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Qualche considerazione finale sulla Cop30 di Belém

Belém (Brasile) – Niente riferimento alla tabella di marcia per la transizione dalle fonti fossili, ma un impegno a triplicare i fondi per l’adattamento. E la dimostrazione che, nonostante tutto, la diplomazia climatica può fare a meno degli Stati Uniti. E’ una conclusione agrodolce quella della Cop30. Belém poteva essere storica, e non lo è stata. Ma almeno non ha rappresentato un tracolllo rispetto alle scorse edizioni di Baku e Dubai. Raccolgo qui qualche considerazione.

  1. Che cosa vogliono i paesi che bloccano il negoziato? Il mondo va verso la transizione energetica, innegabilmente. Nessuno, neanche gli Stati che si basano sul petrolio o sul gas (petromonarchie del Golfo, Russia) può illudersi di fermare o invertire il processo. E allora cosa vogliono? Influenza. Al potere ci si abitua: e il petrolio ha dato ampi margini a territori desertici che altrimenti sarebbero stati ignorati. In Medio Oriente stanno investendo per garantirsi rendite post petrolio, e il tempo in finanza è un fattore chiave: quindi rallentare ha senso per incamerare più risorse. Ma agire da veto-player, piccoli attori che sfruttano le falle dei meccanismi negoziali per bloccare tutto e avere visibilità (pensate ai partitini decisivi per costituire le maggioranze) è anche un modo per affermare la propria diplomazia e il proprio ruolo, anche di ponte culturale, senza tornare piccoli e insignificanti.
  2. Tutto è legato nel mondo di oggi. L’ambiente è il tema principale per noi che frequentiamo le conferenze del clima. Ma la realtà è che è usato come merce di scambio su altri tavoli. Per ottenere concessioni tariffarie, per esempio – non a caso si è parlato tanto di commercio in questa Cop. Non è solo clima, dunque: quando una delegazione riceve ordini per negoziare su una certa posizione, bisogna sempre guardare al contesto geopolitico. Esempio: l’Ucraina non può essere a favore delle fonti fossili (gradite alla Russia, che le esporta). Ma non può dirlo, perché il principale alleato è l’America di Trump. Queste situazioni sono la regola, non l’eccezione. L’India ha un problema demografico e di povertà: negozia sull’ambiente per ottenere altro. Lo stesso Brasile scambia l’Amazzonia con altro. Vicende come quella dei marò insegnano che per avere visibilità ci si attacca a questioni-simbolo. Vale anche per il clima.
  3. Esistono questioni globali, come l’Amazzonia, polmone verde del mondo, che appaiono molto diverse a livello locale. Se per il mondo salvare la foresta tropicale è una priorità, per paesi che hanno bisogno di crescere – e il Brasile sta cercando di diventare una media potenza – , tutto fa brodo: è l’economia dello sviluppo che chiede di chiudere un occhio, forse anche due, per superare la fase di decollo e raggiungere la massa critica. Lo abbiamo fatto anche noi in Italia, lo sta facendo la Polonia, lo ha fatto la Cina – ricordiamoci le Olimpiadi di Pechino con l’aria nera per lo smog, ed era solo il 2008.  Funziona così. Fare finta di scordarselo è ipocrita; non saperlo è ignoranza.
  4. Passare all’elettrico è necessario. Ma ha i suoi costi. Alti. Anche qui, la differenza tra questione globale e impatto locale. L’estrazione del litio e delle terre rare, necessarie per la transizione, sta devastando interi territori. Se ne parla poco, pochissimo. Ma dall’Amazzonia si vede. Qui vicino, in Cile, Argentina, e poi in Africa e nella stessa Cina, questi materiali sono il nuovo petrolio, inteso anche come potere di distruzione. Quanto si può scaricare su paesi e persone il costo di un modello di sviluppo globale basato sullo spreco?  Nei prossimi anni, risolto il tema del clima, il problema sarà questo.
  5. La Cina non vuole essere leader di nulla. Essere avaguardia comporta responsabilità, quantomeno morali.  Che Pechino non vuole. Se fa la transizione, la fa per interesse. Nessuno , in politica, agisce per idealismo: ma la saggezza millenaria insegna ai governanti cinesi che è meglio pensare ai fatti propri. Anche perché, nelle conferenze del clima, la Cina è ancora considerata un paese in via di sviluppo, come era quando le regole furono scritte, nel 1992. Diventare leader significa uscire da quelle tabelle, e quindi pagare di più.
  6. Il processo negoziale ha funzionato per trent’anni, ma va riformato. Il problema è come. Non siamo più nel mondo della globalizzazione, dove si rincorreva l’illusione di un governo mondiale. Molte delle cose positive di questa cop30 sono avvenute nei tavoli laterali. L’aveva previsto l’amico Jacopo Bencini. Il fondo per le foreste tropicali dei primi giorni,  il consenso per una conferenza sulle fonti fossili (aprile 2026, Santa Marta, Colombia, paese che l’ha lanciata con la pasionaria Irene Velez Torres). La roadmap per la transizione, che ha aggregato consenso da parte di 84 paesi, lanciata dal Brasile, che porterà avanti l’idea nei prossimi mesi. Tutto bello. Ma il vantaggio dell’Onu è che offre una cornice strutturata. Le procedure sono noiose, ma salvano. E’ la differenza tra un’azienda e una startup: di queste ultime, dopo un anno sopravvive una su dieci. Dopo cinque? Ancora una su dieci. Di quelle che rimangono. E quelle che resistono, se crescono di scala, si danno delle regole. Una conferenza organizzata così può avere un paio di edizioni: ma come deciderà? Cosa succederà in caso di impasse? Chi darà le carte? L’Onu ha risposte per tutte queste domande, risposte condivise e frutto di un processo di creazione di conoscenza e cultura negoziale quasi secolare, e sicuramente secolare se guardiamo anche all’esperienza della Società delle Nazioni. Il tentativo è apprezzabile, ma non si può abbandonare le Nazioni Unite pensando di farne a meno: ben vengano le iniziative collaterali, anche come stimono a un processo di riforma. Ma non illudiamoci.
  7. Le piccole isole, che l’anno scorso avevano inscenato un drammatico walk out, quest’anno si sono sentite poco. Era la cop della foresta. Ma loro rischiano di finire sott’acqua. Peccato.
  8. La sospensione della plenaria (richiesta da Panama) non deve diventare una norma. Colpi di mano della presidenza devono essere evitati il più possibile, perché ormai ci sono paesi che, anche grazie ai nuovi media, anche se piccoli godono di visibilià e influenza, al punto da prendere la parola e bloccare tutto. Soluzione: niente forzature alla Al Jaber. Si ascoltano tutti. Sarà più lunga, ma per decenni ai piccoli è stata data solo l’illusione di contare. Oggi non è più così: stanno nascendo nuove alleanze, e si sentono spalleggiati. Vanno inclusi.
  9. Si può fare a meno degli Stati Uniti, nella diplomazia climatica. Certamente, se Washington avesse appoggiato la roadmap, la si sarebbe fatta – questo per dire il peso specifico. Non è solo questione di Trump: un passo del genere non lo avrebbe supportato neanche Biden. Però il multilateralismo ha retto. Mi è piaciuto anche il ruolo delle città in questa conferenza, più visibili: è un aspetto su cui lavorare.
  10. Una relazionalità esasperata alle conferenze del clima. Biglietti da visita, strette di mano, salamelecchi. Nessuno si salva, neanche chi scrive. Ma forse è il momento di tornare a pensare un po’ più al nostro lavoro, e un po’ meno a noi stessi. Da Belèm è tutto, appuntamento in Turchia.
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Un leader che resterà nella storia

