Il Leoncavallo negli anni scorsi è stato l’unica realtà a protestare – assieme a tutta la galassia antagonista – contro il caro casa e la speculazione edilizia meneghine. Pochi i politici, e non certo il Pd, che governa Milano da un decennio con Beppe Sala. Nonostante le lacrime di coccodrillo di queste settimane.

Milano non ha mai (sottolineo: mai) fatto una manifestazione contro quanto accadeva in città. Si è limitata a non presentarsi alle urne, per non esporsi, e perché comunque l’aumento dei valori immobiliari stava bene a molti. Salvo poi indignarsi quando il lavoro sporco l’ha fatto qualcun altro.

Ma il merito di scoperchiare la pentola va solo alla procura.

Ne risulta, in maniera evidente, che il centro sociale è stato in grado di leggere la realtà meglio di tanti, inclusi quelli che pontificano a posteriori. Abbiamo già scritto che ci sono stati degli eccessi, negli anni; ma l’esperienza del Leoncavallo e il suo passato (e presente) di luogo di elaborazione politica lontano dal mainstream meritano, anche solo per questo, rispetto e tutela. E, di grazia, una sede.

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economia, esteri, media, politica, tech

Similarities

Zuckerberg reportedly asked Trump to block Eu fines on American tech companies. Here’s the reason of the last days’ repositioning on fact checking and diversity and inclusion policies: ingratiating Trump so to put pressure, not only in the Us , but abroad. These new – so to speak – tech oligarchs are getting closer and closer to power, just like their Russian colleagues. In doing so, they could obviously get burned by the flame – and, even in this respect , Russia has something to teach: the same man who can create your lucks can suddenly destroy you. And in the long run, that’s the most probable thing. But companies divide the reality in quarters.

There’s a third similarity to Russia. Or, to better say, with the old Soviet union. Trump is trying to extend America’s area of influence like the Ussr did in the 20th century with Eastern Europe and the Warsaw pact. Canada, Greenland, Panama. “It’s our national interest”, he says. Someone, a hundred years ago, coined an expression for this: “vital space “.

Europe is not a giant in strictly military terms (at all). But it is, actually , in an economic perspective, in regulations (think about the Ai act, the best legislation in the world on Ai), in culture. And it represents an alternative to the American way of living and doing business, not to mention to its perspective on the world. We have fundamentally experienced colonialism and had enough of it, at least in its “open” version, with tanks and soldiers.

Europe’s only strength to resist to these attacks is to deepen the ties between member countries: more integration between us, more autonomy from America in key strategic sectors. More cultural self consciousness. We represent an alternative to the US, a pacific one. No need to get engaged in Trump’s wars. But, nevertheless, we do have to need to stand firmly in front of these menaces.

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città, economia, tendenze

La Milano della solitudine

Servizio di Presa Diretta, da vedere. La Milano descritta è quella della solitudine, resa strutturale – letteralmente – dalle nuove tendenze immobiliari. Che separano le funzioni: casa con case, negozi con negozi, una scuola ogni tanto. Si rischia di meno, dicono gli esperti: lo sviluppatore (chi costruisce, cioè) non rischia il negozio fastidioso sotto i portici, men che meno chiassosi assembramenti. Metti la macchina in garage e sali con l’ascensore dritto fino a casa senza incontrare nessuno: lì ti aspetta Alexa, il metaverso o qualunque scemenza digitale prodotta in questi anni. C’è, però, il punto di ritiro per i pacchi: il commercio elettronico, così impersonale, è il perno dei nuovi aggregati come Cascina Merlata. Ogni tanto, come accaduto a Santa Giulia, si scopre che non hanno fatto le bonifiche e si abita sotto le scorie: e, a occhio e croce, c’è da aspettarsi altri casi, nei prossimi anni.

Ma la vita, osserva uno degli intervistati, sono proprio quegli incontri a volte indesiderati, quella fastidiosa mescolanza: evitarli è una scorciatoria per ridurre il dolore; ma, al contempo, rinunci alla gioia. Un Prozac di mattoni e vetro. Che funziona, aggiunge la docente Elena Granata, fino a che stai bene. Ti crei una bolla domestica in cui vivere connesso, e uscire (se si è fortunati) per gli happy hour, i weekend all’estero, le cinquantadue something week che caratterizzano la Milano degli ultimi anni.
Come sottolinea Manfredi Catella, patron di Coima, uno dei più grandi sviluppatori immobiliari italiani, ognuno fa il suo mestiere. E’ alla politica che spetta il compito di stabilire le regole, dice: gli affari, sintetizzo, restano affari. Catella è uno degli uomini più potenti in città: per influenza e relazioni stacca di gran lunga il sindaco del capoluogo lombardo. Con il vantaggio di non essere legato a nessuna famiglia politica, e poter, quindi, lavorare con tutti, indipendentemente dal colore.

