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Perché Draghi premier non è una buona idea

Non è un deus ex machina. Mario Draghi è un grande banchiere, un uomo di polso e di esperienza che ha saputo guidare con mano ferma l’euro fuori dalla crisi del 2012. Ma mitologicizzarlo (neologismo voluto) come l’uomo che salverà l’Italia nella fase post pandemica è un errore. Innanzitutto, perché Draghi è un tecnico, non un politico.

Già nel 2011 a Mario Monti toccò l’ingrato compito di governare l’Italia. Gli fu chiesto, e l’assolse come poteva, con rigore professoriale e assumendosi la responsabilità di scelte impopolari assieme a Elsa Fornero. Scelte necessarie (la riforme delle pensioni lo era, esodati a parte).

Per tutta risposta, l’ex rettore della Bocconi fu bistrattato da molte forze politiche negli anni a venire, anche da chi l’aveva sostenuto. Dai populisti e dagli altri, almeno da quelli che amano farsi trovare sempre dove spira il vento.

Non è strano. La storia  insegna da secoli che i tecnici al potere (tecnocrazia) sono spesso impopolari, quando non rischiano di far danni. Possono essere utili in certe fasi, ma il rigore del cattedratico va temperato con le virtù della mediazione e del compromesso, la sensibilità nel sapere leggere i tempi, la capacità di comunicare al popolo le decisioni assunte. 

Ora, Draghi non ha mai avuto bisogno di comunicare, e conosce, probabilmente, sin troppo bene quali sono i problemi dell’economia italiana per perdere tempo. Non è un mistero: sono noti a tutti gli economisti, non conta la scuola di pensiero

C’è un Sud che viene trascinato e non è in grado di partecipare alla spinta, ci sono corruzione, evasione fiscale, criminalità infiltrata nella pubblica amministrazione, nepotismo, assenteismo, clientelismo. Parole che un politico conosce bene, sa maneggiare; lemmi, insomma, di fronte a cui non si scompone, ma che sono in grado di instillare un senso di profondo fastidio nel tecnico abituato a ragionare nell’empireo delle proprie conoscenze, e a rivolgersi a una platea che parla (bene) la sua lingua. In compenso, nel nostro paese mancano ricerca, innovazione, merito, sburocratizzazione, meno sussidi e più mirati. Agire è necessario, ma, oltre a mano ferma, serve gradualità. 

Per questo Draghi, a mio avviso, non accetterà mai di fare il presidente del Consiglio: si troverebbe con le mani legate al momento di intervenire, non potrebbe incidere, e, se lo facesse, finirebbe a fare da parafulmine fino alla fine della legislatura. A meno che, ovviamente, non possieda un lato nascosto e un’ambizione che ancora non gli conosciamo, capaci di renderlo immune al fuoco di fila a cui sarebbe sottoposto anche da parte di chi oggi lo invoca. 

Veniamo, così, a un altro fatto. Qualcuno nei giorni scorsi si è meravigliato di vederlo al meeting di CL a Rimini. Il fatto è che di Mario Draghi sappiamo, certo, molto; eppure, alla fine, quasi nulla. Nonostante abbia passato i settant’anni e sia rimasto a lungo sotto i riflettori, il suo understatement è proverbiale. Lo imponeva il ruolo, non meno del carattere.

Ma chi è il Draghi privato cittadino? Quali sono i valori in cui si riconosce? Che tipo di figure ammira, e che cosa pensa degli ultimi quarant’anni di vita del paese, quelli, cioè, su cui esporre un pensiero significa sbilanciarsi?

L’ex presidente della Banca Centrale Europea è stimatissimo all’estero, e questo potrebbe aiutare; ma non illudiamoci che non sia un rigorista alla Monti. Non potrebbe essere altrimenti, dato il suo percorso, anche distinguendo tra “debito buono” e “debito cattivo”, come ha fatto nel corso dell’intervento a Rimini.

Lui, per il momento, sembra non pensarci, a salire a Palazzo Chigi. E forse le speculazioni sul suo nome sono solo il tentativo di destabilizzare il governo in carica. Il solito giochetto. Troppo facile, così.

Non ci sono, purtroppo, sostituti all’altezza per il presidente del Consiglio al momento. Non lo è certo Zingaretti, men che meno il leader della Lega. Conte, dal canto suo, gode del non trascurabile vantaggio di avere imparato dal nulla a fare il premier in due anni, grazie a talento innato e  una robusta dose di applicazione. Ha affrontato bene l’emergenza; quello che gli manca, al momento, è la visione. Dovrà dimostrare, ricostruendo, di essere un leader vero, ma cambiare in corsa senza alternative non è utile. 

All’Italia serve un presidente dotato di pensiero ad ampio spettro, capace di canalizzare il disagio del paese e che disponga di una solida rete di relazioni e conoscenze, di quelle che si sviluppano in anni di politica e lui ha solo da poco cominciato a costruire.

Perché, come diceva Rino Formica, “la politica è sangue e merda” e alla fine le cose funzionano meglio se chi è al comando è capace di sporcarsi le mani. E Draghi, nei suoi abiti impeccabili, nelle sue espressioni più british di quelle dei britannici (non dimentichiamo che a Downing Street siede Boris Johnson) mi sembra inadatto a prendervi parte, se non come arbitro.

Servirebbe, insomma, una figura alla Renzi. Carisma, strategia, polso. Peccato che l’ex segretario del PD abbia dimostrato più volte un narcisismo superiore al senso dello Stato,e non sia, quindi, un papabile. Persino un Berlusconi avrebbe potuto andar bene, e chi scrive non è mai stato un fan del Cavaliere; ma ha superato ampiamente i limiti di età.

Rebus sic stantibus, se davvero si vuole cambiare cavallo, meglio cominciare a studiare soluzioni effettivamente praticabili. Sono convinto che Draghi non ci starà a fare l’agnello sacrificale di cui la partitocrazia ha bisogno per riprodursi tal quale.

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Fine di Renzi, Lega al 17%: l’Italia ai Cinque Stelle

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Londra, Italia.

MILANO – La sala si svuota, gli esponenti politici se ne vanno, i ragazzi, mesti, si guardano tra loro. Nessuno parla. La maratona elettorale al comitato PD di Milano finisce a mezzanotte e trenta, con le prime proiezioni. Una scena lunare. “Quando cadi così in basso non puoi che risalire”. “L’abbiamo detto tante volte”. Si sapeva, ora lo ammettono dopo le frasi di circostanza delle scorse ore. Ma fa sempre male.

Mentre la Milano democratica va a dormire, ce n’è un ‘altra che festeggia. E’ quella di Salvini, in via Bellerio, che con il 17 % quadruplica il risultato di cinque anni fa.

Ma sono state le elezioni del Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, che sfonda la soglia del 30 per cento.
Cosa accadrà adesso, nessuno lo sa.
Tutto dipende dai pentastellati, da come decideranno di capitalizzare il risultato.

Una campagna elettorale povera di contenuti, mai come questa volta giocata sulle paure e sull’immagine. Il trionfo della politica – spettacolo.
Silvio Berlusconi, il grande comunicatore, è sembrato antiquato, e non solo per sopraggiunti limiti di età. Oggi la comunicazione politica si fa con Instagram, le televisioni non bastano.

