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Qualche considerazione finale sulla Cop30 di Belém

Belém (Brasile) – Niente riferimento alla tabella di marcia per la transizione dalle fonti fossili, ma un impegno a triplicare i fondi per l’adattamento. E la dimostrazione che, nonostante tutto, la diplomazia climatica può fare a meno degli Stati Uniti. E’ una conclusione agrodolce quella della Cop30. Belém poteva essere storica, e non lo è stata. Ma almeno non ha rappresentato un tracolllo rispetto alle scorse edizioni di Baku e Dubai. Raccolgo qui qualche considerazione.

  1. Che cosa vogliono i paesi che bloccano il negoziato? Il mondo va verso la transizione energetica, innegabilmente. Nessuno, neanche gli Stati che si basano sul petrolio o sul gas (petromonarchie del Golfo, Russia) può illudersi di fermare o invertire il processo. E allora cosa vogliono? Influenza. Al potere ci si abitua: e il petrolio ha dato ampi margini a territori desertici che altrimenti sarebbero stati ignorati. In Medio Oriente stanno investendo per garantirsi rendite post petrolio, e il tempo in finanza è un fattore chiave: quindi rallentare ha senso per incamerare più risorse. Ma agire da veto-player, piccoli attori che sfruttano le falle dei meccanismi negoziali per bloccare tutto e avere visibilità (pensate ai partitini decisivi per costituire le maggioranze) è anche un modo per affermare la propria diplomazia e il proprio ruolo, anche di ponte culturale, senza tornare piccoli e insignificanti.
  2. Tutto è legato nel mondo di oggi. L’ambiente è il tema principale per noi che frequentiamo le conferenze del clima. Ma la realtà è che è usato come merce di scambio su altri tavoli. Per ottenere concessioni tariffarie, per esempio – non a caso si è parlato tanto di commercio in questa Cop. Non è solo clima, dunque: quando una delegazione riceve ordini per negoziare su una certa posizione, bisogna sempre guardare al contesto geopolitico. Esempio: l’Ucraina non può essere a favore delle fonti fossili (gradite alla Russia, che le esporta). Ma non può dirlo, perché il principale alleato è l’America di Trump. Queste situazioni sono la regola, non l’eccezione. L’India ha un problema demografico e di povertà: negozia sull’ambiente per ottenere altro. Lo stesso Brasile scambia l’Amazzonia con altro. Vicende come quella dei marò insegnano che per avere visibilità ci si attacca a questioni-simbolo. Vale anche per il clima.
  3. Esistono questioni globali, come l’Amazzonia, polmone verde del mondo, che appaiono molto diverse a livello locale. Se per il mondo salvare la foresta tropicale è una priorità, per paesi che hanno bisogno di crescere – e il Brasile sta cercando di diventare una media potenza – , tutto fa brodo: è l’economia dello sviluppo che chiede di chiudere un occhio, forse anche due, per superare la fase di decollo e raggiungere la massa critica. Lo abbiamo fatto anche noi in Italia, lo sta facendo la Polonia, lo ha fatto la Cina – ricordiamoci le Olimpiadi di Pechino con l’aria nera per lo smog, ed era solo il 2008.  Funziona così. Fare finta di scordarselo è ipocrita; non saperlo è ignoranza.
  4. Passare all’elettrico è necessario. Ma ha i suoi costi. Alti. Anche qui, la differenza tra questione globale e impatto locale. L’estrazione del litio e delle terre rare, necessarie per la transizione, sta devastando interi territori. Se ne parla poco, pochissimo. Ma dall’Amazzonia si vede. Qui vicino, in Cile, Argentina, e poi in Africa e nella stessa Cina, questi materiali sono il nuovo petrolio, inteso anche come potere di distruzione. Quanto si può scaricare su paesi e persone il costo di un modello di sviluppo globale basato sullo spreco?  Nei prossimi anni, risolto il tema del clima, il problema sarà questo.