Un amico mi diceva di vivere a Maciachini. Pensavo fosse un po’ fuori. “Guarda che tutta Milano è centro: fra qualche anno non ci sarà differenza, vedrai”. Non comprendevo. Poi sono passato in viale Isonzo, circonvallazione esterna, le colonne d’Ercole tra due mondi: l’inizio della fine. Una volta, forse. Dietro al vicino scalo di Porta Romana, dove sorgerà il Villaggio per le Olimpiadi invernali senza montagna dell’anno prossimo e che diventerà uno studentato una volta archiviato l’evento, vedo un capannello di ragazzi: l’italiano è una lingua staniera, quella ufficiale è l’inglese. Sono gli ospiti del primo edificio del complesso, riuniti nella pizzeria costruita lì sotto. Stessi vestiti, stessi profumi, stessi discorsi dei coetanei di Londra, Varsavia, Madrid. Stesse ambizioni (Ral, e beato chi non capisce l’acronimo): stesso retroterra economico (privilegiato) e culturale (in massima parte, figli di professionisti), che possono pagare 1.500 euro al mese per una stanza con bagno e cucinino, oltre alla retta delle università private più à la page. Era periferia, ed è stata inghiottita dal centro: a pochi passi c’è la Fondazione Prada, che, quanta lungimiranza, quindici anni fa investì nell’area, diventandone il perno. Più dietro viale Ortles, dove c’è un dormitorio per senzatetto, chissà per quanto. A quel punto ho capito. “Fanno il deserto, e la chiamano pace”: mi vengono in mente le parole di Tacito, un risuonare sinistro e senza tempo per una città che sta perdendo l’anima.

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Milano, un Longevity summit di 13 giorni è l’ennesima scelta inutile

Dopo le Olimpiadi invernali senza montagna (e pure senza la neve: la coltre bianca è sempre più rara sulle Alpi, ma questo è un altro discorso), dopo la Ocean week senza il mare, la città del marketing perenne si inventa la Milano Longevity Week. A me la presentazione pare delirante. Riporto testualmente quanto appare sul sito, a partire dalla domanda iniziale, di una banalità che sconfina nell’incoscienza.

Cito. “Si può ed è giusto rincorrere l’eterna giovinezza e prolungare le aspettative di vita? La ricerca scientifica più all’avanguardia risponde di sì. È una vera e propria rivoluzione nell’approccio all’invecchiamento, di cui Milano si fa portavoce con un summit di diversi giorni, un grande incontro scientifico internazionale policentrico, a carattere divulgativo e aperto al grande pubblico, agli operatori, agli studenti, che coinvolgerà le più importanti Istituzioni della città, sui temi “caldi” del momento, a livello di ricerca e di investimenti: l’invecchiamento sano (Healthy Aging) e il prolungamento della vita (Longevity).

Sessanta scienziati tra i più noti ed accreditati, vere e proprie star in questo settore, sveleranno le frontiere più avanzate della ricerca nel rallentamento del processo biologico dell’invecchiamento.

Il cambiamento demografico esige un approccio olistico, fondato su nuovi paradigmi sociali nel campo della politica assistenziale, dell’economia, del mondo del lavoro e dell’organizzazione delle città, ed anche una vera presa di coscienza politica e amministrativa. In quest’ottica il Summit ospiterà tavole rotonde con la partecipazione di demografi, investitori, imprenditori di startup e sindaci di alcune delle città che stanno già sperimentando nuovi modelli di organizzazione sociale ispirata ad una diversa composizione demografica.

Il Milan Longevity Summit si pone l’obiettivo di valorizzare Milano come centro scientifico all’avanguardia a livello internazionale e di produrre un documento in dieci punti, il Milan Longevity Program, per aiutare i legislatori, gli operatori del settore e il pubblico tutto a migliorare lo stile di vita della popolazione e contribuire ad una vecchiaia sana, attiva ed efficiente“.

Ora, l’allungamento della vita media (nei paesi del global north, cioè quelli i ricchi) è una realtà. Ma francamente è un problema grosso, e c’è poco da stare allegri. Nel longevity summit allo zafferano troviamo la solita accozzaglia di luoghi comuni, fondazioni e aziende, demografi e investitori (non è un errore: demografi accanto a investitori) senza arrivare a una chiara definizione della questione. Il risultato di questi 13 (tredici!) giorni di eventi sarà la solita dichiarazione inutile in dieci punti: la “Carta di Milano della longevità”, tento un titolo a naso. Nulla di più, e ci sarebbe molto da dire.