A pochi giorni dai terribili attacchi di Hamas, il 24 ottobre 2023, nel momento in cui la sola retorica della vendetta dominava i media e le dichiarazioni della politica, un unico leader ebbe il coraggio di contestualizzare e ripetere che, per quanto tragico, quanto accaduto “didn’t happen in a vacuum“. Era il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres. Un funzionario (non un politico) che sarà ricordato a lungo per l’audacia nel prendere posizioni scomode e scagliarsi contro lo status quo. Non solo in questo caso.

Con le sue affermazioni (che gli attirarono la reazione rabbiosa di Israele), Guterres consentì di fatto alla stampa di uscire dall’angolo e cominciare a raccontare un’altra versione della storia, più aderente alla realtà. La stessa che ha portato alle manifestazioni di solidarietà con il popolo martoriato di Gaza delle settimane scorse. Non è un mistero che i giornali (con poche, lodevoli eccezioni) siano pavidi di fronte al potere, agli investitori, ma anche – negli ultimi anni – al politicamente corretto. Molto di quello che leggiamo riflette la preoccupazione di non disturbare. Onore, dunque, ad Antonio Guterres, uomo vero in un mondo di pagliacci.

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Ora chi era in piazza a Milano deve tornarci

Non è che l’inizio. I fatti di Milano, con gli scontri e l’assalto alla Stazione centrale, hanno oscurato buona parte delle proteste pacifiche per Gaza di lunedì 22 settembre.  La stampa, anche internazionale, ha fatto fatica a distribuire i pesi. Anche a distanza di ore. Ricevo diverse newsletter, e ho particolarmente apprezzato quelle (un nome su tutti: Good morning Italia) che hanno titolato sul buono della piazza di ieri: grande, partecipata, sacrificata (non solo per il meteo, ma anche perché trattavasi di sciopero, e chi c’era rinunciava alla giornata di paga). La foto qui sopra è stata scattata nei luoghi della guerriglia, pochi minuti prima: non ci sono black block, perché la manifestazione è stata pacifica, e molto meno aggressiva di tante altre di questi anni, negli slogan e nell’atteggiamento.