  5. La Cina non vuole essere leader di nulla. Essere avaguardia comporta responsabilità, quantomeno morali.  Che Pechino non vuole. Se fa la transizione, la fa per interesse. Nessuno , in politica, agisce per idealismo: ma la saggezza millenaria insegna ai governanti cinesi che è meglio pensare ai fatti propri. Anche perché, nelle conferenze del clima, la Cina è ancora considerata un paese in via di sviluppo, come era quando le regole furono scritte, nel 1992. Diventare leader significa uscire da quelle tabelle, e quindi pagare di più.
  6. Il processo negoziale ha funzionato per trent’anni, ma va riformato. Il problema è come. Non siamo più nel mondo della globalizzazione, dove si rincorreva l’illusione di un governo mondiale. Molte delle cose positive di questa cop30 sono avvenute nei tavoli laterali. L’aveva previsto l’amico Jacopo Bencini. Il fondo per le foreste tropicali dei primi giorni,  il consenso per una conferenza sulle fonti fossili (aprile 2026, Santa Marta, Colombia, paese che l’ha lanciata con la pasionaria Irene Velez Torres). La roadmap per la transizione, che ha aggregato consenso da parte di 84 paesi, lanciata dal Brasile, che porterà avanti l’idea nei prossimi mesi. Tutto bello. Ma il vantaggio dell’Onu è che offre una cornice strutturata. Le procedure sono noiose, ma salvano. E’ la differenza tra un’azienda e una startup: di queste ultime, dopo un anno sopravvive una su dieci. Dopo cinque? Ancora una su dieci. Di quelle che rimangono. E quelle che resistono, se crescono di scala, si danno delle regole. Una conferenza organizzata così può avere un paio di edizioni: ma come deciderà? Cosa succederà in caso di impasse? Chi darà le carte? L’Onu ha risposte per tutte queste domande, risposte condivise e frutto di un processo di creazione di conoscenza e cultura negoziale quasi secolare, e sicuramente secolare se guardiamo anche all’esperienza della Società delle Nazioni. Il tentativo è apprezzabile, ma non si può abbandonare le Nazioni Unite pensando di farne a meno: ben vengano le iniziative collaterali, anche come stimono a un processo di riforma. Ma non illudiamoci.
  7. Le piccole isole, che l’anno scorso avevano inscenato un drammatico walk out, quest’anno si sono sentite poco. Era la cop della foresta. Ma loro rischiano di finire sott’acqua. Peccato.
  8. La sospensione della plenaria (richiesta da Panama) non deve diventare una norma. Colpi di mano della presidenza devono essere evitati il più possibile, perché ormai ci sono paesi che, anche grazie ai nuovi media, anche se piccoli godono di visibilià e influenza, al punto da prendere la parola e bloccare tutto. Soluzione: niente forzature alla Al Jaber. Si ascoltano tutti. Sarà più lunga, ma per decenni ai piccoli è stata data solo l’illusione di contare. Oggi non è più così: stanno nascendo nuove alleanze, e si sentono spalleggiati. Vanno inclusi.
  9. Si può fare a meno degli Stati Uniti, nella diplomazia climatica. Certamente, se Washington avesse appoggiato la roadmap, la si sarebbe fatta – questo per dire il peso specifico. Non è solo questione di Trump: un passo del genere non lo avrebbe supportato neanche Biden. Però il multilateralismo ha retto. Mi è piaciuto anche il ruolo delle città in questa conferenza, più visibili: è un aspetto su cui lavorare.
  10. Una relazionalità esasperata alle conferenze del clima. Biglietti da visita, strette di mano, salamelecchi. Nessuno si salva, neanche chi scrive. Ma forse è il momento di tornare a pensare un po’ più al nostro lavoro, e un po’ meno a noi stessi. Da Belèm è tutto, appuntamento in Turchia.
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Se la Fondazione Fiera Milano non rispetta le regole edilizie per il cantiere del nuovo centro di produzione Rai