Quello che in questa visione da anni azzurri non sta scritto è che siamo in troppi; dovremo lavorare tutti fino a oltre 70 anni perché le patologie croniche pesano sul sistema sanitario e quindi su welfare; le pensioni pubbliche saranno sempre più basse, e quelle private non potranno permettersele quelli che guadagnano 900 euro; con la mobilità e flessibilità del lavoro, gli anziani con figli resteranno sempre più privi di appoggi e finiranno l’esistenza in struttura; ma molti non avranno prole (siamo al limite della denatalità) e finiranno anch’essi in struttura.

Quello che non viene detto è che la “silver economy” è una delle nuove frontiere del marketing: si vende agli anziani, dato che ci si è accorti che sono consumatori molto più a lungo di un tempo, e conviene tenerli attivi e curarseli.

Ma c’è un’altra questione, su cui forse davvero il sindaco di Palazzo Marino (quello vero pare sia un immobiliarista molto noto in città) dovrebbe insistere. Il lavoro ai cinquantenni che l’hanno perso. Perché hai voglia arrivare a 70 se quando ti licenziano a 50 non ti vuole più nessuno, e magari hai pure un figlio.

Ecco, degli Stati Generali per il lavoro ai cinquantenni, caro sindaco Sala, sarebbero utili e apprezzati. Il “modello Milano” potrebbe (dovrebbe?) diventare questo. E allora avrà finalmente legato il suo nome a qualcosa di utile.

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Populismo e investimenti

Non solo investimenti. Nel mezzo della discussione sull’uso del Recovery Fund, fanno bene Tito Boeri e Roberto Perotti, autori di questo articolo uscito su Repubblica, a sottolineare che il piano Marshall partì solo tre anni dopo la fine della guerra. In altre parole: va bene investire, ma le categorie più svantaggiate vanno aiutate. Adesso.

Si può essere populisti parlando di sussidi a pioggia; ma lo si diventa, e giova ricordarlo, anche insistendo unicamente su prospettive ventennali, per forza di cose attraenti solo per le elite (è il caso di chiamarle così) dallo stipendio garantito, mentre metà del paese non arriva alla terza settimana del mese.

Riporto un estratto dell’articolo di Boeri, che povero certo non è ma è stato presidente dell’INPS e quindi conosce bene la situazione. “La teoria e il buon senso ci dicono che la risposta corretta a uno shock temporaneo come una pandemia, combinato con un massiccio impoverimento delle categorie più deboli, sono sussidi alle persone e alle imprese, ben concepiti. Le ingenti risorse del Recovery Fund sono invece dedicate quasi esclusivamente a investimenti pubblici per la ricostruzione, come se la guerra fosse finita. A differenza che nel caso del Piano Marshall, avviato tre anni dopo la fine delle ostilità, oggi siamo ancora lontani dalla vittoria finale. Si parla molto anche di una riforma radicale e simultanea di tutte le tasse. Obiettivo condivisibile, ma ci si dimentica che questo strumento non ha alcun effetto sulla povertà: non cambia niente per chi già in partenza non paga le tasse o ne paga pochissime, perché troppo povero. Ciò di cui abbiamo bisogno è una riforma altrettanto onnicomprensiva degli ammortizzatori sociali“.

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Milano, a 4 anni da Expo il futuro dell’innovazione passa per MIND

Questo articolo è stato pubblicato su StartupItalia

Un milione di metri quadri, un ospedale d’eccellenza, un centro di ricerca avanzato sulle malattie degenerative e un campus universitario da 20mila studenti. E poi startup, aziende affermate, sinergie. Milano Innovation District – l’acronimo è MIND – è il dopo Expo che il capoluogo lombardo aspettava. Vediamo cosa accadrà nell’immensa area ai confini con Rho lasciata libera quattro anni fa.

Expo 2015: una storia tormentata con il rischio di fallire

Primo maggio 2015: mentre nelle strade della città infuriava la battaglia urbana dei contestatori, a Rho prendeva le mosse l’evento che avrebbe cambiato Milano. Sotto un cielo grigio piombo e una pioggia che poco lasciava sperare, il volo delle Frecce tricolori provava a gettare una manciata di colori nella tensione.

Ad Expo si arrivò male, come spesso accade in Italia: le infiltrazioni della criminalità organizzata e la corruzione erano state ampiamente preventivate, ma nessuno seppe – o volle – intervenire. Erano gli anni in cui il prefetto Gian Valerio Lombardi poteva sorprendere la città affermando di fronte alla commissione antimafia che  “Cosa Nostra a Milano non esiste”, gli anni in cui il potere di Roberto Formigoni sembrava destinato a non tramontare.