“Renzi è morto” proclama qualcuno. Caduto in disgrazia, dopo i trionfi del  2014. Mai si era vista una fine tanto repentina per un leader. Non in Italia, almeno. Vittima del proprio ego, senza i denari dell’uomo di Arcore, anche il partito gli si è rivoltato contro.

Arrogante. Troppo. Questo gli rimprovera la gente, questo gli rimproverano i suoi. Mentre Salvini soffiava sul fuoco della paura degli immigrati, e il Movimento Cinque stelle, via il capo dei vaffa, si normalizzava con Di Maio.

Ora la speranza è che i grilini accettino di diventare forza di governo e non ripetano il copione scontato del 2013. Non sarà facile; ma non è impossibile. Molti  hanno fatto esperienza nei palazzi, compreso che guidare un paese è molto diverso dal contestare lo status quo. Basta non illudersi che la democrazia del web possa decidere su questioni vitali; per quelle, a volte, basta il buonsenso.

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Pubblicità e politica: online è il far west

Lo suggerisce il Guardian con la solita intelligenza, e del resto il tema è attualissimo. Mentre la pubblicità elettorale sui media tradizionali (Tv, radio, manifesti) è ampiamente regolamenta, quella online è terra di nessuno e, in buona parte, inesplorata. Soprattutto dal legislatore. Il quotidiano inglese la paragona al “wild west” di Sergio Leone, dove gli sceriffi fanno tappezzeria e i conti si regolano con le pistole.

Dai sondaggi alla “par condicio” alla cosiddetta “pausa di riflessione” prima del voto, nelle democrazie moderne ogni aspetto sensibile è sottoposto a normativa. L’obiettivo, nobile, è evitare che chi è in grado di condizionare i media possa sfruttarli a proprio vantaggio. In Italia sappiamo che un modo per comprarsi il consenso si trova comunque: basta possedere tre reti nazionali, un quotidiano, quattro o cinque mensili, una casa editrice  e qualche amicizia che conta. Trump ha imparato la lezione così bene che, da palazzinaro e protagonista di reality, si è ritrovato a Washington in un battito di ciglia.

Ma c’è poco da stare allegri. I database di Facebook contengono migliaia di post per ogni utente e la creatura di Zuckerberg consente per definizione di inviare pubblicità profilata. Per capire a chi, ci sono società più piccole come Cambridge Analytica che sono in grado di creare profili elettorali bersaglio incrociando “big data and psychographics” (che tradurrei con “psicografiche”, sul modello delle ormai diffusissime infografiche). Significa che chi è sensibile  alla povertà e si commuove di fronte alle immagini shock, sarà bombardato da messaggi toccanti. Un tipo analitico, invece, riceverà reports a base di  numeri e istogrammi. Molto più persuasivo, no?

Le conseguenze possono essere pesanti. Nelle elezioni del 2015 i Conservatori in UK spesero 1,2 milioni di sterline in advertising online, il Labour solo 160mila. Il risultato fu l’inaspettata elezione di David Cameron che avrebbe condotto, l’anno seguente, al referendum sulla Brexit.
Già allora Politico.com si chiedeva se la tecnologia stesse rendendo inaffidabili i classici sondaggi.

Il problema oggi è dannatamente serio, e configura una delle sfide più interessanti per il diritto. La sfida per il legislatore è duplice. In primo luogo, capire come intervenire a livello nazionale senza ledere le libertà fondamentali. In secondo luogo obbligare le grandi corporation multinazionali come Facebook, che possono piazzare i server dove vogliono, ad adeguarsi.

Un’altra dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia essenziale l’Unione Europea. Siamo sicuri che l’Italia una partita del genere possa, non diciamo vincerla, ma semplicemente giocarla?

@apiemontese

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La vittoria di Macron dà fiato all’UE

Emanuel Macron è il nuovo presidente della Francia. Il non ancora quarantenne ex ministro dell’Economia di Hollande, enfant prodige formato alle scuole più prestigiose di Parigi, europeista dichiarato quando la parola appariva un peso anche per i più convinti, ha sconfitto al ballottaggio Marine Le Pen, figlia di Jean Marie, madre e padrona del Front National, partito xenofobo che prometteva un’uscita dalla moneta unica, se non dall’Unione.

La Francia ha opposto una diga al populismo di questi mesi, che mai come oggi ha avuto l’occasione di confrontarsi a viso aperto nell’agone politico non come forza anti-sistema, marginale, di colore, ma come scelta alternativa  e di maggioranza. Già Jean Marie Le Pen arrivò al ballottaggio nel 2002 con Chirac, ma più per un “bug di sistema”, una conseguenza imprevista nel gioco delle alleanze, che con vera credibilità. Avrebbe potuto vincere, tecnicamente, ma il FN, allora, era un marziano ritrovatosi improvvisamente sulla Terra.

Nel 2017 la questione è diversa. Prima di Le Pen, c’è stato Trump. Prima di Trump, il referendum sulla Brexit. Eventi che hanno dato fuoco alle polveri del populismo, mostrando che sì, è possibile fare l’impensabile, solleticando gli istinti di elettori in massima parte poco informati ( e come potrebbero esserlo?) sul peso di determinate scelte. Particolare non da poco: nessuno, al momento, ne ha ancora visto le conseguenze. La Brexit non è ancora avvenuta, se mai avverrà, e ci vorrà del tempo per mostrare a tutti, dati alla mano, quale ne sia la portata; Trump è al potere da poco più di 100 giorni, e si trova con una situazione “tremendamente vicina alla piena occupazione” (come titolava il New York Times di ieri) che solo chi è in malafede non riconosce eredità dell’amministrazione precedente. Quella di Obama, che nel suo doppio quadriennio ha fronteggiato la crisi più dura dai tempi della Grande Depressione ed è riuscito a tenere il Paese in piedi, anche se le disuguaglianze aumentano e il lavoro di qualità scarseggia.

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Se la Francia fosse “caduta” nella trappola del populismo, l’Europa avrebbe perso uno dei membri fondatori, e sarebbe stata, probabilmente, la fine del sogno. Le spinte centrifughe si sarebbero diffuse, ringalluzzite dal successo di chi promette miracoli a buon mercato ma, più banalmente, pensa al proprio tornaconto, a breve termine peraltro.

La seconda consultazione importante del 2017, dopo quella dell’Olanda, ha, invece, arriso all’Unione con una vittoria schiacciante. Manca la Germania, a settembre.

Macron ha vinto, e lo sa bene, solo perché dall’altra parte c’era un candidato come Le Pen. Governare sarà cosa diversa. I francesi, scampato il pericolo, già lo aspettano al varco, anche quelli che hanno votato per lui.