Non c’è solo Manfredi Catella, si direbbe,  tra chi pare disporre a piacimento dell’edilizia pubblica milanese. Sulle eventuali responsabilità del patron di Coima, coinvolto nell’inchiesta sulle operazioni che hanno dato vita al “modello Milano”, sta indagando la magistratura. Che un risultato, invero, lo ha già ottenuto: ha posto fine a un’epoca, quella in cui si parlava al telefono serenamente di come spingere progetti nelle commissioni urbanistiche; e i suddetti, poi, trovavano la propria via fino al cantiere con percorsi facilitati. Uno stato di cose che stava bene anche al sindaco, innamorato del cemento e dell’acciaio dei nuovi quartieri. Solo chiacchiere tra conoscenti, si difendono loro: le città italiane sono piccole e, sapete com’è, ci si conosce tutti. Vedremo se reggerà in tribunale. Ma vale la pena di ricordare che nelle aule non si fa giustizia: si applica la legge. E il problema politico resterà, qualunque sia il verdetto. Un problema per il centro sinistra, per il Pd, e per tutti i milanesi che hanno chiuso gli occhi in questi anni (ma si sono affrettati ad aggiungersi al coro delle lamentele ora che è intervenuta la magistratura).

In realtà faremmo torto a Catella se riducessimo a lui la stagione del laissez faire all’ombra della Madunina: in città sono parecchi i soggetti che fanno pensare a Orwell e alla sua Fattoria degli animali, dove “Tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”.

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Veniamo al motivo di questo pezzo, precisando che, in questo caso, scrivo da cittadino e residente di via Gattamelata, dove la Fondazione Fiera Milano sta demolendo  i vecchi capannoni per fare posto al nuovo centro di produzione della Rai, che accorperà gli studi di via Mecenate e corso Sempione.

Un po’ di storia. La Fondazione Fiera Milano ha origini negli anni Venti del secolo scorso. Gestisce il sistema delle fiere meneghine. Navigando in acque a volte perigliose  (l’ex amministratore delegato Enrico Pazzali è indagato nell’ambito dell’inchiesta Equalize per una storiaccia di presunti dossieraggi illeciti. Il suo posto è stato preso a fine luglio da Giovanni Bozzetti, indicato dalla giunta lombarda e avallato da Palazzo Marino, cioè il Comune di Milano).

I lavori sono partiti a gennaio. Per mesi, lamentano i residenti, e fino a oggi, il cantiere è rimasto aperto sette giorni su sette. Si è dovuto procedere alla demolizione di un paio di padiglioni esistenti per far spazio alle nuove volumetrie, e se non avete presente le dimensioni del complesso, diciamo subito che non è facile raccontarle: ma parliamo di un paio di campi di calcio di cemento armato e metallo, altezza venti metri.

Probabilmente i lavori hanno marciato accumulando ritardo, e pare che una parte del complesso debba essere pronta per le Olimpiadi invernali di febbraio: così, si diceva, il cantiere si è fermato solo di notte, spesso attaccando alle 6:30 del mattino e continuando a martellare  fino alle 18:30. Un massacro per i polmoni dei residenti (le polveri sollevate non erano abbattute con strumenti adeguati), le vibrazioni prodotte (sono diversi quelli che se ne lamentano costantemente da mesi, e notano crepe nei muri, tanto che sono stati installati dei sismografi nei palazzi per monitorare il rispetto dei parametri) e per le povere orecchie e la stabilità mentale di chi lì risiede: immaginate di lavorare tutta la settimana, magari su turni, ed essere svegliati anche il sabato e la domenica mattina dai macchinari impegnati in un cantiere demolitivo, in cui blocchi di cemento armato vengono frantumenti gettandoli da cinque o sei mesi di altezza.

L’amministratore di uno dei condomini, quello in cui abita il sottoscritto, ha provato qualche debole protesta, non troppo convinta. Risultato: nulla.

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Dopo mesi di weekend con sveglie militari, vista l’inazione di chi dovrebbe rappresentarci ed esasperato da una moglie che minaccia di trasferirsi in campagna (siamo appena arrivati al Portello a febbraio!), una domenica mattina decido di prendere in mano la situazione e chiamare i vigili personalmente. Il mio diritto alla salute, in fondo, prevale su consiglieri, amministratori e rappresentanze varie.

La polizia locale esce subito e chiede agli operai le autorizzazioni a lavorare di domenica: il capocantiere – ero lì presente  – dice che non ne dispone in loco, ma le avrebbe fornite il giorno dopo via mail.

Gli agenti  – sbagliando – se ne vanno: secondo le norme avrebbero dovuto fare sgomberare tutto. Le maestranze rientrano, non senza una certa soddisfazione, e il cantiere riprende.