Le inchieste della discordia

Qualche mese dopo (estate 2010)  arrivò l’operazione Crimine-Infinito a smascherare l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta anche al nord, tra la Brianza e il Milanese. E, proprio da una costola di questa inchiesta, nacque quella sulla “Cupola degli appalti” che travolse, siamo a maggio 2014, la macchina organizzativa di Expo a un anno esatto dalla partenza.

Un’indagine che destabilizzò anche la Procura della Repubblica di Milano, allora retta da Edmondo Bruti Liberati, protagonista di uno scontro senza esclusione di colpi con l’aggiunto Alfredo Robledo. Pare ci fossero state pressioni del Governo dell’epoca per non bloccare la manifestazione sul nascere, e la Procura cercò di conformarsi dilatando i tempi. Robledo non gradì, e si arrivò ai ferri corti.

Expo, nonostante tutto, si fece. Si riuscì ad aprire i cancelli – evitando una figuraccia in mondovisione –  anche se non tutti i padiglioni erano pronti. Com’è andata poi, lo sappiamo. L’evento fu un successo, di portata tale da diventare sinonimo di code infinite, e il padiglione del Giappone, come il casello di Melegnano, evoca ancora attese di ore nell’immaginario dei milanesi, e non solo.

Da Expo a MIND

Ma, chiusi i battenti il 31 ottobre, si poneva il tema di cosa fare dell’area. Domanda non banale, Torino era già lì a mostrare come il patrimonio di infrastrutture costruito durante i giochi olimpici potesse essere abbandonatoMatteo Renzi, all’epoca presidente del Consiglio, si spese da subito tracciando la via. Il progetto di recupero di un’area da un milione di metri quadri prese corpo in quei giorni tra il comprensibile scetticismo di chi era abituato alle chiacchiere della politica. Molta acqua è passata sotto i ponti da allora: in pochi ci credevano, ma adesso, finalmente, si cominciano a vedere i risultati.

Un grande parco,  l’Università Statale e  il Nuovo Galeazzi

Il progetto di riconversione dell’area è entrato nelle fasi operative, mantenendo la vocazione originale che lo legava alle scienze della vita. Il Decumano, lungo 1500 metri, diventerà la colonna vertebrale del masterplan disegnato da Carlo Ratti, un asse da cui sarà possibile raggiungere tutte le aree. Oltre mezzo milione di metri quadri darà vita a uno dei più grandi parchi lineari d’Europa: campi da gioco, spazi di relax e perfino orti serviranno ad attirare la cittadinanza, che peraltro si è già abituata a prendere la metropolitana fino al capolinea per assistere a concerti ed esibizioni. Sono stati più di un milione in tre anni i fan in fila per artisti come Eminem e i Pearl Jam o semplicemente per ammirare l’Albero della Vita, diventato una sorta di monumento nazionale postmoderno.

Ma nel disegno trova posto il meglio della tecnologia, della ricerca e dell’innovazione italiana e internazionale. Si comincia con la creazione di un quartiere interamente driverless: veicoli leggeri senza pilota si muoveranno in uno spazio dedicato che consentirà di sperimentare soluzioni avveniristiche.

Si prosegue con il trasferimento di settte facoltà scientifiche dell’Università Statale di Milano. “Il primo studente è atteso per l’anno accademico 2024 -2025 – conferma Riccardo Capo, direttore Operations di Arexpo, la società che coordina il progetto di riconversione – Il campus, sul modello americano, servirà 18-20 mila studenti al giorno, che vivranno l’esperienza accademica a stretto contatto con le aziende in cui potrebbero, un giorno, lavorare”.

All’ateneo si aggiungerà un ospedale: il Galeazzi, storico nosocomio milanese, troverà sede qui, con un edificio da 10 piani, 600 posti letto e 8 mila utenti al giorno. Tra i corridoi, oltre a curare i malati, si farà ricerca di avanguardia in cardiologia e ortopedia. Questa tranche di progetto sarà finanziata da una cordata mista: 1,8 miliardi provengono dal settore pubblico, mentre il privato contribuirà con i 2 miliardi che si è impegnata a versare Lendlease e i 300 milioni di euro del Gruppo San Donato. Lendlease pagherà, inoltre, un canone di concessione di 671 milioni di euro in 99 anni. Il cantiere è già avviato, le ruspe si muovono per completare i lavori entro il 2021.