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Guardando le immagini del giovane neopresidente che arrivava sul palco allestito al Louvre per il suo primo discorso sulle note dell’Inno alla Gioia, ho ripercorso mentalmente  le pagine della storia francese a partire dalla Rivoluzione. Da quell’atto, cioè, di rivolta contro il potere che sta alla base del mondo moderno. Li odiamo per il calcio, ma, con onestà, dobbiamo riconoscere la grandezza di un popolo che ha dato molto al mondo sotto il profilo delle istituzioni. E all’Europa in particolare. Libertè, egalitè, fraternitè sono le parole che caratterizzano il Continente meglio di tutte e marcano la differenza con il mondo anglosassone. Non è il “diritto” alle felicità della Costituzione Americana (ma la felicità è un diritto? O forse un regalo della vita?), non è il pragmatismo british che non si scompone di fonte a nulla. E’ la visione dell’individuo, e non del successo, come metro e misura di tutte le cose. Del resto, osservava già Weber, l’etica protestante è molto diversa, e forse più adatta al capitalismo. In Europa, invece, si parla di economia sociale di mercato, e ci si svena per tenere in piedi un sistema che allo sviluppo economico unisca le tutele per i più deboli. A volte, si esagera anche. Ma è la realtà.

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Si è discusso per anni se l’Europa avesse senso. Sì, ce l’ha. Oggi nessuno si preoccupa più di cambiare valuta, si può circolare senza problemi, investire e cercare lavoro in uno spazio geografico vastissimo e multiculturale, dove sono garantite le libertà fondamentali e l’individuo è messo al centro del discorso politico. Di fronte a un povero, non pensiamo che non si è impegnato abbastanza e che ciascuno ha quello che si merita; ragioniamo sul fatto che la vita può essere cattiva, e non è sempre giusta.

In questi anni, per la prima volta, le elezioni di uno stato incollano alla televisione anche i cittadini dell’altro, come accade solo nelle grandi compagini federali. Provate a pensarci. Le decisioni dell’uno impegnano e hanno conseguenze a cascata. Comincia a crearsi un’opinione pubblica europea. Non era così, fino a poco fa.

Esiste una generazione di studenti ed ormai quasi quarantenni che ha studiato all’estero, ha amici, case, lavoro e fidanzate in uno qualsiasi dei paesi membri. E’ possibile aprire un mutuo o un conto in banca, dove si vuole. A giugno tramonterà l’epoca del roaming sulle chiamate internazionali, e si potrà telefonare senza problemi ovunque e verso ovunque. L’Unione Europea ha garantito il più lungo periodo di pace e prosperità della storia continentale.

Certo, soffre ancora di paralisi decisionale, è ingessata dall’eccessiva burocrazia, l’inglese non è ancora la lingua franca e a Bruxelles mandiamo non i migliori politici, ma gli scarti.

Ma guardando Macron, uno della mia generazione, parlare sul palco, confesso di aver avuto le lacrime agli occhi. Si è sciolta in un istante la paura che tutto quanto abbiamo costruito in questi anni si fosse perso sull’onda della rabbia del momento, che la democrazia si fosse rivoltata contro se stessa ancora una volta (succede) e che la rabbia avesse prevalso sulla ragione. I francesi hanno dato una lezione al mondo; contestatori per indole, hanno saputo ragionare. Del resto l’Illuminismo è nato lì.

Una considerazione finale. Il duello Macron-Le Pen è ricco di aspetti edipici che potrebbero non significare nulla, o forse qualcosa dicono. Macron è sposato dal 2007 con Brigitte Trogneaux, ventiquattro anni più anziana. La loro relazione cominciò quando lei insegnava nel liceo dove lui era studente. La famiglia del giovane Emanuel spedì lui in un altro istituto; lei si sposò e fece figli. Si rividero anni dopo, il resto è storia. Macron è diventato il padre acquisito di ragazzi poco più giovani di lui, in un gioco in cui  i ruoli si mischiano e che ha prodotto una personalità sicuramente interessante. Brigitte è stata, forse, un po’ madre, una guida senza dubbio, e non c’è dubbio abbia avuto un ruolo nel suo percorso. Un ruolo che, con ogni probabilità, avrà anche all’Eliseo. Qualcuno ha scritto che, se la vicenda non fosse accaduta in un contesto alto-borghese, lui sarebbe finito ai servizi sociali e lei in prigione. Vero. Chissà: magari sarebbe stato un errore.

Marine Le Pen, dal canto suo, sei anni fa commise il “parricidio”, prendendo il posto del genitore alla guida del Front National, e addirittura espellendolo dal partito. Da allora, tra i due, è guerra. Il Fn era la creatura del vecchio Jean Marie che mai, mai si sarebbe aspettato un tradimento dalla figlia.  Ma ormai era diventato vecchio e ingombrante, e finì rottamato. L’irruenza di Marine, l’ansia di rompere con il passato restano a galla in questa giornata di sconforto. Chissà che cosa starà pensando il vecchio leone dalla sua poltrona. E chissà che la sconfitta e lo scontro con la realtà conducano la bionda leader a posizioni politicamente più mature. Chissà che non possa proporsi come una leader credibile, non populista, per la destra francese. Probabile? No. Possibile? Forse.  Basta mettersi en marche. 

Antonio Piemontese
@apiemontese

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Referendum 4 dicembre, le ragioni per dire sì

Non c’è certo bisogno di un’altra voce nel frastuono di opinioni sul referendum costituzionale del 4 dicembre. E poi, prendere posizione su una questione del genere espone a un rischio: quello di trovarsi, fra qualche anno, a dover difendere le conseguenze della propria scelta.

Ciò premesso, nascondersi è, probabilmente, peggio. Tanto più che il dibattito ha assunto toni da stadio e sono in pochi ad aver letto la riforma. Per la cronaca, bastano un paio d’ore.

Un documento molto utile si può trovare a questo link. L’autore ha messo a confronto il (vecchio?) testo della Costituzione con il nuovo. Preciso che non conosco la fonte, ma mi sembra un lavoro scarno e ben fatto. L’essenziale per farsi un’idea. Se non altro, serve a mettersi la coscienza a posto.

I PUNTI CRITICI – Le questioni poste dal fronte del NO mi sembrano essenzialmente tre: l’accoppiata riforma costituzionale – Italicum, che determinerebbe uno scadimento della democrazia;  la maniera in cui il Senato verrebbe riformato; i rapporti Stato-Regioni.

Tralascerei il primo argomento: Renzi si è detto disposto a modificare l’Italicum, procedura per cui basta la legge ordinaria. Ovviamente la legge elettorale è importante per un paese sano: la scelta fra maggioritario e proporzionale è quella tra un sistema volto a garantire la governabilità e uno che predilige la rappresentatività. Una questione complessa, che merita ben più ampia trattazione. Ponendoci nella condizione che lo faccia, facciamo un passo avanti e spostiamoci al resto.

Dopo la riforma, il Senato passerà a 100 membri. Si poteva abolirlo, si è scelto di mantenerlo. Non mi dispiace, a dire il vero. Rappresenterà le Regioni (ma era già eletto su base regionale, e l’intento dei costituenti era proprio quello di garantire rappresentanza ai territori). Sicuramente il fatto di mandare a Roma sindaci e  consiglieri regionali poteva essere evitato perché attendere bene a un compito solo è già molto, soprattutto a certe, mediterranee, latitudini. Ma tant’è.

Si fornisce sicuramente potere ai partiti, nell’ottica di una democrazia rappresentativa che medi le istanze del corpo elettorale. Ma con una legge elettorale valida a livello locale – e quella che elegge i sindaci lo è –  si potrebbe, in via teorica, selezionare una classe di politici competenti a portare nella Capitale i bisogni dei territori.