Avendo fatto la gavetta per anni in cronaca locale, so come funzionano certe cose: mi attivo scrivendo alla circoscrizione e alla presidente Giulia Pelucchi, ma anche all’urp del Comune di Milano e all’indirizzo cantiereincorso@fondazionefiera.it. Come insegnano i manuali di comunicazione, bisogna averlo, un indirizzo del genere, e rispondere sempre con un paio di frasi fatte a chi si prende la briga di scrivere.  Cosa dire, appunto, è un altro discorso. La statistica spiega che la gente si stufa, e prima o poi lascerà perdere.

Non è il mio caso. Nelle missive chiedo essenzialmente una cosa: se il cantiere della Fondazione fiera Milano abbia o meno una deroga per lavorare sabato e domenica. L’urp non entra nel merito: si limita a rispondermi citando il regolamento edilizio, che afferma che il sabato è concesso lavorare solo fino alle 1230, salvo deroghe. Idem la domenica. Ok, ma queste deroghe ci sono o no?, riattacco. Perché, per propria natura, dovrebbero essere temporanee, e non durare mesi: avrei parlato col dirigente comunale che le avesse (eventualmente) concesse per far valere le nostre ragioni di cittadini esasperati. Chiedo via pec una visura della documentazione: dopo due settimane non è ancora arrivata.

La Fondazione fiera Milano, dal canto suo, mi risponde con affettata cortesia dopo un paio di giorni che i lavori seguono le regole, che loro sono molto attenti al nostro benessere e che sospenderanno le lavorazioni rumorose la domenica. Replica: gentili, ma non basta questo. Dovete attenervi alle norme; e mostrare i permessi. Nessuna risposta.  

La dottoressa Pelucchi, in copia a tutte le mail e presidente del municipio 8, si rende disponibile a incontrarci.

Tanto per non far,i mancare nulla, e a dimostrazione del fatto che l’azione sia corale, raccolgo 70 firme di condomini esasperati.

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La faccio breve: la deroga non ci è mai arrivata in visione, da parte di nessuno. E c’è un motivo chiaro: con tutta probabilità, allo stato, non esiste, e non è mai esistita.

Spiego meglio il concetto: la Fondazione Fiera Milano sta costruendo il cantiere dove sorgerà il nuovo centro di produzione meneghino della Rai radiotelevisione italiana non rispettando il regolamento edilizio e lavorando sette giorni su sette, incurante dei disagi e delle proteste di 70 cittadini che abitano lì di fronte e da mesi cercano di farsi sentire. La stessa azienda che fa trasmissioni tipo Mi manda Raitre.

E veniamo a oggi. Con incredibile nonchalance, da due settimane i lavori proseguono sabato e domenica, in orari vietati. Stamane io e altri condomini chiamiamo nuovamente i vigili. Questa volta la pattuglia, di una gentilezza e professionalità encomiabili, ha fatto ciò che è dovuto in questi casi: di fronte alle giustificazioni farfugliate dal capocantiere (le stesse che evidentemente la volta prima avevano funzionato), emette una sanzione, e fa sgomberare l’area seduta stante. Stop ai lavori, tutti a casa. Si chiude. Potrei anche raccontare che, mentre io e la custode del nostro condominio assistevamo all’operazione di sgombero, un paio di operai si sono prodotti in atteggiamenti da smargiassi paramafiosi: e mi verrebbe da chiedere ai committenti della Fondazione Fiera Milano che cosa ne pensano. Lascio a loro le risposte.

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Credetemi, non esagero dicendo che il rumore è micidiale, altrimenti non conbatteremmo questa battaglia  (e non avremmo raccolto 70 firme). Confesso che, da giornalista, queste vicende le ho sempre seguite per conto di altri; mai in prima persona. Oggi sperimento che è incredibile la sensazione di impotenza che si prova nel trovarsi di fronte a un abuso e sentirsi le mani legate.

Scrivo questo pezzo per dare visibilità a un atteggiamento intollerabile da parte di chi dovrebbe dare l’esempio. Un ente come la Fondazione fiera non può fare quello che vuole, nemmeno nella Milano di questi anni. E neanche se gestisce una delle più grandi esposizioni al mondo. Anzi, soprattutto per questo.

