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Un leader che resterà nella storia

A pochi giorni dai terribili attacchi di Hamas, il 24 ottobre 2023, nel momento in cui la sola retorica della vendetta dominava i media e le dichiarazioni della politica, un unico leader ebbe il coraggio di contestualizzare e ripetere che, per quanto tragico, quanto accaduto “didn’t happen in a vacuum“. Era il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres. Un funzionario (non un politico) che sarà ricordato a lungo per l’audacia nel prendere posizioni scomode e scagliarsi contro lo status quo. Non solo in questo caso.

Con le sue affermazioni (che gli attirarono la reazione rabbiosa di Israele), Guterres consentì di fatto alla stampa di uscire dall’angolo e cominciare a raccontare un’altra versione della storia, più aderente alla realtà. La stessa che ha portato alle manifestazioni di solidarietà con il popolo martoriato di Gaza delle settimane scorse. Non è un mistero che i giornali (con poche, lodevoli eccezioni) siano pavidi di fronte al potere, agli investitori, ma anche – negli ultimi anni – al politicamente corretto. Molto di quello che leggiamo riflette la preoccupazione di non disturbare. Onore, dunque, ad Antonio Guterres, uomo vero in un mondo di pagliacci.

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Ora chi era in piazza a Milano deve tornarci

Non è che l’inizio. I fatti di Milano, con gli scontri e l’assalto alla Stazione centrale, hanno oscurato buona parte delle proteste pacifiche per Gaza di lunedì 22 settembre.  La stampa, anche internazionale, ha fatto fatica a distribuire i pesi. Anche a distanza di ore. Ricevo diverse newsletter, e ho particolarmente apprezzato quelle (un nome su tutti: Good morning Italia) che hanno titolato sul buono della piazza di ieri: grande, partecipata, sacrificata (non solo per il meteo, ma anche perché trattavasi di sciopero, e chi c’era rinunciava alla giornata di paga). La foto qui sopra è stata scattata nei luoghi della guerriglia, pochi minuti prima: non ci sono black block, perché la manifestazione è stata pacifica, e molto meno aggressiva di tante altre di questi anni, negli slogan e nell’atteggiamento.

Non è che l’inizio, perché ieri tanti sono tornati a casa e si  sono sentiti dire: “Visto, te l’avevo detto, ma lascia stare, chi te lo fa fare”. E poi il commento peggiore, quello buono per tutte le stagioni: “Non serve a niente”.

La realtà è diversa. Prendere le strade in maniera pacifica serve, eccome. La protesta di ieri sarebbe finita sui media di tutto il mondo anche se non ci fossero stati gli scontri: ci sarebbe solo finita in maniera migliore. Guardiamo i portuali di Genova, che da mesi si danno da fare per impedire il transito di merci per Israele e carichi di armi.

Per bloccare un paese non serve distruggere una città: basta incrociare le braccia. Basta sedersi per terra, come insegnano da anni gli attivisti del clima, memori della lezione di chi ha protestato prima di loro.

Disaccoppiamo la violenza dalla visibilità: le cose, anche sui media, non funzionano così. Anzi. Si passa per delinquenti, si distrugge in poche ore quanto seminato per anni. E bisogna saperlo.

Ho letto a sinistra analisi che rimarcavano come la polizia abbia manganellato. Inutile girarci intorno: ci sono casi in cui il ricorso alle maniere forti è giustificato. E chi decide di vandalizzare una città, se non è un, passatemi il termine, cagasotto, deve accettare il rischio di prenderle. Questi pusinllanimi di quart’ordine, aggressivi a parole e nei fatti, e poi pronti ad andare a piangere a favor di telecamera mostrando le ferite fanno il gioco di chi non vuole mollare Nethanyahu, in questo caso, come il governo italiano; e, più in generale, di chi si oppone al cambiamento.

Non è che l’inizio perché chi c’era in piazza deve tornarci, senza lasciarsi scoraggiare dalla cattiva pubblicità. Bisogna isolare i violenti, diluire il ricordo di quanto accaduto con dieci, cento nuove piazze e iniziative, colorate e pacifiche. Con azioni di disobbedienza civile, scioperi bianchi, boicottaggi: c’è un campionario ricco cui attingere.