Preciso, per dovere di cronaca, che preferirei l’elezione diretta dei senatori, sul modello americano. Ma si tratta di un dettaglio che potrebbe essere oggetto di ulteriore riforma fra una decina d’anni, il tempo di verificare la validità della proposta attualmente in discussione: queste valutazioni, l’esperienza insegna, si possono fare solo “sul campo”.

A garantire una base di democraticità, il fatto che, in fondo, i nuovi senatori saranno uomini e donne già eletti una volta; toccherà, poi, alle segreterie scegliere che spedire a Roma facendo convergere i voti su questo o quel candidato.

Il nuovo Senato non avrà il potere di votare la fiducia al Governo, né di approvare leggi ordinarie. Queste prerogative spetteranno solo alla Camera dei Deputati (che resterà eletta dai cittadini), tranne alcune eccezioni (ad esempio le leggi costituzionali). I senatori potranno, dal canto loro, proporre a Montecitorio disegni  di legge, gravati dall’obbligo di esaminarli nel giro di qualche settimana.

Sulle leggi votate alla Camera, invece, il nuovo Senato potrà esprimere un parere non vincolante, senza però bloccarle.

Nel complesso, mi sembra che questa riforma raggiunga l’obiettivo di delineare  un processo decisionale più snello: la “navetta” parlamentare, per cui ogni modifica da parte di una delle Camere provocava con effetto immediato la ripartenza dell’iter, è evitata.

Camera e Senato hanno spesso visto maggioranze differenti, e con il “vecchio testo”, i compromessi non potevano che essere al ribasso, producendo leggicchie spesso inutili e difficili da superare, anche perché, nel loro cerchiobottismo, non scontentavano mai completamente nessuno.

Il tema della accountability (la responsabilità) è affrontato: si sa di “chi è la colpa” di questa o quella politica, e dopo cinque anni si può decidere di votare diversamente.  Che poi questo accada davvero, in un paese legato alle appartenenze ideologiche più che ai programmi, è un altro discorso. Ma è giunta l’ora, anche per gli elettori, di farsi un esame di coscienza: Berlusconi non si è eletto da solo, i corrotti della Prima e Seconda Repubblica tantomeno.

Nel nuovo testo, è tutelato il ruolo del presidente della Repubblica, e anche la figura del presidente del Consiglio risulta invariata, a differenza di quanto accadeva nella riforma del 2006 (centrodestra), poi bocciata alle urne.

IMMUNITA’ – Altro tema, sollevato da Marco Travaglio e dal suo Fatto Quotidiano: i senatori continueranno a godere dell’immunità parlamentare, esattamente come accade ora. Il timore del giornalista è che un Palazzo Madama svuotato di competenze si riduca ad ad essere, semplicemente, ricettacolo di figure impresentabili da proteggere dalla giustizia. Gli anni del Porcellum hanno mostrato come si possa sfruttare il Parlamento per far eleggere, tramite liste bloccate, ogni sorta di impresentabile alle prese con i tribunali. L’Italicum, che quelle liste ripropone, non aiuta; ma è un fatto che anche le preferenze abbiano prodotto clientelismo e corruzione. Ripeto, si tratta di un tema diverso, che va affrontato separatamente  tramite legge ordinaria, e non pregiudica la validità della riforma nel suo complesso. Il dibattito dovrà essere ampio, questo è certo.

Renzi osserverà che l’immunità era stata prevista già dai padri costituenti: ma allora si voleva garantire che i membri del Parlamento esercitassero liberamente le proprie funzioni. Mancando queste, ne decadono i presupposti.  Più probabilmente, si è trattato di una concessione alla vecchia politica, sempre ansiosa di salvacondotti da usare alla bisogna. Si perde, certo,  un’occasione, ma si tratta di una questione secondaria che potrà essere risolta in seguito.

COMPETENZE –  Quelle del  nuovo Senato, come già detto, saranno ridotte all’osso: in parole povere,  rappresentare le istanze locali davanti  alla Camera e al Governo e poco altro, ai fini pratici. E allora perché non privarsene del tutto? La prima ragione è squisitamente politica: un organo di raccordo serve, ed è previsto in quasi tutti gli ordinamenti parlamentari. La seconda è umana: credere che i parlamentari avrebbero votato facilmente un’auto-distruzione di Palazzo Madama suona molto ingenuo.

Sintetizzando: la riforma del Senato ci può stare, posto che si avverta la necessità di semplificare il processo decisionale.

Se invece, per qualsivoglia motivo, si preferisce mantenere in piedi un’architettura costituzionale ridondante creata dopo il ventennio fascista e con il pericolo comunista alle porte, un bicameralismo ipergarantista e pachidermico, il problema è questo, non  come  la riforma è stata fatta. Ricordiamo che molti parlamentari hanno cambiato idea dal 2014, quando il testo fu licenziato. Mi sembra che il referendum sia diventato terreno di scontro politico, una sorta di regolamento dei conti (anche interni al PD) che esula dal merito.

RAPPORTI STATO – REGIONI – Il testo di Renzi sembra fornire una chiarificazione nei rapporti Stato – Regioni, riscrivendo l’elenco delle competenze. Il baricentro, che nel 2001 era stato spostato a livello locale, tornerà a Roma.

La riforma di allora, voluta dal governo Amato, era figlia della rincorsa alla Lega. Si riteneva che il problema dell’Italia risiedesse nella eccessiva centralizzazione di certe decisioni, che meglio sarebbero state assunte a livello locale.

Gli effetti non sono stati quelli sperati. A fronte di una gestione migliore delle risorse in certi contesti, sono aumentati gli sprechi: la sanità, che nel 2001 costava 75 miliardi, oggi ne costa 110, come riporta Linkiesta.

Non solo. Le normative regionali sono spesso ampiamente discordanti, e non di rado si verificano conflitti di competenza con lo Stato, che devono essere risolti in sede amministrativa.

Il punto più importante, però, è un altro. Le decisioni strategiche per l’interesse nazionale vanno prese nell’interesse di tutti, non solo dei governi locali. Questo accade oggi? Non sempre.

L’Italia ha un deficit di senso della comunità;  è stata unificata relativamente di recente; la celebre frase di Massimo D’Azeglio (“L’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli italiani”, che potrebbe applicarsi bene anche all’Europa) rende perfettamente la situazione. Anche 150 anni dopo.

Esigenze diverse, storie diverse, un solo governo. A inizio secolo, la Lega sembrava fornire le risposte a chi chiedeva a gran voce autonomia. Soprattutto, la chiedeva il Nord, che viaggiava e viaggia a un altro passo rispetto al Meridione e al Centro. Ma mani libere potevano fare comodo agli intrallazzi di molti anche nelle regioni del Sud. Gli allora DS si assunsero l’onere di provvedere, anche in vista delle elezioni.

Com’è andata lo sappiamo: vinse ugualmente Berlusconi, assieme a Bossi. I due cercarono di portare a casa una riforma costituzionale di taglio marcatamente federalista, con un premierato forte. Fu percepita – a mio parere giustamente – come una rivoluzione copernicana che snaturava la Repubblica, e venne bocciata alle urne nel referendum del 2006.