Human Technopole: ricerca di eccellenza su Parkinson, Alzheimer e cancro

Il fiore all’occhiello del progetto è, però, Human Technopole, centro d’eccellenza. “Vivere a lungo è diverso da vivere bene” potrebbe essere il concept di questa piattaforma orientata alla ricerca ad ampio spettro sull’essere umano del Duemila. La sede è a Palazzo Italia, a pochi passi dall’Albero della Vita, il focus sulle malattie degenerative come Alzheimer e Parkinson e su quelle tumorali. I soldi ci sono  – 1,2 miliardi già stanziati con la finanziaria del 2016, i lavori sono in corso: oggi apre il terzo cantiere, mentre il primo manipolo di ricercatori (400) arriverà nell’estate 2020: saliranno a 1500 quando l’ente funzionerà a pieno regime.

“Sarà un hub con cui metteremo la tecnologia più avanzata a disposizione non solo dei nostri scienziati, ma di tutti quelli che ne faranno richiesta, naturalmente dietro presentazione di un progetto” spiega Marco Simoni, presidente della Fondazione Human Technopole. Trentamila metri quadri, sette centri di ricerca e due grandi microscopi alti dieci metri per esplorare la materia fino alle strutture atomiche delle proteine, per poi passare dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande grazie a elaboratori dalla potenza mai sperimentata nel nostro paese.

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“Oggi il risultato finale di una ricerca  arriva a valle di una grande fase di raccolta di dati, che vanno inseriti in modelli matematici, i quali vanno, a loro volta, interpretati – spiega il manager – Gli stadi finali di questa operazione vengono gestiti al computer da scienziati computazionali”. Perché oggi l’informatica si è infilata anche qui, dove prima si smanettava con provette e becher.

Non può mancare un occhio di riguardo al trasferimento tecnologico, alla creazione – cioè – di best practices per passare dal laboratorio al mercato. Non solo. Il know how raccolto verrà sottoposto ai policy-makers, sempre alla ricerca di soluzioni per mantenere uno stato sociale che, con l’allungamento della vita media, è sempre più difficile da sostenere.

Tante le grandi società interessate all’area…

Veniamo alle imprese. Di questo parte del progetto si occupa la società australiana Lendlease. Una settantina di grandi aziende hanno manifestato interesse a insediarsi nell’area, ben collegata da mezzi di comunicazione (metropolitana, treno, autostrade) e vicina a zone di nuova edilizia residenziale dove i futuri dipendenti possono, eventualmente, trovare alloggio. Tra queste IBM,  Intesa, Novartis e altri nomi di punta del firmamento internazionale.

…Anche startup

Ma ci sono anche le startup: una call chiusa a febbraio ha registrato 118 richieste da parte di aziende sulla frontiera della tecnologia. “Circa il 50% si occupano di smart city e digital, segno che l’area è al passo con le tendenze globali   – riprende Capo – Molto interesse abbiamo riscontrato anche nei settori cultura, scolastico ed entertainment, con un 20% circa delle proposte”.

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L’area, a regime, ospiterà 60mila persone al giorno. Nei prossimi cinque anni si raggiungerà la metà delle presenze previste. Le premesse per creare un altro successo ci sono tutte; ma con le aspettative che si sono alzate, la delusione per un eventuale fallimento può essere ancora più cocente.

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I rischi sono i soliti. Corruzione, appalti, bonifiche mai fatte o fatte male. Grandi aree hanno sempre stimolato ingenti appetiti, controlli farraginosi, mazzette. La storia di Expo insegna che le Cassandre in Italia non parlano quasi mai invano. Molta acqua è passata sotto i ponti rispetto a dieci anni fa. Milano ha saputo lanciarsi all’inseguimento delle migliori capitali europee. La città conosce un fermento e un vigore che non si registravano dal boom economico, ma augurarsi che tutto vada bene non basta. Bisogna stringere le maglie dei controlli per evitare che un patrimonio nazionale come quello del post Expo venga disperso. Milano, l’Italia, non possono permetterselo.

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Coca Cola compra Costa Coffee: l’accordo per 3,9 miliardi di sterline

Coca Cola compra le caffetterie Costa. Il gruppo Whitebread, secondo quanto riportato dai media questa mattina, avrebbe venduto la catena per 3,9 miliardi di sterline, 16,4 volte il margine operativo lordo atteso per il 2018. L’acquisizione è la risposta della casa di Atlanta alla mossa di Nestlè, che ha recentemente stretto un accordo con Starbucks: il colosso svizzero ha comprato per 7,15 miliardi di dollari la licenza per commercializzare i prodotti a marchio Starbucks e di alcuni altri brand del gruppo. Due strade diverse nella guerra del caffè, settore sempre più interessante: se l’accordo raggiunto da Nestlè non prevede il passaggio di asset fisici, con la mossa di oggi Coca Cola prende il controllo diretto della catena Costa, diffusa in tutto il Regno Unito.