Le infatuazioni durano un battito di ciglia, e chi distrugge non ama una causa piuttosto che un’altra: protesta a prescindere. Per disagio, narcisismo, vanagloria. A volte anche perché prezzolato. E’ probabile che ieri vi fossero dei provocatori, non molti, seguiti a ruota da una manica di imbecilli privi di qualsiasi capacità di analisi, e a cui non pareva vero di avere un lasciapassare.

La parte buona della piazza di ieri deve tornare sulle strade, e farlo presto. Il momento è cruciale: c’è l’anniversario del 7 ottobre, l’assalto finale a Gaza City. C’è da immaginare il futuro della Striscia, senza America e senza Israele. I tempi della diplomazia sono lunghi, ma la soluzione a due Stati, se non diventa un alibi per l’inazione, è il primo passo, e va sostenuta, ora che è vicina. Diluiamo la violenza dei professionisti della protesta con la continuità della passione civile dei molti. E continuiamo a sacrificarci per combattere questo genocidio orrendo. Noi, che nel mondo proviamo ancora a cercare la bellezza, nonostante i nostri problemi, le nostre ansie, le nostre difficoltà. Nonostante questi tempi grami.

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Qualche pensiero sulla partecipazione

Era un’esperienza legata alle grandi battaglie civili, e il riferimento in Italia sono sicuramente i radicali di Marco Pannella; negli anni è diventata una moda alimentare, non sempre con l’ausilio del buonsenso. Ma, prima ancora, era un’esperienza mistica, i cui riverberi si sentono nel Ramadan musulmano e nella quaresima cristiana. Atti politici, di penitenza, o di benessere. Ma il digiuno resta, prima di tutto, l’assenza di cibo. Una mancanza non autoinflitta. Cattivi raccolti, tempo inclemente, grande freddo o caldo: il piatto resta vuoto. Non solo. Più spesso che no è stato usato come arma di guerra. Gaza non è il primo caso:  in Somalia, per esempio, durante la guerra civile all’inizio degli anni Novanta. Ma la storia non manca di ammonimenti. Si imprime la fame nel corpo e nella mente di una popolazione per fiaccarne la resistenza, per risvegliare gli istinti animaleschi che la cività ha sopito; per riportarla all’homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’uomo), sintesi filosofica di Hobbes per qualcuno insuperata.

Quando mia moglie (che lavora in un ospedale) mi ha proposto di aderire al digiuno per Gaza di medici e operatori sanitari il 28 agosto – la campagna era aperta anche ai cittadini comuni -, ho subito accettato: apprezzavo che lo spunto arrivasse da una persona con un pensiero preciso su molte questioni del nostro tempo, ma che di solito tende a tenere per sé le proprie considerazioni quando si tratta di dimostrazioni pubbliche. Credo, invece, che ci sia bisogno di atti politici. Così, senza pensarci troppo, abbiamo cominciato queste 24 ore. Proverò a lasciare qui qualche ricordo.

Il primo è l’acuirsi dei sensi. Il corpo è sveglio, lucido, concentrato. Sin troppo. Si torna sempre con la testa al cibo, ma è come se la mente diventasse più affilata, come se sgombrasse il campo da tutto quanto è superfluo – forse il cibo è la metafora del sovraccarico interiore – . Mi ha fatto venire in mente l’esperienza del Ramadan, il digiuno dal tramonto all’alba dei musulmani, portato avanti un mese all’anno. Per domare la mente e i morsi della fame è necessario tornare alla motivazione, che, in questa maniera, viene accarezzata con costanza. Mi è diventato più semplice capire come l’atto del privarsi del cibo in nome di una ricerca spirituale possa aumentare la fede. Si tratta, in un certo senso, di un investimento emotivo, che lega chi lo pratica al suo oggetto. Tornare ogni volta, tante volte al giorno, con il pensiero alla motivazione consente di vincere la tentazione di mangiare o bere: e rinsalda, così, il proposito con la ripetizione. In tempi vacui, in cui l’attenzione mediamente non dura più di otto secondi per l’influsso dell’ecosistema digitale e visuale in cui siamo immersi, in tempi in cui è possibile parcellizzare anche il lavoro quotidiano in micro-unità da prendere e lasciare quando ci fa comodo, è sempre più raro trovare il senso della continuità. Una sorta di flusso, concetto che mima lo stato mentale sperimentato dai mistici, dove la mente è così concentrata da toccare il sublime. La sto facendo troppo lirica, forse, e le mie sono state solo ventiquattro ore: ho fatto poco. Ma ha permesso, anche a me che non salto mai un pasto, di avvicinarmi a un concetto che mi era sconosciuto.