SUPERARE IL 2001 – La riforma del 2001 è superata. Non c’è più spazio per gli eccessi di particolarismo nel mondo contemporaneo. La Lega ha mostrato i propri limiti una volta passata da partito antisistema a forza di governo, ed è finita al centro di inchieste dal sapore più romano che lumbard, perdendo la credibilità che aveva garantito sulla bontà delle proprie istanze. Ma non solo.

Il fatto è che quello di allora era davvero un altro mondo, con certezze che oggi appaiono lontane. Non c’erano ancora stati l’11 settembre, le guerre in Iraq e Afghanistan.  Dell’esistenza di Al Qaida sapevano in pochi, molti soldati dell’ISIS facevano le elementari – alcuni frequentavano l’asilo -; la pax americana garantiva una certa serenità a un mondo che nel ‘91 si era scoperto unipolare. Noi eravamo nella parte giusta del mondo, quella ricca, senza concorrenti. La Cina cresceva a tassi record ma era lontana, l’India molto più indietro, la Russia rimasta orfana di Eltsin e in mano agli oligarchi sembrava incapace di trovare una stabilità. Di Brexit non si parlava, si era anzi nel pieno della Cool Britannia di Tony Blair e della Terza via. In usa presidente era Clinton, quello vero.

La globalizzazione era agli albori, e se qualcuno avvertiva che gli effetti potevano essere devastanti – il G8 di Genova risale proprio al 2001 – erano in molti a credere che avrebbe portato benessere, facilitando gli spostamenti di capitali, la delocalizzazione, gli investimenti slegati dal territorio. Non c’era ancora stata la crisi.

Oggi, la Cina è alle porte, e assieme all’India assomma 3 miliardi di persone; la Russia ha trovato in Putin l’uomo forte in grado di rinnovarne la  politica di potenza; ci sono l’ISIS, il terrorismo e le polveriere africana e mediorientale: tutti  schierati “contro”  l’Occidente. Impensabile restare da soli, impensabile ragionare in senso locale.

C’è, invece, bisogno di prendere  decisioni strategiche che ci inseriscano in un ecosistema più ampio, e questo può essere fatto solo da un governo forte, in grado di dirigere il paese. Servono risposte rapide, adeguate alla rapidità dei cambiamenti. E se la velocità non può essere un valore in sé, tanto meno lo sono la lentezza e l’immobilismo.

Ecco perché riportare l’asse a Roma, dal mio punto di vista, ha senso. La TAV, le grandi opere, le infrastrutture vanno decise a livello nazionale. L’Italia non è così grande da avere bisogno delle ampie  autonomie concesse a stati come l’India, dotate di quello che in ambito accademico si definisce “federalismo con tendenze centripete” o gli USA (un “federalismo con tendenze centrifughe”). Mancano una storia imperiale e una grande narrazione nazionale, ed è – non dimentichiamolo – la terra del campanilismo. Tradotto: da noi ognuno fa quello che vuole. Passi l’autonomia su materie secondarie, ma siamo sicuri che la politica energetica possa essere decisa dalle Regioni a colpi di ricorsi? O che una ferrovia che va da Lisbona a Istanbul possa essere bloccata dalle proteste di un gruppo di cittadini agguerrito, ma ridotto?  Le istanze locali vanno rispettate: ma non si può sacrificare l’interesse di tutti nel nome del particolarismo. Di una visione chiara dell’interesse del Paese, e della possibilità di applicarla,  godremo tutti.

LE ALTRE QUESTIONI: QUORUM E CNEL – Le altre questioni poste dalla riforma Boschi sono, a mio avviso, di minor rilevanza.

C’è l’innalzamento del quorum per presentare un disegno di legge di iniziativa popolare, portato da 50.000 a 150.000 firme. La ragione? Negli anni ‘40 per raccogliere 50.000 firme ci volevano settimane, per non dire mesi: oggi potrebbero bastare tre ore, con il know how giusto e la tecnologia informatica. Si rischia un paese ostaggio del movimentismo, dei contrari a tutto, di chi vuole discutere ogni proposta all’infinito. E’ davvero sbagliato intervenire?

L’abolizione del CNEL, organo di rilievo costituzionale, invece, mi sembra, invece, solo una mossa propagandistica nel clima anti-casta di questi anni. Meno poltrone, meno spese, ragionamento buono da dare in pasto ai giornali. Probabilmente, il CNEL ha fatto meno danni di chiunque altro, ma sarà sacrificato sull’altare della retorica. Non penso ne sentiremo la mancanza, come non ci siamo mai accorti che esistesse. I dati statistici raccolti in un settantennio, però, almeno quelli, vale la pena di conservarli.  Che se ne trovi la maniera: allo Stato non manca certo il personale.

LE RAGIONI DEL SI – Smetto per stanchezza. Un parere schietto. Credo che la riforma di Renzi non sia cattiva, e voterò un “sì” convinto. Ovviamente, non è neanche la migliore possibile. Ma la perfezione non esiste. Si può sempre fare meglio: ma cominciamo a rimboccarci le maniche, e a fare la nostra parte informandoci e dimostrando, nel quotidiano, quel senso civico che renderebbe inutile molta della burocrazia che ben conosciamo.

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Brexit, che succede adesso?

Brexit, siamo day after. Dopo la sbornia elettorale, nella capitale inglese si pensa a come gestire un risultato che molti, forse neppure chi lo ha caldeggiato, si aspettava. Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra capofila del fronte Leave, e’ apparso teso in conferenza stampa. Cameron ha dato le dimissioni, mentre l’Unione Europea precisa che il divorzio non sara’ consensuale e spinge a fare presto. Bruxelles teme l’effetto domino, e deve tutelarsi.

Intanto, Scozia e Irlanda – che hanno votato per il Remain – minacciano di lasciare il Regno Unito: gli scozzesi, in particolare, riproporrebbero il referendum per l’indipendenza che nel 2014 non ebbe esiti, per tentare di restare nella UE.

Ma c’è un altro spettro che si aggira per Londra. Il timore, fondato, di una crisi immobiliare, che potrebbe avere conseguenza devastanti sull’economia.

L’articolo originale è stato pubblicato su Londra, Italia, e lo trovate qui.

Canary Wharf, il nuovo distretto finanziario, l’emblema della Londra capitale globale, rischia di diventare una città fantasma, tra viali vuoti e i grattacieli rimasti a memoria del tempo che fu. I bei negozi di lusso e i palazzi con portieri in livrea non si riempiranno ogni mattina di manager dal portafoglio imbottito e il gusto per il gessato, di neolaureati rampanti in cerca di denaro e signore in tallieur con tacco a spillo e borsa di Prada che lavorano in finanza. La reazione all’uscita sarà rapida e i mercati, come al solito, non stanno a guardare.