Trentadue paesi, 3.800 venues e 8.000 macchinette self service: questi i numeri di Costa Coffee. Con la vendita, Whitebread incamera liquidità e lascia un gruppo globale, che aveva acquistato nel 1995 per 19 milioni di sterline. All’epoca, Costa aveva solo 19 punti vendita.

La catena di caffetterie ha chiuso il bilancio il 31 marzo scorso con ricavi per 1, 292 miliardi di sterline, in crescita rispetto agli 1,202 dell’anno precedente. Il margine operativo lordo (ebitda) passa dai 231 milioni di pounds a 238 milioni.

Le bevande calde sono uno dei pochi segmenti restanti del panorama complessivo del beverage in cui Coca Cola non ha un marchio globale”, ha dichiarato James Quincey, il ceo della bevanda dalla lattina rossa. “Costa ci dà accesso a questo mercato attraverso una forte piattaforma del caffè”.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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Un ponte tra Hong Kong, Macao e Shenzhen: la nuova Silicon Valley cinese vale 1000 miliardi

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su StartupItalia!

Cinquantacinque chilometri di piloni, asfalto e cemento armato possono cambiare le gerarchie dell’economia mondiale, trasformando un’area altamente industrializzata – ma politicamente disomogenea – nella nuova Silicon Valley. Manca il silicio, ma c’è la tutta la potenza di fuoco della Cina nel progetto che potrebbe vedere la Greater Bay Area trasformarsi nel quarto esportatore del mondo, scalzando il Giappone, con 67 milioni di persone e un’economia del valore complessivo di 1.000 miliardi di euro. Il ponte è già costruito,  taglio del nastro previsto per i prossimi mesi.

 

NUMERI DA CAPOGIRO PER IL PONTE DEI SOGNI –  Che siano infrastrutture fondamentali per l’economia è cosa nota, ed è stato evidenziato anche dopo la tragedia del ponte Morandi a Genova: ma se i territori connessi sono Shenzhen, Macao e Hong Kong, i numeri sono destinati a incidere sulle sorti del capitalismo globale.

Il piano del presidente cinese  Xi Jinping è semplice: cercare di sfruttare al massimo le sinergie fra l’industria cinese, i servizi finanziari di Hong Kong – britannica fino al 1997 – e il flusso di denaro attratto dai casinò di Macao, portoghese fino al 1999.

Entrambe le ex colonie, tornate in anni recenti  sotto la sovranità di Pechino, godono di uno status particolare nell’ambito della Repubblica Popolare.

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 “UN PAESE, DUE SISTEMI: LA SVOLTA DI DENG” – Un po’ di storia consente di comprendere meglio. Le trattative per il ritorno alla Cina, avviate nel 1979, rischiavano di arenarsi di fronte all’apparente rigidità del governo comunista. Hong Kong era amministrata secondo principi capitalisti, e l’obiettivo del Regno Unito era evitare l’azzeramento della tradizione politica e culturale occidentale che si era andata costruendo nel corso di 150 anni di dominio britannico.

La questione si risolse per mano di Deng Xiaoping, il padre delle “quattro modernizzazioni” e della via cinese al socialismo: una visione per certi versi eretica, che non escludeva il mercato, e fu la base dello sviluppo degli anni a venire. Fu Deng a coniare la formula “Un paese, due sistemi” per sigillare l’autonomia di Hong Kong e Macao, dotate di ampi margini pur rimanendo a tutti gli effetti sotto l’ombrello cinese. In pratica, Pechino decideva la politica estera e di difesa, ma ai territori era lasciata una libertà amministrativa che arrivava, addirittura, al mantenimento di una propria valuta. Uno status che le rese ponte tra Oriente e Occidente.

SHENZHEN: DA 30 MILA A 13 MILIONI DI ABITANTI – La rapida industrializzazione, che vide Hong Kong passare dai 600mila abitanti del 1945 agli attuali oltre 7 milioni, fu favorita anche dalla vicinanza della città di Shenzhen, divenuta Zona Economica Speciale sempre per volere di Deng. Il leader ne intuì il potenziale strategico.

Se la crescita demografica di Hong Kong è stata impressionante, quella di Shenzhen è stata, però, addirittura  strabiliante. La città è passata dai 30mila abitanti degli anni Settanta ai circa 13,5 milioni attuali nel corso di soli 30 anni – un primato mondiale – e ospita i quartier generali di giganti della tecnologia  come Tencent e Huawei.