Aggiungo un’altra cosa. Gli operai stamane si divertivano a irridere chi protestava ieri per la vicenda Leoncavallo, con frasi becere tipo “sai se andavamo là quante zecche trovavamo da schiacciare?”- frasi fasciste, squadriste e volgari. Si tratta di proteste contro presunti abusi proprio come quello che vi ho raccontato. Che ne pensa la Fondazione fiera Milano?

(nella foto mia, gli agenti della polizia locale nel cantiere la mattina di domenica 7 settembre)

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città, economia, tendenze

La Milano della solitudine

Servizio di Presa Diretta, da vedere. La Milano descritta è quella della solitudine, resa strutturale – letteralmente – dalle nuove tendenze immobiliari. Che separano le funzioni: casa con case, negozi con negozi, una scuola ogni tanto. Si rischia di meno, dicono gli esperti: lo sviluppatore (chi costruisce, cioè) non rischia il negozio fastidioso sotto i portici, men che meno chiassosi assembramenti. Metti la macchina in garage e sali con l’ascensore dritto fino a casa senza incontrare nessuno: lì ti aspetta Alexa, il metaverso o qualunque scemenza digitale prodotta in questi anni. C’è, però, il punto di ritiro per i pacchi: il commercio elettronico, così impersonale, è il perno dei nuovi aggregati come Cascina Merlata. Ogni tanto, come accaduto a Santa Giulia, si scopre che non hanno fatto le bonifiche e si abita sotto le scorie: e, a occhio e croce, c’è da aspettarsi altri casi, nei prossimi anni.

Ma la vita, osserva uno degli intervistati, sono proprio quegli incontri a volte indesiderati, quella fastidiosa mescolanza: evitarli è una scorciatoria per ridurre il dolore; ma, al contempo, rinunci alla gioia. Un Prozac di mattoni e vetro. Che funziona, aggiunge la docente Elena Granata, fino a che stai bene. Ti crei una bolla domestica in cui vivere connesso, e uscire (se si è fortunati) per gli happy hour, i weekend all’estero, le cinquantadue something week che caratterizzano la Milano degli ultimi anni.
Come sottolinea Manfredi Catella, patron di Coima, uno dei più grandi sviluppatori immobiliari italiani, ognuno fa il suo mestiere. E’ alla politica che spetta il compito di stabilire le regole, dice: gli affari, sintetizzo, restano affari. Catella è uno degli uomini più potenti in città: per influenza e relazioni stacca di gran lunga il sindaco del capoluogo lombardo. Con il vantaggio di non essere legato a nessuna famiglia politica, e poter, quindi, lavorare con tutti, indipendentemente dal colore.

Un amico mi diceva di vivere a Maciachini. Pensavo fosse un po’ fuori. “Guarda che tutta Milano è centro: fra qualche anno non ci sarà differenza, vedrai”. Non comprendevo. Poi sono passato in viale Isonzo, circonvallazione esterna, le colonne d’Ercole tra due mondi: l’inizio della fine. Una volta, forse. Dietro al vicino scalo di Porta Romana, dove sorgerà il Villaggio per le Olimpiadi invernali senza montagna dell’anno prossimo e che diventerà uno studentato una volta archiviato l’evento, vedo un capannello di ragazzi: l’italiano è una lingua staniera, quella ufficiale è l’inglese. Sono gli ospiti del primo edificio del complesso, riuniti nella pizzeria costruita lì sotto. Stessi vestiti, stessi profumi, stessi discorsi dei coetanei di Londra, Varsavia, Madrid. Stesse ambizioni (Ral, e beato chi non capisce l’acronimo): stesso retroterra economico (privilegiato) e culturale (in massima parte, figli di professionisti), che possono pagare 1.500 euro al mese per una stanza con bagno e cucinino, oltre alla retta delle università private più à la page. Era periferia, ed è stata inghiottita dal centro: a pochi passi c’è la Fondazione Prada, che, quanta lungimiranza, quindici anni fa investì nell’area, diventandone il perno. Più dietro viale Ortles, dove c’è un dormitorio per senzatetto, chissà per quanto. A quel punto ho capito. “Fanno il deserto, e la chiamano pace”: mi vengono in mente le parole di Tacito, un risuonare sinistro e senza tempo per una città che sta perdendo l’anima.