Non è che l’inizio, perché ieri tanti sono tornati a casa e si  sono sentiti dire: “Visto, te l’avevo detto, ma lascia stare, chi te lo fa fare”. E poi il commento peggiore, quello buono per tutte le stagioni: “Non serve a niente”.

La realtà è diversa. Prendere le strade in maniera pacifica serve, eccome. La protesta di ieri sarebbe finita sui media di tutto il mondo anche se non ci fossero stati gli scontri: ci sarebbe solo finita in maniera migliore. Guardiamo i portuali di Genova, che da mesi si danno da fare per impedire il transito di merci per Israele e carichi di armi.

Per bloccare un paese non serve distruggere una città: basta incrociare le braccia. Basta sedersi per terra, come insegnano da anni gli attivisti del clima, memori della lezione di chi ha protestato prima di loro.

Disaccoppiamo la violenza dalla visibilità: le cose, anche sui media, non funzionano così. Anzi. Si passa per delinquenti, si distrugge in poche ore quanto seminato per anni. E bisogna saperlo.

Ho letto a sinistra analisi che rimarcavano come la polizia abbia manganellato. Inutile girarci intorno: ci sono casi in cui il ricorso alle maniere forti è giustificato. E chi decide di vandalizzare una città, se non è un, passatemi il termine, cagasotto, deve accettare il rischio di prenderle. Questi pusinllanimi di quart’ordine, aggressivi a parole e nei fatti, e poi pronti ad andare a piangere a favor di telecamera mostrando le ferite fanno il gioco di chi non vuole mollare Nethanyahu, in questo caso, come il governo italiano; e, più in generale, di chi si oppone al cambiamento.

Non è che l’inizio perché chi c’era in piazza deve tornarci, senza lasciarsi scoraggiare dalla cattiva pubblicità. Bisogna isolare i violenti, diluire il ricordo di quanto accaduto con dieci, cento nuove piazze e iniziative, colorate e pacifiche. Con azioni di disobbedienza civile, scioperi bianchi, boicottaggi: c’è un campionario ricco cui attingere.

Le infatuazioni durano un battito di ciglia, e chi distrugge non ama una causa piuttosto che un’altra: protesta a prescindere. Per disagio, narcisismo, vanagloria. A volte anche perché prezzolato. E’ probabile che ieri vi fossero dei provocatori, non molti, seguiti a ruota da una manica di imbecilli privi di qualsiasi capacità di analisi, e a cui non pareva vero di avere un lasciapassare.

La parte buona della piazza di ieri deve tornare sulle strade, e farlo presto. Il momento è cruciale: c’è l’anniversario del 7 ottobre, l’assalto finale a Gaza City. C’è da immaginare il futuro della Striscia, senza America e senza Israele. I tempi della diplomazia sono lunghi, ma la soluzione a due Stati, se non diventa un alibi per l’inazione, è il primo passo, e va sostenuta, ora che è vicina. Diluiamo la violenza dei professionisti della protesta con la continuità della passione civile dei molti. E continuiamo a sacrificarci per combattere questo genocidio orrendo. Noi, che nel mondo proviamo ancora a cercare la bellezza, nonostante i nostri problemi, le nostre ansie, le nostre difficoltà. Nonostante questi tempi grami.

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Se la Fondazione Fiera Milano non rispetta le regole edilizie per il cantiere del nuovo centro di produzione Rai

Non c’è solo Manfredi Catella, si direbbe,  tra chi pare disporre a piacimento dell’edilizia pubblica milanese. Sulle eventuali responsabilità del patron di Coima, coinvolto nell’inchiesta sulle operazioni che hanno dato vita al “modello Milano”, sta indagando la magistratura. Che un risultato, invero, lo ha già ottenuto: ha posto fine a un’epoca, quella in cui si parlava al telefono serenamente di come spingere progetti nelle commissioni urbanistiche; e i suddetti, poi, trovavano la propria via fino al cantiere con percorsi facilitati. Uno stato di cose che stava bene anche al sindaco, innamorato del cemento e dell’acciaio dei nuovi quartieri. Solo chiacchiere tra conoscenti, si difendono loro: le città italiane sono piccole e, sapete com’è, ci si conosce tutti. Vedremo se reggerà in tribunale. Ma vale la pena di ricordare che nelle aule non si fa giustizia: si applica la legge. E il problema politico resterà, qualunque sia il verdetto. Un problema per il centro sinistra, per il Pd, e per tutti i milanesi che hanno chiuso gli occhi in questi anni (ma si sono affrettati ad aggiungersi al coro delle lamentele ora che è intervenuta la magistratura).