I principi che regolano le Zone Economiche Speciali prevedono tassazione ridotta e policy tese ad attrarre investimenti stranieri. L’esperimento di Deng, senz’altro riuscito, è diventato caso di studio e ha creato le basi per lo  sviluppo successivo: quello che sarà innescato domani dal ponte, e da una “bretella” ferroviaria da 11 miliardi voluta dal governo per collegare Hong Kong alla rete ad alta velocità cinese. Già oggi gli scambi – merci e lavoratori pendolari – sono intensi: le nuove infrastrutture creeranno una conurbazione ancora più interconnessa.

I TIMORI DI HONG KONG PER L’AUTONOMIA – Un fenomeno che, in piccolo, ricalca gli schemi della globalizzazione. Il costo da pagare per scambi più facili è, spesso, un appiattimento della diversità culturale. Potrebbe essere così anche in questo caso.

Gli imprenditori sono ovviamente entusiasti, riporta Bloomberg. Horace Zheng – 38 anni, nome occidentale e cognome orientale – è abituato a operare su entrambi i lati del ponte, a cavallo tra capitalismo e socialismo. Vice presidente di Youibot Robotics, una startup, vuole che la Greater Bay Area “decolli”, riporta il media economico. Anche le compagnie straniere con sede nell’area sono estremamente attratte dalle opportunità commerciali.

Ma nella “società civile” a Hong Kong sono in molti a temere che la città possa essere fagocitata da Shenzhen, e quindi, metaforicamente, da Pechino. Una questione di identità culturale, ma non solo.  “E’ la vecchia tattica comunista di usare la politica economica per imporre controllo politico” dichiara, sempre a Bloomberg, Sonny Lo, professore di scienze politiche all’università cittadina. “Il ponte, la ferrovia – fino ad ora i governi di Pechino e Hong Kong si sono concentrati sull’hardware”  ha aggiunto Alvin Yeung, leader di un partito di opposizione, il Civic Party. “Ma il software che rende Hong Kong unica conta di più – aggiunge – Lo stato di diritto, la libera circolazione dei capitali, che dall’altra parte del ponte mancano”.

Hong Kong gode di una propria Legge Fondamentale (Basic Law), una sorta di Costituzione, modellata sulla base della common law britannica. Nonostante il potere di interpretazione della Carta sia esplicitamente lasciato all’Assemblea Nazionale del Popolo, il testo configura un sistema profondamente diverso da quello socialista. La giustizia è amministrata sulla base del diritto britannico, e le corti possono fare riferimento, come precedenti per orientarsi nella risoluzione delle controversie, alle decisioni di altri ordinamenti di common law. La diversità è stata tollerata dai gerarchi comunisti: ma, evidentemente, solo in ottica transitoria.

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2047, LA FINE DEL SOGNO DI UN’ENCLAVE OCCIDENTALE IN ORIENTE – “Nel lungo periodo saremo tutti morti” ripeteva Keynes. Ma la Cina, paese dalla tradizione millenaria, è abituata a ragionare in una prospettiva che agli occidentali, avvezzi alla democrazia e alle brevi alternanze che porta in dote, risulta incomprensibile. E lo è perfino ai cinesi di Hong Kong, formati in scuole e università di matrice britannica. L’illusione di una enclave occidentale in Oriente, con cui sono cresciuti, e con cui speravano di morire, potrebbe finire presto.

E’ la stessa Legge Fondamentale a rendere chiara la visione di Pechino. “Il sistema socialista e le sue politiche non saranno applicate nella Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong, e il precedente sistema e stile di vita capitalista resterà invariato per 50 anni” recita l’articolo 6 della Carta. Non dice “per almeno 50 anni”:  il termine è già fissato senza possibilità di dubbio, ed è il 2047. Il nuovo ponte  è un monito: ricorda al mondo che, nell’ottica del governo cinese, la transizione della città al socialismo è data per scontata.

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economia

Tesco chiude Direct, sfida persa con Amazon e Argos

Questo articolo è stato pubblicato sul magazine Londra, Italia

 

Tesco chiuderà Tesco Direct, il servizio di vendita online dedicato a tutto ciò che non è alimentare, inclusi prodotti tecnologici, videogiochi e abbigliamento.

Il servizio chiuderà il 9 luglio. Fino ad allora gli ordini inoltrati saranno evasi, ma la prima conseguenza sarà che le consegne, che avvenivano in buona parte entro le 24 ore,impiegheranno ora tra i 2 e i 5 giorni per essere effettuate. A rischio sarebbero oltre 500 posti di lavoro tra logistica e uffici.