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Ripensare le città: un’intervista a Carlos Moreno

Può capitare che si organizzi un’intervista, e che per qualche motivo non esca. Può capitare anche che ce la si dimentichi in una cartella del pc. Mi è accaduto – mea culpa – con Carlos Moreno, il teorico della città dei quindici minuti, di gran moda a livello globale e con cui avevo parlato un annetto fa durante la presentazione del progetto del nuovo piazzale Loreto, di cui è sponsor. La riporto qui. Cerniera tra centro e periferia, piazzale Loreto, uno dei luoghi più transitati del capoluogo lombardo, sarà completamente ridisegnato. Spariranno o quasi le auto; appariranno pedoni, alberi e negozi.
Tutto bene? Non proprio. In una città dai valori immobiliari impazziti come la Milano di oggi, un progetto del genere allarga la portata della bolla, espellendo residenti e storici negozianti per far posto a chi può permettersi di reggere il passo. E’ già accaduto nella vicina NoLo (nuovo nome con cui si è chiamata una delle strade più scalcagnate di Milano e la si è resa appetibile); sta avvenendo a Porta Romana e in molti altri quartieri. Il fatto è che una città è un organismo per propria natura imperfetto; cercare la perfezione genera mostri. Vendibili, forse, ma inabitabili. E non sempre i cittadini sono d’accordo. Ecco il pezzo.

Lei è il teorico della città dei quindici minuti, modello applicato in diverse metropoli mondiali. Per esempio, la Parigi di Anna Hidalgo. Come sintetizza il suo pensiero?

Se dovessimo riassumerlo,  potremmo dire che l’obiettivo è definire una città policentrica, decentralizzata, dotata di molti servizi differenti, con una forte riduzione delle distanze. Una città che sviluppi infrastrutture dalla destinazione d’uso plurima. E ultimo, ma non per importanza, una città in grado di sviluppare nuovi modelli economici, per dar luogo a un’economia locale più vibrante, occupazione locale, minore uso delle materie prime.

Da dove, da cosa ha tratto ispirazione?

Da molti pensatori, ma la mia maggior fonte di ispirazione è stata Jane Jacobs, attivista e scrittrice nordamericana, che ha sviluppato il concept della “living city” . Ma non solo: ci sono il new urbanism, il new pedestrianism. In Italia avete la grande scuola di Aldo Rossi. Ho proposto un nuovo paradigma nel punto di convergenza tra le idee di molti pensatori e doers, per attualizzarle al ventunesimo secolo. Un tempo di grandissima urbanizzazione, segnato dalla crisi climatica e da altre come il covid e la guerra.

La pandemia ha fermato il mondo per mesi, costringendoci a ripensare le nostre abitudini. Quanto ha cambiato il covid la prospettiva dei sindaci?

Si è trattato di un crisi molto profonda, ma anche di una grande opportunità per trasformare il modo in cui lavoriamo. Innanzitutto, invece di continuare con lunghe ore di pendolarismo molte persone hanno imparato a lavorare in maniera diversa con la ibridazione tra presenza fisica e attività in remoto. Il secondo punto è che le persone, specialmente tra i venti e i quarant’anni, hanno scoperto il “tempo utile”, cioè la possibilità di avere tempo a disposizione per attività personali, familiari, sociali. E’ una conseguenza del nuovo modo di lavorare: se la gente ha la possibilità di ridurre i lunghi tragitti da pendolare, questo tempo in più  offre finestre per sviluppare nuove attività sociali e amicali. Terzo, con il covid molti hanno scoperto nuove risorse di prossimità: aree verdi , negozi locali, attività culturali e sportive: risorse che si trovano già nello spazio urbano e sono vicine a noi.

Ci sono già molte città in cui le sue teorie sono state applicate: quali sono?