In realtà faremmo torto a Catella se riducessimo a lui la stagione del laissez faire all’ombra della Madunina: in città sono parecchi i soggetti che fanno pensare a Orwell e alla sua Fattoria degli animali, dove “Tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”.

***

Veniamo al motivo di questo pezzo, precisando che, in questo caso, scrivo da cittadino e residente di via Gattamelata, dove la Fondazione Fiera Milano sta demolendo  i vecchi capannoni per fare posto al nuovo centro di produzione della Rai, che accorperà gli studi di via Mecenate e corso Sempione.

Un po’ di storia. La Fondazione Fiera Milano ha origini negli anni Venti del secolo scorso. Gestisce il sistema delle fiere meneghine. Navigando in acque a volte perigliose  (l’ex amministratore delegato Enrico Pazzali è indagato nell’ambito dell’inchiesta Equalize per una storiaccia di presunti dossieraggi illeciti. Il suo posto è stato preso a fine luglio da Giovanni Bozzetti, indicato dalla giunta lombarda e avallato da Palazzo Marino, cioè il Comune di Milano).

I lavori sono partiti a gennaio. Per mesi, lamentano i residenti, e fino a oggi, il cantiere è rimasto aperto sette giorni su sette. Si è dovuto procedere alla demolizione di un paio di padiglioni esistenti per far spazio alle nuove volumetrie, e se non avete presente le dimensioni del complesso, diciamo subito che non è facile raccontarle: ma parliamo di un paio di campi di calcio di cemento armato e metallo, altezza venti metri.

Probabilmente i lavori hanno marciato accumulando ritardo, e pare che una parte del complesso debba essere pronta per le Olimpiadi invernali di febbraio: così, si diceva, il cantiere si è fermato solo di notte, spesso attaccando alle 6:30 del mattino e continuando a martellare  fino alle 18:30. Un massacro per i polmoni dei residenti (le polveri sollevate non erano abbattute con strumenti adeguati), le vibrazioni prodotte (sono diversi quelli che se ne lamentano costantemente da mesi, e notano crepe nei muri, tanto che sono stati installati dei sismografi nei palazzi per monitorare il rispetto dei parametri) e per le povere orecchie e la stabilità mentale di chi lì risiede: immaginate di lavorare tutta la settimana, magari su turni, ed essere svegliati anche il sabato e la domenica mattina dai macchinari impegnati in un cantiere demolitivo, in cui blocchi di cemento armato vengono frantumenti gettandoli da cinque o sei mesi di altezza.

L’amministratore di uno dei condomini, quello in cui abita il sottoscritto, ha provato qualche debole protesta, non troppo convinta. Risultato: nulla.

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Dopo mesi di weekend con sveglie militari, vista l’inazione di chi dovrebbe rappresentarci ed esasperato da una moglie che minaccia di trasferirsi in campagna (siamo appena arrivati al Portello a febbraio!), una domenica mattina decido di prendere in mano la situazione e chiamare i vigili personalmente. Il mio diritto alla salute, in fondo, prevale su consiglieri, amministratori e rappresentanze varie.

La polizia locale esce subito e chiede agli operai le autorizzazioni a lavorare di domenica: il capocantiere – ero lì presente  – dice che non ne dispone in loco, ma le avrebbe fornite il giorno dopo via mail.

Gli agenti  – sbagliando – se ne vanno: secondo le norme avrebbero dovuto fare sgomberare tutto. Le maestranze rientrano, non senza una certa soddisfazione, e il cantiere riprende.

Avendo fatto la gavetta per anni in cronaca locale, so come funzionano certe cose: mi attivo scrivendo alla circoscrizione e alla presidente Giulia Pelucchi, ma anche all’urp del Comune di Milano e all’indirizzo cantiereincorso@fondazionefiera.it. Come insegnano i manuali di comunicazione, bisogna averlo, un indirizzo del genere, e rispondere sempre con un paio di frasi fatte a chi si prende la briga di scrivere.  Cosa dire, appunto, è un altro discorso. La statistica spiega che la gente si stufa, e prima o poi lascerà perdere.

Non è il mio caso. Nelle missive chiedo essenzialmente una cosa: se il cantiere della Fondazione fiera Milano abbia o meno una deroga per lavorare sabato e domenica. L’urp non entra nel merito: si limita a rispondermi citando il regolamento edilizio, che afferma che il sabato è concesso lavorare solo fino alle 1230, salvo deroghe. Idem la domenica. Ok, ma queste deroghe ci sono o no?, riattacco. Perché, per propria natura, dovrebbero essere temporanee, e non durare mesi: avrei parlato col dirigente comunale che le avesse (eventualmente) concesse per far valere le nostre ragioni di cittadini esasperati. Chiedo via pec una visura della documentazione: dopo due settimane non è ancora arrivata.