Brexit, il giorno dopo. Separata de facto dall’Unione, ma divisa anche all’interno, la Gran Bretagna è confusa. Qui sotto un grafico con le 5 domande sull’Unione Europea più poste a Google in UK il day after: la seconda è “What is the EU?”, segno che molti hanno votato senza conoscere lontanamente la questione. Credendo, in sostanza, di votare contro la crisi e gli immigrati, i britannici si sono auto-inflitti una recessione che potrebbe lasciare macerie dietro di sé.

goggle questions brexit

Smaltita la sbornia per la vittoria, le dimissioni di Cameron hanno lasciato un vuoto proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di una guida. Il premier, ovviamente, non può restare: ma Boris Johnson, ex sindaco di Londra e capo del fronte del Leave, in conferenza stampa è apparso contratto, nervoso: come non si aspettasse di vincere, e dover gestire una patata bollente che non può passare a nessuno. La sterlina si alleggerisce, e brucia nelle tasche di chi la possiede, e assieme al calo della Borsa determina una situazione esplosiva  cui si aggiunge un possibile (e probabile) crollo del mercato immobiliare.

L’indice FTSE 100 ieri ha chiuso in perdita del 3.15%. Calo contenuto? Non proprio. Nell’indice, che considera le prime 100 imprese per capitalizzazione, compaiono molte compagnie che con il Regno Unito non hanno niente a che fare, a parte la residenza per fini fiscali. Un dato più significativo si ottiene guardando all’FTSE 250, che comprende una quota maggiore di imprese concore business nel Regno Unito: questo scende del 7,19%. “Depurandolo” ulteriormente dalle aziende sostanzialmente estranee al paese dal punto di vista strategico, e considerando le aziende inglesi in tutto e per tutto insomma, si stima, invece, una perdita attorno al 10%.

Le cose non vanno meglio sul piano monetario. Verso l’una del mattino di venerdi, quando le voci di corridoio sui risultati dei primi collegi “sentinella”  hanno cominciato a diventare definitive, il valore della divisa britannica è crollato. Dopo il risultato di Gibilterra, che aveva votato al 96% per il Remain, l’entusiasmo è calato ben presto. Già un’ora dopo, il fronte del Leave è passato in testa, e non ha mai più ceduto il passo. Nei comitati e nelle sale stampa le facce hanno cominciato a rabbuiarsi solo verso le due, come vi abbiamo raccontato in diretta, ma la finanza non dorme e a quell’ora chi aveva in portafogli titoli vendibili se ne era già sbarazzato. Per quanto possibile, si intende.

I mercati hanno reagito al Brexit peggio di quanto abbiano fatto dopo il crac di Lehman Brothers” spiega Andrea Beltratti, direttore dell’Executive Master in Corporate Finance alla Bocconi in un’intervista. In Gran Bretagna non si produce più quasi nulla: si trasformano materie prime, e si forniscono servizi ad alto valore tecnologico. La finanza è il motore dell’impressionante flusso di denaro che gira su Londra, dove, chi è ricco, è veramente ricco, a dispetto di una working class ampia che fatica a tirare la fine del mese.

Per la City si aggira lo spettro di una crisi immobiliare. Il grafico qui sotto (fonte: Halifax) mostra l’andamento del mercato di settore in UK negli ultimi dieci anni, e la situazione patrimoniale delle principali banche, esposte in mutui immobiliari per miliardi di pounds: Barclays per £126bn, Lloyds (il cui titolo  ha perso il 21%) addirittura per £289bn. Cosa potrebbe accadere?

Proviamo a immaginare lo scenario più catastrofico. Il valore delle case a Londra dal 2008 (crisi dei mutui, crisi Lehman) al 2016 è salito di quasi l’80 %. Una bolla senza precedenti. La Gran Bretagna, anche grazie all’ampia autonomia, è uscita dalla crisi meglio e più in fretta rispetto agli altri, e la capitale si è lanciata verso un periodo di sviluppo che sembrava destinato a durare. Nuove costruzioni, le Olimpiadi, un’attenzione internazionale che tornava.

mercato immobiliare ukLe banche, attente a non ripetere gli errori del passato, hanno concesso mutui a giovani rampanti della finanza, considerati pagatori affidabili, con cifre pari anche al 100 del valore dell’immobile: assieme al mutuo per la casa, l’istituto ne concedeva un altro con cui lo yuppie poteva comprarsi la macchina dei sogni. Unico vincolo, versare tutti i propri introiti sul conto corrente. Pochino. I mutui si concedono in base all’affidabilità, e questo segmento di popolazione è caratterizzato da alto reddito, scarsa propensione al risparmio e tenore di vita al top.

Ma se la miccia è già stesa a terra, il fiammifero potrebbe essere la decisione delle grandi banche d’investimento di muovere i propri headquarters da Londra ad altre zone del mondo fiscalmente vantaggiose. Ad esempio il Lussemburgo, ma anche Hong Kong. Già il 16 giugno, una settimana prima del voto, il Times riportava che JP Morgan ed Hsbc avevano cominciato a prepararsi a un’eventuale Brexit valutando lo spostamento di alcune divisioni in Lussemburgo, per evitare le regole che rendono oneroso condurre il business al di fuori dell’Eurozona. Con l’uscita che si materializza (e l’UE che mette pressione perché accada in fretta) molti altri istituti potrebbero seguirle. Le conseguenze? Chi lavora in finanza sa cosa sta per accadere: prima ancora di essere licenziato, cercherà un altro lavoro altrove, magari all’estero. Si determinerà una forte pressione di vendita sull’immobiliare, e un rapido calo dei prezzi.

Torniamo per un momento ai Lloyds, la banca più a rischio con il 65% dei propri libri contabili esposti a una crisi nell’immobiliare UK. Se i prezzi sono saliti tanto rapidamente, significa che sull’onda dell’entusiasmo le case sono state pagate più di quello che valgono. Per chi ha un lavoro si tratta, semplicemente, di un investimento che si deprezza; il problema comincia con chi perde l’impiego, e il Brexit potrebbe mettere molti a rischio. In caso di insolvenza, le banche si rifanno vendendo all’asta la casa del debitore per rientrare. Ma con il mercato in picchiata, gli introiti non riuscirebbero a coprire l’importo prestato per il finanziamento. Quei mutui, come nel 2008, venivano considerati sicuri dalle agenzie di rating, e piazzati in fondi acquistati da chi cercava garanzie. Le conseguenze sono note: si diffonde il panico, e la spirale comincia ad avvitarsi. La crisi, dalla finanza, passa all’economia. Chi si ritrova invischiato nel settore va in rovina.

Il futuro del paese dipende, quindi, dai rapporti che il Regno Unito riuscirà a negoziare dopo l’uscita dalla UE, e non c’e’ da aspettarsi buonismo. Nonostante la procedura sia stata creata con il Trattato di Lisbona del 2009 non ha mai trovato impiego. Il presidente della Commissione Europea Juncker ha chiesto alla Gran Bretagna di formalizzare quanto prima l’uscita dall’Unione, precisando che non sarà un divorzio consensuale. Fino ad allora, il paese è vincolato ai doveri di appartenenza, oltre a goderne dei relativi diritti.

Il problema, per Bruxelles, è il contagio: senza una punizione esemplare, c’è il rischio che la voglia di uscire dall’Unione Europea si diffonda a macchia d’olio sulla scorta dei movimenti populisti interessati alla propria sopravvivenza immediata piu’ che al futuro. La tornata referendaria ha avuto se non altro il merito di individuare i temi caldi che potrebbero portare altri paesi a chiedere una consultazione analoga:  spesa pubblica alta, benefit eccessivi, terrorismo, immigrazione e allargamento a Est, soprattutto, alla Turchia.  La lobby di chi esporta verso l’UK eserciterà pressioni nei confronti dei governi, e della stessa Bruxelles, per continuare le relazioni economiche con la Gran Bretagna: ma il paese, non producendo quasi nulla, sarà ugualmente costretto a importare, a condizioni di favore o meno.