Altra scoperta: la forza viene dalla disciplina. A volte qualcuno ti chiede come stai. Fa molto piacere, perché aiuta. Ma, inspiegabilmente, si sente un’energia diversa. Forse dovuta al fatto che il corpo non ha risorse impegnate nella digestione, e quindi ne restano di più per il resto; forse per il potere che ha la mente di favorire la secrezione di ormoni del benessere quando ci sentiamo motivati e partecipi di qualcosa di più grande di noi; forse perché, se riusciamo a vincere tante piccole battaglie, cominciamo a intravedere la possibilità di vincerne anche qualcuna più rilevante.

Non lo so. Sta di fatto che il digiuno ha rinforzato la mia motivazione a sostenere la causa di Gaza. E questo non me lo sarei aspettato: credevo fosse un atto dimostrativo, un sacrificio rivolto all’esterno; invece il suo valore è stato anche, e per una buona metà, quello di rinsaldare il mio personale proposito di fare qualcosa per quella terra martoriata; e, in generale, per le cause che mi stanno a cuore. Trovare del tempo, soprattutto. Come diceva Seneca duemila anni fa, quanto la vita era meno frenetica di oggi: non ne abbiamo poco, ne sprechiamo molto. Riuscire a riportare la mente costantemente e tranquillanente su un obiettivo aiuta. Lo yoga lo fa con il respiro. E, come spesso accade, ha ragione.

***

Fin qui la componente individuale. Ce n’è chiaramente un’altra, che distingue l’atto del digiunare per una causa da quello di ricerca interiore, di fede o di penitenza: la dimensione politica.

In questo senso, è necessario comunicare quello che si fa. Nell’epoca dei social network, è un’attività quotidiana per tutti. Eppure, ho visto che tanti hanno mostrato sincero apprezzamento, e sostegno quando ho scritto un post, come richiesto dalla campagna. Ho avuto la sensazione che, se un atto politico arriva da una persona che conosciamo o stimiamo, questo riesca a superare il filtro razionale che mettiamo di fronte alle notizie del telegiornale. Una persona a noi nota che racconta di aver fatto un digiuno per Gaza spinge a riflettere più dei resoconti degli inviati. Sto probabilmente scoprendo l’acqua calda; chi organizza campagne di comunicazione lo sa benissimo, e per questo arruola personaggi pubblici; ma fa un certo effetto sapere di avere questo potere. E non è solo di chi, lavorando nei media, ha più visibilità: è – ovviamente con gradazioni differenti – di tutti. Il concetto è che se si conosce una persona, la si ritiene credibile, e quindi ci si concede lo spazio mentale per una riflessione. Che in qualche caso porta a ripetere il gesto e a innescare una reazione a catena; più spesso resta solo un pensiero. Ma è già abbastanza.

Arriviamo al concetto di partecipazione. Come prevedibile, i commenti sui social non sono stati tutti positivi. C’è chi la ritiene una mera operazione di self marketing (difficile convincerli del contrario: ma comunque, come detto, aderivo a una campagna, e l’ho fatto, peraltro, non senza timore); altri lo ritengono inutile. Questi ultimi, a mio parere, meritano una risposta tratta proprio da questa breve esperienza. Anche qui non scopro niente di nuovo. In sintesi: la partecipazione politica è sempre positiva, in qualunque forma. L’importante è che non tracimi nella violenza. Dalla lettera al giornale al post sul social network, dalla presenza alla maniestazione, al sit-in e ovviamente al voto: tutto conta. Ci sono, chiaramente, azioni più efficaci di altre; ma ogni cosa è meglio dell’inazione. Il politico misura la temperatura alla realtà con il termometro del consenso, e sulla base di questo – che per lui si traduce in possibilità di rielezione – prende le proprie decisioni. Persino i leader autoritari stanno attenti a non esagerare, a non far “venire la febbre”, passatemi l’espressione, al popolo, perché percepiscono che, se le masse si svegliano dal torpore, hanno il potere di rovesciare qualsiasi regime (per sostituirlo con cosa? è la domanda che segue; e anche quella che, non avendo risposta, spesso blocca sul nascere qualunque atto rivoluzionario).