La Fondazione fiera Milano, dal canto suo, mi risponde con affettata cortesia dopo un paio di giorni che i lavori seguono le regole, che loro sono molto attenti al nostro benessere e che sospenderanno le lavorazioni rumorose la domenica. Replica: gentili, ma non basta questo. Dovete attenervi alle norme; e mostrare i permessi. Nessuna risposta.  

La dottoressa Pelucchi, in copia a tutte le mail e presidente del municipio 8, si rende disponibile a incontrarci.

Tanto per non far,i mancare nulla, e a dimostrazione del fatto che l’azione sia corale, raccolgo 70 firme di condomini esasperati.

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La faccio breve: la deroga non ci è mai arrivata in visione, da parte di nessuno. E c’è un motivo chiaro: con tutta probabilità, allo stato, non esiste, e non è mai esistita.

Spiego meglio il concetto: la Fondazione Fiera Milano sta costruendo il cantiere dove sorgerà il nuovo centro di produzione meneghino della Rai radiotelevisione italiana non rispettando il regolamento edilizio e lavorando sette giorni su sette, incurante dei disagi e delle proteste di 70 cittadini che abitano lì di fronte e da mesi cercano di farsi sentire. La stessa azienda che fa trasmissioni tipo Mi manda Raitre.

E veniamo a oggi. Con incredibile nonchalance, da due settimane i lavori proseguono sabato e domenica, in orari vietati. Stamane io e altri condomini chiamiamo nuovamente i vigili. Questa volta la pattuglia, di una gentilezza e professionalità encomiabili, ha fatto ciò che è dovuto in questi casi: di fronte alle giustificazioni farfugliate dal capocantiere (le stesse che evidentemente la volta prima avevano funzionato), emette una sanzione, e fa sgomberare l’area seduta stante. Stop ai lavori, tutti a casa. Si chiude. Potrei anche raccontare che, mentre io e la custode del nostro condominio assistevamo all’operazione di sgombero, un paio di operai si sono prodotti in atteggiamenti da smargiassi paramafiosi: e mi verrebbe da chiedere ai committenti della Fondazione Fiera Milano che cosa ne pensano. Lascio a loro le risposte.

***

Credetemi, non esagero dicendo che il rumore è micidiale, altrimenti non conbatteremmo questa battaglia  (e non avremmo raccolto 70 firme). Confesso che, da giornalista, queste vicende le ho sempre seguite per conto di altri; mai in prima persona. Oggi sperimento che è incredibile la sensazione di impotenza che si prova nel trovarsi di fronte a un abuso e sentirsi le mani legate.

Scrivo questo pezzo per dare visibilità a un atteggiamento intollerabile da parte di chi dovrebbe dare l’esempio. Un ente come la Fondazione fiera non può fare quello che vuole, nemmeno nella Milano di questi anni. E neanche se gestisce una delle più grandi esposizioni al mondo. Anzi, soprattutto per questo.

Aggiungo un’altra cosa. Gli operai stamane si divertivano a irridere chi protestava ieri per la vicenda Leoncavallo, con frasi becere tipo “sai se andavamo là quante zecche trovavamo da schiacciare?”- frasi fasciste, squadriste e volgari. Si tratta di proteste contro presunti abusi proprio come quello che vi ho raccontato. Che ne pensa la Fondazione fiera Milano?

(nella foto mia, gli agenti della polizia locale nel cantiere la mattina di domenica 7 settembre)

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Qualche pensiero sulla partecipazione

Era un’esperienza legata alle grandi battaglie civili, e il riferimento in Italia sono sicuramente i radicali di Marco Pannella; negli anni è diventata una moda alimentare, non sempre con l’ausilio del buonsenso. Ma, prima ancora, era un’esperienza mistica, i cui riverberi si sentono nel Ramadan musulmano e nella quaresima cristiana. Atti politici, di penitenza, o di benessere. Ma il digiuno resta, prima di tutto, l’assenza di cibo. Una mancanza non autoinflitta. Cattivi raccolti, tempo inclemente, grande freddo o caldo: il piatto resta vuoto. Non solo. Più spesso che no è stato usato come arma di guerra. Gaza non è il primo caso:  in Somalia, per esempio, durante la guerra civile all’inizio degli anni Novanta. Ma la storia non manca di ammonimenti. Si imprime la fame nel corpo e nella mente di una popolazione per fiaccarne la resistenza, per risvegliare gli istinti animaleschi che la cività ha sopito; per riportarla all’homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’uomo), sintesi filosofica di Hobbes per qualcuno insuperata.