Ne abbiamo tante, in effetti, sparse per il mondo. La novità è l’impegno del C40, di cui fanno parte Roma e Milano. A Milano, il sindaco Sala è totalmente coinvolto. La campagna elettorale per la sua rielezione è stata basata sulla città dei 15 minuti; Roma è nella stessa situazione. Anche in Europa gli esempi non mancano: Lisbona, Barcellona, la nazione scozzese – non solo una città, ma tutta una regione – . Recentemente non solo Parigi, ma tutta la regione dell’Ile de France ha abbracciato questo concept. E poi Buenos Aires, Bogotà, Portland, Cleveland,  Seattle,  Seul, Susa (tra le più grandi città della Tunisia). In Senegal, la capitale Dakar e in Polonia persino molte zone rurali.

Con la pandemia è cambiato il modo di percepire le città,. Ma gli effetti non hanno solo segno positivo.  A volte, migliorando la città l’effetto è espellere certe fasce della popolazione. Milano probabilmente sta commettendo questo errore. Che ne pensa?

Dobbiamo sviluppare il concept della città dei 15 minuti con l’idea di ribilanciare le città. Alcune dinamiche si ripropongono simili in tutti i continenti: una gentrification forte e importante, una frammentazione, una zonizzazione. Con la città dei 15 minuti vogliamo proporre una nuova politica urbana, per arrivare a un nuovo processo decisionale e a un ribilanciamento verso una città policentrica. Ognuno di questi nuovi poli deve offrire servizi culturali, negozi, sport e rigenerare l’occupazione locale. Per quanto riguarda l’housing, dobbiamo promuovere policy per avere social housing e limitare i prezzi di affitti e appartamenti.

Insomma, questo concept deve essere accompagnato da policy sociali.

Con l’esperienza che abbiamo oggi, è molto chiaro che dobbiamo mixare l’housing per la classe media con quello di alto livello. La chiave di volta per implementare con successo la città dei 15 minuti è il mix massivo di categorie sociali e funzionalità. E’ possibile se ci diamo l’obiettivo di creare un percorso che conduca a un ecosistema pubblico-privato. Dobbiamo creare queste alleanze per generare nuovi modelli di business, e sviluppare questa coesistenza.

Il processo di ridefinizione di una città nell’ottica dei quindici minuti può essere vissuto dalla popolazione come top-down: il sindaco decide, la popolazione esegue. Ci sono altri approcci più partecipativi che sostengono, invece, che sia necessario ascoltare di più la voce dei residenti. Per esempio, ci sono esperimenti in Svezia al riguardo. Che ne pensa?

Dopo anni di lavoro con tanti sindaci e associazioni civiche posso dire che non c’è una ricetta valida per tutti: [ridisegnare una città] è un processo di lungo termine il cui punto cruciale è combinare tutti gli elementi in maniera ottimale. Per seguire questa traiettoria, abbiamo senz’altro bisogno di un forte impegno dei sindaci a sviluppare nuove policy urbane, ma allo stesso tempo è necessario sviluppare un impegno rilevante da parte dei cittadini. Un grande esempio è proprio qui a Milano con la community Loreto 2026. Oggi c’è una rotonda completamente dedicata alle macchine, che potremo definire un attrattore di ingorghi. Molti passano un sacco di tempo in auto, eppure si rifiutano di abbandonarla. Per cambiare, dobbiamo creare accettabilità sociale: questa è la grande domanda per me, perché questa trasformazione coinvolge un sacco di persone differenti. Dobbiamo combinare le decisioni strategiche degli amministratore con la partecipazione. Col mio gruppo di lavoro all’università abbiamo sviluppato un nuovo tool che si chiama Proximity Fresk, un gioco materiale per sviluppare la partecipazione dei cittadini: prendono una mappa del territorio, cominciano a ragionarci, e si chiedono quali sono gli ostacoli che impediscono la trasformazione. Dobbiamo combinare visione strategica e partecipazione, e per questo occorre creare nuovi strumenti.

Come può aiutare la tecnologia?

Può aiutare a visualizzare i differenti stadi del progetto, per esempio a far vedere come diventerà l’area su cui oggi sorge la rotonda di piazzale Loreto dopo la trasformazione. Ci saranno fasi molto dure per gli abitanti durante i lavori: i trasporti saranno disturbati per più di un anno, per esempio. Le tecnologie potranno servire per spiegare quello che accade e monitorare, e avere in questo modo un ruolo pedagogico.

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