Da quanto sopra discende che constatare una partecipazione pubblica e coordinata a un’azione dimostrativa preoccupa chi decide; e quindi serve, eccome. Oggi gli strumenti digitali permettono molto; se poi si uniscono alla presenza fisica, questa ibridazione amplifica ancora di più. L’idea non è solo quella di mettere in piedi un teatrino social, ovviamente, anche se molti campaigner si accontentano dei like: è quella, più strutturale, di portare gli individui a riflettere, in maniera che orientino le proprie scelte elettorali e di consumo verso obiettivi in linea con i propri valori, senza lasciare la scelta al caso o al mercato con il suo potere di condizionamento. Qui si può trovare la scala della partecipazione, così come disegnata dalla scienza politica sulla base di molti anni di osservazioni. L’essenziale è ricordare che l’atto deve essere pubblico.

Vale la pena ricordare un paio di cose, al riguardo. All’inizio della guerra a Gaza (chiamiamolo pure per quello che è: un genocidio) era molto difficile, per giornalisti e cittadini, mettere le cose in prospettiva. Pur senza negare l’orrore del 7 ottobre e i massacri di Hamas, mantenere lucidità veniva di per sé associato ad antisemitismo; e in questo modo, irretendo chi avrebbe voluto protestare, si giustificava qualunque eccesso. Se l’inerzia è cambiata e oggi ci si può esprimere liberamente  si deve a quei pochi che, sin da subito, hanno con coraggio e non senza timore operato dei distinguo, rischiando pesanti accuse – e anche il lavoro, in certi casi – ; e al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che un mese dopo il massacro precisò, dopo aver espresso solidarietà agli israeliani, che it didn’t happen in a vacuum (non è successo senza contesto). Quello che dice Guterres, ogni volta che si pronuncia, è notizia per qualunque giornale: e così anche chi era timoroso si è sentito autorizzato a riportarne le parole, e a sdoganare un concetto fondamentale per capire quello che sta accadendo in Medio oriente.

La seconda cosa è che i politici sono abili con la comunicazione: e che oggi, domani e per sempre, un governo e lo stesso Nethanyhahu potrebbe infilare quelli che non si sono espressi di fronte al genocidio di Gaza nel conteggio di chi non era contrario: e questo è intollerabile.

Chiudo con un’ultima considerazione. Ancora una volta ho visto che la migliore risposta all’aggressività è ignorarla; e, se proprio si vuole rispondere, argomentare abbassando i toni. Inutile lasciarsi trascinare: anzi, è degradante. Spero che questo lungo flusso di pensieri possa stimolarne altri.  

(Nella foto, medici di un ospedale marchigiano in digiuno. Altre potere trovarle sotto l’hashtah #digiunogaza)

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Gaza, tre punti fermi

“Per favore, basta con le donazioni in denaro” dice Maha Hussaini, giornalista e attivista palestinese. “Il soldi a Gaza sono inutili dal momento che non c’è niente da comprare nei supermercati” afferma postando la foto di uno scaffale vuoto. Intanto i medici locali rispondono ai colleghi israeliani che avevano affermato in una lettera che bombardare l’ospedale di al-Shifa, il più grande centro medico di Gaza, fosse un “diritto legittimo”. “Avete tradito la vostra nobile professione e ne portate la responsabilità” scrivono. “Come medici siamo ambasciatori di pace”.

A un mese dallo scoppio delle ostilità, la domanda è: come se ne esce? Forse le parole più sensate che ho letto finora sulla guerra Israele – Hamas sono di Stefano Mannoni (giurista dell’Università di Firenze), pubblicate da Milano Finanza.

Il conflitto ha già fatto oltre diecimila morti palestinesi (molte migliaia sono bambini, come sottolineava il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres). Croci che vanno aggiunte alle 1.400 vittime israeliane dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, e sommate ai feriti, alle devastazioni, ai traumi psicologici che ci porteremo dietro a lungo.

“[….] A mio parere – scrive Mannoni – ne discendono un certo numero di conseguenze. La prima è che gli abitanti di Gaza sono le prime vittime di Hamas e non possono pertanto diventarlo due volte – siamo arrivati a 10.000 morti dichiarati – per la sistematica violazione da parte delle forze armate israeliane dei più basici principi di necessità e proporzionalità sanciti dal diritto internazionale umanitario. La punizione collettiva inflitta ai civili, che comincia a innervosire anche gli americani, deve cessare. Si chiamino pure «pause umanitarie», ma esse devono essere implementate con tutto ciò che ne consegue in termini di approvvigionamento della popolazione. […]

In secondo luogo Benjamin Netanyahu, che aveva posto come punto programmatico del suo governo l’affermazione della sovranità israeliana su «Giudea e Samaria» (sic! Tradotto: Cisgiordania occupata) si deve dimettere insieme ai ministri etnoreligiosi che ha imbarcato nel gabinetto, Ben-Gvir e Smotrich.