Quando mia moglie (che lavora in un ospedale) mi ha proposto di aderire al digiuno per Gaza di medici e operatori sanitari il 28 agosto – la campagna era aperta anche ai cittadini comuni -, ho subito accettato: apprezzavo che lo spunto arrivasse da una persona con un pensiero preciso su molte questioni del nostro tempo, ma che di solito tende a tenere per sé le proprie considerazioni quando si tratta di dimostrazioni pubbliche. Credo, invece, che ci sia bisogno di atti politici. Così, senza pensarci troppo, abbiamo cominciato queste 24 ore. Proverò a lasciare qui qualche ricordo.

Il primo è l’acuirsi dei sensi. Il corpo è sveglio, lucido, concentrato. Sin troppo. Si torna sempre con la testa al cibo, ma è come se la mente diventasse più affilata, come se sgombrasse il campo da tutto quanto è superfluo – forse il cibo è la metafora del sovraccarico interiore – . Mi ha fatto venire in mente l’esperienza del Ramadan, il digiuno dal tramonto all’alba dei musulmani, portato avanti un mese all’anno. Per domare la mente e i morsi della fame è necessario tornare alla motivazione, che, in questa maniera, viene accarezzata con costanza. Mi è diventato più semplice capire come l’atto del privarsi del cibo in nome di una ricerca spirituale possa aumentare la fede. Si tratta, in un certo senso, di un investimento emotivo, che lega chi lo pratica al suo oggetto. Tornare ogni volta, tante volte al giorno, con il pensiero alla motivazione consente di vincere la tentazione di mangiare o bere: e rinsalda, così, il proposito con la ripetizione. In tempi vacui, in cui l’attenzione mediamente non dura più di otto secondi per l’influsso dell’ecosistema digitale e visuale in cui siamo immersi, in tempi in cui è possibile parcellizzare anche il lavoro quotidiano in micro-unità da prendere e lasciare quando ci fa comodo, è sempre più raro trovare il senso della continuità. Una sorta di flusso, concetto che mima lo stato mentale sperimentato dai mistici, dove la mente è così concentrata da toccare il sublime. La sto facendo troppo lirica, forse, e le mie sono state solo ventiquattro ore: ho fatto poco. Ma ha permesso, anche a me che non salto mai un pasto, di avvicinarmi a un concetto che mi era sconosciuto.

Altra scoperta: la forza viene dalla disciplina. A volte qualcuno ti chiede come stai. Fa molto piacere, perché aiuta. Ma, inspiegabilmente, si sente un’energia diversa. Forse dovuta al fatto che il corpo non ha risorse impegnate nella digestione, e quindi ne restano di più per il resto; forse per il potere che ha la mente di favorire la secrezione di ormoni del benessere quando ci sentiamo motivati e partecipi di qualcosa di più grande di noi; forse perché, se riusciamo a vincere tante piccole battaglie, cominciamo a intravedere la possibilità di vincerne anche qualcuna più rilevante.

Non lo so. Sta di fatto che il digiuno ha rinforzato la mia motivazione a sostenere la causa di Gaza. E questo non me lo sarei aspettato: credevo fosse un atto dimostrativo, un sacrificio rivolto all’esterno; invece il suo valore è stato anche, e per una buona metà, quello di rinsaldare il mio personale proposito di fare qualcosa per quella terra martoriata; e, in generale, per le cause che mi stanno a cuore. Trovare del tempo, soprattutto. Come diceva Seneca duemila anni fa, quanto la vita era meno frenetica di oggi: non ne abbiamo poco, ne sprechiamo molto. Riuscire a riportare la mente costantemente e tranquillanente su un obiettivo aiuta. Lo yoga lo fa con il respiro. E, come spesso accade, ha ragione.

***

Fin qui la componente individuale. Ce n’è chiaramente un’altra, che distingue l’atto del digiunare per una causa da quello di ricerca interiore, di fede o di penitenza: la dimensione politica.

In questo senso, è necessario comunicare quello che si fa. Nell’epoca dei social network, è un’attività quotidiana per tutti. Eppure, ho visto che tanti hanno mostrato sincero apprezzamento, e sostegno quando ho scritto un post, come richiesto dalla campagna. Ho avuto la sensazione che, se un atto politico arriva da una persona che conosciamo o stimiamo, questo riesca a superare il filtro razionale che mettiamo di fronte alle notizie del telegiornale. Una persona a noi nota che racconta di aver fatto un digiuno per Gaza spinge a riflettere più dei resoconti degli inviati. Sto probabilmente scoprendo l’acqua calda; chi organizza campagne di comunicazione lo sa benissimo, e per questo arruola personaggi pubblici; ma fa un certo effetto sapere di avere questo potere. E non è solo di chi, lavorando nei media, ha più visibilità: è – ovviamente con gradazioni differenti – di tutti. Il concetto è che se si conosce una persona, la si ritiene credibile, e quindi ci si concede lo spazio mentale per una riflessione. Che in qualche caso porta a ripetere il gesto e a innescare una reazione a catena; più spesso resta solo un pensiero. Ma è già abbastanza.