Intanto, si apre il fronte interno. Il Regno Unito è diviso come non mai. Il “giorno dopo”, alcune delle grandi bugie raccontate durante la campagna elettorale cominciano a rivelarsi per quello che sono, frottole. Le cifre sui risparmi che si preparano nell’immediato grazie all’uscita sfigurano rispetto a quelle sui costi, per non parlare dei benefit agli stranieri, che con gli accordi a febbraio erano stati bloccati per anni e quindi si sarebbero fermati comunque.  Tra ritrattazioni e precisazioni, non sono in molti a volersi prendere la responsabilità di gestire la crisi, almeno nella fase piu’ delicata.

Scozia e Irlanda vogliono restare attaccate al treno del Vecchio Continente. Gli scozzesi potrebbero convocare un secondo referendum dopo quello del 2014 per decidere se separarsi dall’Inghilterra: come dire, il problema siete voi, non l’Europa. L’Inghilterra stessa è spaccata: nel complesso ha votato contro l’Unione, ma la capitale, Londra, si è espressa a favore. Le polarizzazioni sono evidenti e nessuno sa sul serio come gestirle.

Le analisi, infine, dicono che a votare Remain sono stati tanti giovani sotto i 24 anni e molti laureati, a cui sarà tolta la possibilità di girare il continente come è concesso ai loro coetanei. Il conto dell’uscita decisa dagli anziani sarà pagato, come sempre, dalle generazioni che c’entrano meno.

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Brexit, le colpe di Cameron

Ci siamo. Dopodomani si decide sul Brexit (Great Britain Exit), espressione giornalistica per definire l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. La consultazione è stata convocata dal premier David Cameron, che con questa arma guadagnò parte del sostegno necessario a vincere le elezioni del 2015 e a formare un governo monocolore contro buona parte delle previsioni.

Nel febbraio scorso Cameron volò a Bruxelles per un summit tra i vertici UE. L’obiettivo era strappare una modifica degli accordi, una specie di statuto speciale per la Gran Bretagna che garantisse un sostegno alla campagna per restare in Europa. La strategia era quella di depotenziare il referendum concordando a livello politico garanzie particolari: servivano prede da dare in pasto a un paese sempre più allarmato dalla violenza, dal costo della sanità pubblica e dai benefit profusi agli stranieri che arrivavano in massa. Argomenti sfruttati dalla propaganda nazionalista in maniera spesso alquanto discutibile, ma efficace (vedi foto).farage road delays

Le negoziazioni a Bruxelles furono estenuanti. Il premier non ottenne tutte le concessioni, ma anche se la vittoria non fu netta, riuscì a garantire al paese mani sciolte rispetto a un’Unione che mirava a diventare “sempre più stretta”, oltre che lo stop temporaneo dei benefit agli stranieri. Last but not least, le modifiche sarebbero state cristallizzate con l’inserimento del testo nei trattati UE, da effettuare alla prossima “apertura” dei documenti: al momento è limitato al rango di semplice  accordo intergovernativo.

Tanto doveva bastare, nella mente dell’ex Eton e Oxford, a rassicurare gli elettori. Io “non amo Bruxelles, amo la Gran Bretagna e il mio lavoro è proteggere il mio Paese”, sottolineava allora, garantendo che, grazie all’accordo, Londra sarebbe stata “fuori da un’Unione sempre più stretta, fuori da un super-stato europeo e non adotterà mai l’euro”. In sintesi? “Credo che sia abbastanza per raccomandare che il Regno Unito rimanga nell’Unione Europea, prendendo il meglio dei due mondi”. La filantropia, al contrario del pragmatismo, non è mai stata il piatto forte alla corte di Sua Maestà.

LE MOTIVAZIONI – Per capire in che modo il Brexit sia arrivato all’ordine del giorno, bisogna partire da qualche anno fa, e precisamente dall’allargamento a Est della UE e dalla crisi economica cominciata nel 2008.
Non è un mistero che l’UK, e Londra in particolare, siano la Mecca per moltissimi cittadini europei senza lavoro. Stipendi alti per gli specializzati (la “fuga dei cervelli”) e la possibilità di un impiego, almeno quello, per tutti gli altri, con una serie di benefit statali pronti a scattare quasi subito, tra cui l’assistenza sanitaria gratuita.

Italiani, spagnoli, francesi lo sapevano da anni: ma negli ultimi anni ad attraversare la Manica sono stati sempre più i cittadini  che vivevano al di là di quella che un tempo fu la Cortina di ferro, in cerca della possibilità di rifarsi una vita. I documenti comunitari consentono di passare la frontiera senza problemi per approfittare delle occasioni che la Gran Bretagna può offrire.
Gli imprenditori, in massima parte, apprezzano: manodopera a basso costo, composta da disperati senza possibilità di contrattare e disposti a fare i lavori che i Britons scartavano. Le procedure burocratiche per i comunitari erano ridotte ed esentavano i nuovi venuti dall’obbligo del visto di lavoro. Una pacchia per le migliaia di ristoranti della capitale, per l’edilizia, l’assistenza domiciliare di malati (badanti e infermieri). E infatti, complice la ricchezza circolante e la crisi che colpiva ovunque, ma non qui,  Londra si è trasformata parecchio negli ultimi anni.
Interi quartieri sono stati costruiti o riqualificati, il valore delle case è salito alle stelle e la sterlina si è rafforzata. Come meta turistica, la capitale inglese ha pochi paragoni, complici anche eventi di risonanza mondiale come le Olimpiadi del 2012, l’offerta di concerti e prime visioni di risonanza globale, il teatro.

Non solo. Sempre più lavoratori qualificati hanno continuato a prendere il traghetto a Calais (o l’Eurotunnel alla Gare du Nord) per cercare gloria in UK: ingegneri, scienziati, medici, e così via. La strategia del soft power inglese prevede che questi “talenti” siano incentivati a legarsi alla Gran Bretagna a livello affettivo, per averli sempre a disposizione al servizio della nazione. A volte funziona, a volte meno. Nell’industria e nella ricerca, di solito, lo fa. Ma nelle sale d’aspetto dei pronto soccorso non è infrequente trovare un medico greco che cerca di curare un paziente del Bangladesh: entrambi parlano un inglese approssimativo (sempre ammesso che il paziente lo conosca),si comunica a gesti, il  tutto sotto gli occhi di un’infermiera magari spagnola che non può fare niente per aiutarli.

UMANO, TROPPO UMANO – Da qui  a prendersela con gli immigrati il passo è breve per politici che intravedono la possibilità di fare il colpo della vita. Legarsi al treno del Leave è una tentazione forte; non solo per Farage e la sua Ukip, ma per un clan trasversale che trascende gli schieramenti e vede lo stesso David Cameron contrapposto a ministri e parlamentari conservatori di peso. Non sta meglio Jeremy Corbin, leader dei laburisti: simpatie – e anche qualcosa in più – a sinistra, ma una base e un gruppo dirigente divisi.