Terzo, è necessario immaginare un mandato fiduciario delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea su Gaza e Cisgiordania, strettamente temporaneo, per realizzare quello che si chiama lo State building in aree nelle quali le inadeguate dirigenze palestinesi hanno dilapidato fiumi di denaro in corruzione e armi.

Solo a queste condizioni, la soluzione dei due Stati, rispolverata dal cassetto dopo due decenni di oblio, può sperare di piantare qualche radice profonda”.

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Guterres: “Gli attacchi di Hamas non nascono dal nulla”

“Gli attacchi di Hamas non nascono dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”. Mentre l’Europa e Ursula von der Layen latitano e si accodano agli americani nel sostegno incondizionato alla vendetta di Israele contro Hamas (dal momento che Bruxelles conta nulla a livello internazionale, difficile aspettarsi altrimenti; stupisce però lo zelo della tedesca), il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres, noto per le prese di posizione audaci contro il greenwashing di multinazionali e finanza, apre la riunione del Consiglio di sicurezza dedicata al Medio Oriente con l’unica dichiarazione di buonsenso giunta da un grande leader internazionale in tre settimane. Parole che inquadrano l’accaduto in una cornice storica, senza cedere all’emotività e alla retorica.

“Le sofferenze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas” ha precisato però Guterres.

Che ha aggiunto come “i terribili attacchi” di Hamas “non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese”, parlando di “chiare violazioni del diritto umanitario” a Gaza. Guterres ha chiesto un cessate il fuoco “immediato” per alleviare la “sofferenza epica” della popolazione di Gaza. “Nessuna parte in conflitto è al di sopra del diritto internazionale umanitario”.

L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha replicato al numero uno dell’Onu, ne ha chiesto le dimissioni.

#israele#gaza#hamas

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esteri, unione europea

Su Israele “l’UE rischia di perdere ogni credibilità”: lettera dei dipendenti a von der Leyen

Ottocentocinquanta dipendenti delle istituzioni europee (su circa trentaduemila) hanno firmato una lettera indirizzata a Ursula von der Leyen che ne critica il “sostegno incondizionato” a Israele. La notizia è stata riportata da Euractiv. Si tratta di un atto insolito, perché a Bruxelles il personale è abituato a girare tra dipartimenti e uffici nel corso di una carriera che resta ambita, ed è, pertanti, attento a costruirsi un percorso in grado di adattarsi agli inevitabili cambi di vento. Non questa volta.

“In particolare, siamo preoccupati dal supporto incoindizionato della Commissione europea che lei rappresenta per una delle due parti” si legge. “Noi, un gruppo di dipendenti della Commissione e altre istituzioni Ue, condanniamo solennemente su base personale l’attacco terroristico perpetrato da Hamas contro civili inermi […] Ma condanniamo ugualmente e con forza la reazione sproporzionata del governo israeliano contro i 2,3 milioni di civili  palestinesi intrappolati nella striscia di Gaza”. “Proprio per via di queste atrocità, siamo sorpresi dalla posizione presa dalla Commissione europea – e anche da altre istituzioni – che hanno promosso quella che sulla stampa è stata descritta come ‘cacofonia europea’ “. I firmatari si dichiarano preoccupati per “l’apparente indifferenza dimostrata nei giorni scorsi dall’istituzione nei confronti del massacro di civili a Gaza, in violazione dei diritti umani e delle leggi umanitarie internazionali”.

Nei giorni scorsi era arrivato il dietrofront della Commissione dopo che il commissario ungherese all’allargamento Oliver Varhely aveva annunciato che l’esecutivo di Bruxelles avrebbe tagliato “tutti gli aiuti” ai Palestinesi, generando la reazione delle altre entità politiche comuni – la posizione dell’Unione viene espressa dal Consiglio, cioè dagli Stati membri, e le sfumature sono parecchie. “Vi invitiamo con urgenza a invocare, assieme coi leader di tutti gli Stati [membri], un cessate il fuoco e la protezione della vita dei civili. Questo è il cuore dell’esistenza europea” hanno aggiunto i firmatari. “L’Europa rischia di perdere ogni credibilità”.