Arriviamo al concetto di partecipazione. Come prevedibile, i commenti sui social non sono stati tutti positivi. C’è chi la ritiene una mera operazione di self marketing (difficile convincerli del contrario: ma comunque, come detto, aderivo a una campagna, e l’ho fatto, peraltro, non senza timore); altri lo ritengono inutile. Questi ultimi, a mio parere, meritano una risposta tratta proprio da questa breve esperienza. Anche qui non scopro niente di nuovo. In sintesi: la partecipazione politica è sempre positiva, in qualunque forma. L’importante è che non tracimi nella violenza. Dalla lettera al giornale al post sul social network, dalla presenza alla maniestazione, al sit-in e ovviamente al voto: tutto conta. Ci sono, chiaramente, azioni più efficaci di altre; ma ogni cosa è meglio dell’inazione. Il politico misura la temperatura alla realtà con il termometro del consenso, e sulla base di questo – che per lui si traduce in possibilità di rielezione – prende le proprie decisioni. Persino i leader autoritari stanno attenti a non esagerare, a non far “venire la febbre”, passatemi l’espressione, al popolo, perché percepiscono che, se le masse si svegliano dal torpore, hanno il potere di rovesciare qualsiasi regime (per sostituirlo con cosa? è la domanda che segue; e anche quella che, non avendo risposta, spesso blocca sul nascere qualunque atto rivoluzionario).

Da quanto sopra discende che constatare una partecipazione pubblica e coordinata a un’azione dimostrativa preoccupa chi decide; e quindi serve, eccome. Oggi gli strumenti digitali permettono molto; se poi si uniscono alla presenza fisica, questa ibridazione amplifica ancora di più. L’idea non è solo quella di mettere in piedi un teatrino social, ovviamente, anche se molti campaigner si accontentano dei like: è quella, più strutturale, di portare gli individui a riflettere, in maniera che orientino le proprie scelte elettorali e di consumo verso obiettivi in linea con i propri valori, senza lasciare la scelta al caso o al mercato con il suo potere di condizionamento. Qui si può trovare la scala della partecipazione, così come disegnata dalla scienza politica sulla base di molti anni di osservazioni. L’essenziale è ricordare che l’atto deve essere pubblico.

Vale la pena ricordare un paio di cose, al riguardo. All’inizio della guerra a Gaza (chiamiamolo pure per quello che è: un genocidio) era molto difficile, per giornalisti e cittadini, mettere le cose in prospettiva. Pur senza negare l’orrore del 7 ottobre e i massacri di Hamas, mantenere lucidità veniva di per sé associato ad antisemitismo; e in questo modo, irretendo chi avrebbe voluto protestare, si giustificava qualunque eccesso. Se l’inerzia è cambiata e oggi ci si può esprimere liberamente  si deve a quei pochi che, sin da subito, hanno con coraggio e non senza timore operato dei distinguo, rischiando pesanti accuse – e anche il lavoro, in certi casi – ; e al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che un mese dopo il massacro precisò, dopo aver espresso solidarietà agli israeliani, che it didn’t happen in a vacuum (non è successo senza contesto). Quello che dice Guterres, ogni volta che si pronuncia, è notizia per qualunque giornale: e così anche chi era timoroso si è sentito autorizzato a riportarne le parole, e a sdoganare un concetto fondamentale per capire quello che sta accadendo in Medio oriente.

La seconda cosa è che i politici sono abili con la comunicazione: e che oggi, domani e per sempre, un governo e lo stesso Nethanyhahu potrebbe infilare quelli che non si sono espressi di fronte al genocidio di Gaza nel conteggio di chi non era contrario: e questo è intollerabile.

Chiudo con un’ultima considerazione. Ancora una volta ho visto che la migliore risposta all’aggressività è ignorarla; e, se proprio si vuole rispondere, argomentare abbassando i toni. Inutile lasciarsi trascinare: anzi, è degradante. Spero che questo lungo flusso di pensieri possa stimolarne altri.  