Tesco Direct, nata nel 2006 come costola di tesco.com ma gestito in parallelo, rappresentava il tentativo della catena di entrare nel mercato non food online. Il piano era insediare Argos e il suo click and collect e Amazon. Non solo: sotto la gestione di sir Terry Lehay la società ha operato una politica espansionistica e di acquisizioni che l’ha portata, tra l’altro, a entrare nel mercato immobiliare e a mettere in piedi una banca.  “Ma i tempi in cui ci si lanciava su nuovi mercati senza nessuna reale valutazione se potessero aggiungere o meno valore sono finiti da un pezzo” ha chiosato Steve Dresser, analista di Grocery Insight specializzato in retail, sentito dal Guardian.

Un ibrido che non ha pagato

La decisione di chiudere Tesco Direct è arrivata perché, è la stessa società a riconoscerlo, non si è riusciti a trovare il modo di rendere l’azienda profittevole. In particolare, secondo fonti della società, sarebbero stati gli alti costi di approvvigionamento, gestione degli ordini e dell’online marketing a causare il fallimento. Giganti come Amazon, che è nativa digitale, hanno una potenza di fuoco difficile da contrastare sia in termini di advertising che logistici. Tesco probabilmente ha pagato il tentativo di creare un ibrido sfruttando gli asset fisici esistenti in un mercato che si avvia alla maturità e in cui – dati i margini ridotti –  è diventato estremamente difficile sopravvivere in presenza di costi eccessivi.

“Si è trattato di una decisione molto difficile da prendere – ha spiegato Charles Wilson, da poco  alla guida di Tesco UK  – ma è un passo essenziale per impostare un’offerta non food più sostenibile e far crescere il nostro business nel futuro”.

Non si tratta, ad ogni modo, di un abbandono dell’online. Tesco intende continuare a investire nel web, ma usando un unico market. “Vogliamo offrire ai nostri clienti la possibilità di comprare prodotti alimentari e non in un luogo solo, e per questo stiamo concentrando gli investimenti su di un’unica piattaforma”.

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economia

Cashless society: il contante in Italia continua ad aumentare

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su StartupItalia!

Mentre la Svezia punta a diventare un paese completamente cashless entro il 2023, in Italia il contante in circolazione continua ad aumentare. A rilevarlo è  The European House Ambrosetti, che in un’anticipazione del rapporto 2018 sugli strumenti di pagamento digitale fornisce le cifre del fenomeno.

 

 

 

 

 

I dati mostrano un’Italia parecchio indietro rispetto ai  paesi sulla stessa curva socio-economica. Dai 127, 9 mld di contante in circolazione del 2008 si è passati ai 197,7 del 2017, con un aumento del 3,8% nel 2017. Una percentuale pari all’11,6% del Pil (superiore al 10,1% di media nell’Eurozona). Molto distante dall’Ungheria, worst performer con il 19,2%, ma altrettanto dalla Svezia, che guida la classifica con l’1,5%.

 

 

 

 

 

 

L’Italia è anche il paese dell’Unione Europea dove il valore dei prelievi da Atm è aumentato maggiormente nel periodo 2008-2016, con un +8,9%.  Esplodono, invece, i pagamenti mobile, che arrivano al 3,9% del totale ma incidono pochissimo – solo lo 0,05% – sul totale delle transazioni.

 

 

 

Si spende, però, spende di più rispetto al passato utilizzando la tecnologia: è aumentato il valore totale dei pagamenti con strumenti cashless, per un valore di 177, 8 miliardi di euro, un incremento medio, sempre a partire dal 2008, del 5,4% l’anno.

 

 

 

 

 

 

Ma nel Belpaese le carte di pagamento continuano a essere usate poco: lo dimostra il basso numero di transazioni pro-capite, 43,1 all’anno contro le quasi oltre 300 della Danimarca e Svezia, le quasi 300 del Regno Unito e le quasi 200 della Francia. Media Ue a 116,6, peggio di noi solo Grecia, Romania e Bulgaria. “Non è un problema di infrastrutture, abbiamo anche diverse eccellenze nel settore. Il problema, non neghiamolo, sta nel retail ed è spesso legato al sommerso”, spiega Lorenzo Tavazzi, direttore Area Scenari di The European House – Ambrosetti (leggi l’intervista completa in coda).

 

Idee per migliorare? Tutti i paesi che crescono di più hanno una visione sulla cashless society, notano da Ambrosetti. Non c’è da stupirsi, a questo punto, che l’Italia sia una delle 35 economie più dipendenti dal contante.

 

 

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