Sabato 22 ottobre un summit per la pace organizzato al Cairo si è concluso senza una dichiarazione finale: il blocco occidentale chiedeva di inserire nel testo solo un riferimento all’attacco di Hamas, senza menzionare i raid israeliani su Gaza. L’opposizione degli altri partecipanti ha portato il vertice a chiudersi con un nulla di fatto.

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Il Dio della vendetta

Sembrano ultras di una nazionale di calcio dopo la vittoria inaspettata di un mondiale. Sfilano per le strade su pickup Toyota con i corpi dei nemici a bordo, vivi o morti fa poca differenza. Esultano, fucile in braccio, tra la folla urlante, che li riprende col telefonino, uomini, donne, ragazzini in maglietta col cappellino Nike girato. Perché, come spesso capita, non hai l’acqua, ma il gadegt firmato sì, quello che ti illude di essere un po’ come loro, e in realtà scava goccia a goccia il fossato della consapevolezza: come loro, quelli dall’altra parte del muro, coi bei vestiti, le belle scuole, il lavoro alla moda, non lo sarai mai. Invece degli slogan legati al pallone, sbraitano Allahu Akbar; e dalla frequenza ossessiva, completamente avulsa dal contesto, dal tono rabbioso, dalla pronuncia sguaiata, capisci che in chi urla non è presente alcuna di elaborazione; è sfogo primordiale, è isteria collettiva, è nevrosi, forse transitoria psicosi. Distacco dalla realtà, quando è la personalità della massa a prendere il posto dell’individuo; un animale che si nutre degli istinti più bassi, istintivamente consapevole che la folla protegge, la folla esalta, la folla innalza e dà forza. La folla vendica il sangue col sangue.

La vendetta di Israele calerà come una scure biblica. Senza pietà. Senza distinguo. Il Dio – ma dov’è Dio, oggi? – rabbioso del Vecchio Testamento arma la mano dei figli di Davide, e vendicherà i morti.

Nessuno può giustificare la violenza brutale di Hamas, di cui sono piene le immagini dei notiziari di questi giorni. Ma chiediamoci se ha senso reagire allo stesso modo, fino a che punto ci si può spingere per vendicare i propri morti quando si è uno Stato civile e non un’organizzazione paramilitare. Qual è la differenza? Se una differenza c’è.

I falchi dicono che gli arabi, quegli arabi, non capiscono altro linguaggio che quello brutale della forza. Senz’altro i terroristi che hanno invaso Israele uccidendo e gettando granate persino in fondo ai bunker dove la gente si era rifugiata in cerca di riparo erano bestie senza legge: come quelli dell’11 settembre, come quelli del Bataclan, raccontati da Emmanuel Carrere nelll’ultimo libro mentre erano alla sbarra in un tribunale parigino.

Il punto è forse proprio questo. Uno Stato civile fa processi. Reagire con violenza pari o superiore all’affronto per ripristinare la deterrenza ha senso? Si può realmente sperare che una popolazione disperata, affamata, senza acqua, costretta a vivere schiacciata in pochi chilometri quadrati, possa cambiare idea?

Senza voler scomodare la filosofia morale, un mero e cinico calcolo politico dovrebbe suggerire il contrario.

Il terrore è mancanza di elaborazione, è paura, assenza di appigli, di speranza in un futuro; si stanno allevando due milioni di persone pronte a tutto, a ridere sul cadavere di un uomo martoriato, a farsi saltare in aria, ad attraversare il confine in deltaplano a motore per non perdersi l’assalto, scena tra le più comiche tra quelle viste nei conflitti di ogni tempo.

Io penso che la gente di Israele e Palestina abbia governanti peggiori di quelli che si merita. Governanti che non sono in grado di proteggerla se non facendo abbaiare le armi. Ma Israele è uno Stato compiuto, dove esiste un dibattito pubblico, è una democrazia in grado di tollerare anche le – e non mancano – voci dissenzienti. A Gaza tutto questo non c’è. Parliamo di una società regredita a connotazioni tribali. E spinta sempre un passo più indietro. Reagire in questo modo è un suicidio, un veleno distillato a gocce. Ogni giorno che passa è un anno in più di guerra futura, un anno in più di insicurezza. Il diritto ha superato la legge del taglione dei tempi di Hammurabi. I crimini di guerra sono tali anche se commessi per reazione. Che la comunità internazionale intervenga, una buona volta, se l’Onu, che di questo scempio è responsabile, serve a qualcosa.

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