Ma per chi conosce un po’ le cose del Regno Unito, l’impressione è che la questione sia stata ampiamente strumentalizzata. Da Cameron, innanzitutto.
La Gran Bretagna gode da sempre di uno status particolare all’interno dell’Unione Europea, il cui aspetto più visibile è che non ha aderito alla moneta unica. A Londra si usa ancora la sterlina, e i trattati di Schengen sulla libera circolazione sono applicati solo parzialmente.

Il referendum è stato un ottimo argomento da campagna elettorale: ma probabilmente l’arma è sfuggita di mano al leader britannico che ora si trova a gestire una patata bollente. Certo Cameron non poteva prevedere il terrorismo e l’insicurezza diffusa di questi mesi. Ma la democrazia diretta presuppone questioni semplici e basi elettorali  informate e ristrette: due condizioni che in questo caso mancano del tutto, rendendo la votazione un’incognita. Il premier non ha la statura e l’eloquio di Obama,  forse nemmeno di Blair: è un cinquantenne di ottima famiglia con l’aria da bambinone, che si trova al comando di una delle nazioni più influenti del mondo, ma non è in grado di spostarne gli equilibri col carisma personale.

LE CONSEGUENZE – In caso di vittoria del Leave, le conseguenze di un’uscita della Gran Bretagna sull’economia interna sarebbero importanti, a partire dal valore della sterlina, che crollerebbe. I contratti internazionali e gli accordi intergovernativi andrebbero discussi da capo introducendo un vuoto normativo e una fase di incertezza che potrebbe protrarsi per una decina d’anni. Le conseguenze sull’economia reale non sarebbero da meno. La manovalanza disperata e a basso costo che adesso abbonda scarseggerebbe, mettendo in crisi moltissime attività costrette a chiudere.
Molti capitali lascerebbero la City, e si aprirebbe una crisi dell’immobiliare con un calo dei prezzi dovuto alla perdita del ruolo di capitale finanziarie dell’Unione Europea. Gli headquarters delle grandi società potrebbe muoversi altrove (Francoforte, qualcuno anche a Milano), impoverendo la città e costringendo a ripensarne la geografia a partire dallo skyline di aree come Canary Wharf. Sarebbe la fine della libera circolazione delle merci tra l’Isola e il continente, con conseguenti dazi e dogane a gravare sulle merci made in UK.
Risulta difficile immaginare che i rapporti a livello governativo possano essere gli stessi. L’uscita del Regno Unito potrebbe essere interpretata – per una volta – come una sfida da un’Unione Europea in cerca di identità.
Oltre Atlantico, gli USA, interessati alla stabilità dei mercati, hanno mostrato di preferire la permanenza della Gran Bretagna all’interno dell’Unione. Non solo: Londra rappresenta una testa di ponte troppo importante per contrattare con la UE, ad esempio sul  recente trattato di libero scambio, la cui approvazione è osteggiata nel Vecchio Continente  da una discreta fetta di popolazione.
Per la Gran Bretagna si aprirebbe, in sintesi, un periodo di incertezza difficile da gestire, che richiederebbe mano ferma e capacità di governo di cui probabilmente non dispone.

I vantaggi ovviamente non mancano. La sovranità monetaria senza scadenza, mano libera negli accordi internazionali, possibilità di chiudere le frontiere e di cercare alleanze su misura per un mondo che sta cambiando. Russia (ma con quali complicazioni?), Cina e India sono tra i possibili partner. Uscire dalla UE renderebbe inoltre nulle le disposizioni comunitarie, consentendo politiche su misura e un risparmio economico sulle cifre versate ogni anno nelle casse dell’Unione: un ottimo specchietto per le allodole.

INCERTEZZA – Come andrà a finire, nessun lo sa. Dopo l’assassinio di Jo Cox, pare che il vento, che nelle scorse settimane spirava in favore del Brexit, stia cambiando. La cronaca nera potrebbe aver scosso l’opinione pubblica dal torpore più delle parole dei leader. Non essendoci precedenti in Europa, non è possibile fare stime accurate dell’affluenza alle urne, variabile importante. Ma, comunque vada a finire, di questo lungo giugno resteranno due lezioni. La prima è il patrimonio di conoscenze sulle motivazioni che spingono a un popolo a voler uscire, e che rimarrà a disposizione di chi resta. In UK il dibattito è stato snocciolato, sviscerato da mesi: molti nodi sono stati individuati, a beneficio di chi saprà farne tesoro.
La seconda è che quando si usa la politica per fini personali, spesso se ne paga il conto.

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Bedori e il bello della politica

Come tutti, ho assistito alla breve parabola di Patrizia Bedori. Candidata milanese del Movimento 5 stelle, designata  a novembre tramite le Comunarie dove ha raccolto ben 75 voti (ma nel 2013, con la stessa cifra si finiva in Senato), si è ritirata nei giorni scorsi esausta per la pressione dei media. “Non è il mio mondo” ha commentato.

Devo dire che ho apprezzato la scelta. Avere il coraggio di fare un passo indietro e rinunciare a tanta visibilità non è da tutti. Resistere alla sirene velenose di chi ti spinge ad andare avanti non perché ti senta adeguato alla sfida, ma per principio, per “non darla vinta” ai cattivi di turno merita apprezzamento.

Bedori è stata brava, non ha colpe. Le ha invece ha il suo partito, che ha organizzato primarie risibili e non ne ha accettato il risultato, arrivando in pratica a sconfessarla. Pare che Casaleggio fosse tra i più ostili, ma democrazia è rispettare l’esito delle votazioni anche quando non ci piace. O almeno, così si dice. Continua a leggere

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Apple contro l’FBI: in USA si gioca il futuro della privacy

Apple contro Fbi. Uno scontro tra titani che potrebbe rimodellare la vita digitale di centinaia di milioni di persone, tutti i possessori di prodotti targati con la mela.

In sostanza, i “federali” chiedono alla casa Cupertino di sbloccare l’I-phone dell’attentatore di San Bernardino. La corporation si oppone, e il rifiuto viene motivato da Tim Cook, CEO, con una lettera aperta ai clienti.

Sul piatto ci sono due diritti: la sicurezza dei dati personali di chi usa un i-Phone e la sicurezza collettiva. Stando ad Apple, non esiste una chiave per sbloccare l’iPhone: in condizioni normali, dopo tre tentativi sbagliati il telefono è fuori uso. Ma gli inquirenti pensano di trovare nel dispositivo dell’attentatore informazioni decisive e insistono per creare un passepartout da usare “una sola volta”. Continua a leggere

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Marino e i naif in politica

La parabola di Ignazio Marino pare volta al termine. Il sindaco di Roma ha dato le dimissioni, dopo il forcing del suo partito (il Pd) e la minaccia di dieci assessori su dodici di rimettere il mandato. Epilogo peggiore non si sarebbe potuto immaginare. Marino cade per una storia di scontrini, pochi spicci rispetto a quanto probabilmente hanno rubato altri, ma sufficienti a metterlo alla gogna: sono i tempi ad essere cambiati.

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