(Nella foto, medici di un ospedale marchigiano in digiuno. Altre potere trovarle sotto l’hashtah #digiunogaza)

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L’inchiesta urbanistica e il ruolo dei centri sociali

Qualcuno potrebbe pensare che la scarcerazione di Manfredi Catella e degli altri soggetti coinvolti nell’inchiesta sull’urbanistica milanese decisa dal tribunale del Riesame (contrariamente alla richiesta della procura) possa significare che finirà tutto in una bolla di sapone. Non è così. Si dispone la carcerazione preventiva se c’è pericolo di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. Quando al primo, pare sia possibile escluderlo; il danno di immagine sarebbe troppo grande per Catella, che è l’unico che avrebbe i mezzi per vivere all’estero. Per gli altri, fuggire semplicemente non è un’opzione praticabile. Reiterazione del reato? Da escludere. Pare siano ormai tutti lontani dagli incarichi che ricoprivano, almeno da quelli che scottano. Quanto all’inquinamento delle prove, evidentemente i giudici hanno ritenuto che i pubblici ministeri abbiano acquisito elementi sufficienti a dimostrare le accuse. Ci sono centinaia di pagine di chat private agli atti. E il collegamento con quanto effettivamente avvenuto (delibere, permessi, costruzioni) è materiale pubblico.

Quindi tornano a piede libero, ovviamente da osservati speciali. E già qualche giornale ha ripreso a scrivere del ras dell’edilizia milanese con toni compiacenti, suggerendo che quindici giorni ai domiciliari siano un mero incidente di percorso, roba che può succedere. Non è così.

Giova ricordare che nei tribunali non si fa giustizia; si applica la legge, peraltro recentemente depotenziata. Se nessuno subirà condanne penali – ed è tutto da vedere -, ci saranno ancora le cause civili. Ma, soprattutto, va sottolineato un fatto: l’inchiesta della procura ha scritto la parola fine su una stagione che pareva destinata a durare per sempre, tanto era ben oliata la macchina del marketing. E ci vorranno almeno quindici anni – speriamo – perché qualcuno ci riprovi. Costruttori, ex assessori e architetti coinvolti se ne dovranno fare una ragione: indietro non si torna.

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E qui veniamo ai giorni nostri.

Giovedì 21 agosto la polizia ha sgomberato il centro sociale Leoncavallo, un pezzo di storia milanese, in un quartiere – quello di Greco – bigio e preda dei palazzinari.

Il Leoncavallo negli anni scorsi è stato l’unica realtà a protestare – assieme a tutta la galassia antagonista – contro il caro casa e la speculazione edilizia meneghine. Pochi i politici, e non certo il Pd, che governa Milano da un decennio con Beppe Sala. Nonostante le lacrime di coccodrillo di queste settimane.

Milano non ha mai (sottolineo: mai) fatto una manifestazione contro quanto accadeva in città. Si è limitata a non presentarsi alle urne, per non esporsi, e perché comunque l’aumento dei valori immobiliari stava bene a molti. Salvo poi indignarsi quando il lavoro sporco l’ha fatto qualcun altro.

Ma il merito di scoperchiare la pentola va solo alla procura.

Ne risulta, in maniera evidente, che il centro sociale è stato in grado di leggere la realtà meglio di tanti, inclusi quelli che pontificano a posteriori. Abbiamo già scritto che ci sono stati degli eccessi, negli anni; ma l’esperienza del Leoncavallo e il suo passato (e presente) di luogo di elaborazione politica lontano dal mainstream meritano, anche solo per questo, rispetto e tutela. E, di grazia, una sede.

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Trovare il modo di salvare i graffiti del Leoncavallo

E’ ironico che lo sgombero del Leoncavallo arrivi a poche settimane dall’inchiesta urbanistica che mette in discussione buona parte degli interventi realizzati in città negli ultimi anni, facendo finire ai domiciliari assessori, costruttori e architetti. Pare che l’ordine questa volta sia arrivato direttamente da Roma: il centro sociale milanese sarebbe, dunque, una questione nazionale. Ma il Leoncavallo è un simbolo, e si può capire.

Trasferito nella sede di via Watteau nel 1994 (era nato due decenni prima nell’omonima strada dalle parti di piazzale Loreto), incuneato in una mesta periferia urbana, il centro sociale in poco tempo ha ridisegnato la fisionomia dell’area.

Il quartiere Greco, a nord di Milano, è un’accozzaglia post industriale di spiazzi, capannoni, strade bigie, e pochissime vecchie case basse di ringhiera in stile meneghino. D’altro resta ben poco: torri residenziali che svettano in mezzo al nulla, un paio di supermercati, una farmacia. Poco più in là c’è il quartiere Bicocca, nato attorno all’università all’inizio del millennio, e mai realmente decollato. Si tratta di un’area divisa tra le aule dell’ateneo e grossi condomini, con pochi locali più che altro rivolti a un pubblico di studenti, un centro commerciale e nessuno spazio di aggregazione.

Quanto detto basta per ricostruire la fisionomia di una zona della città ispirata, a dir poco, alla mera funzionalità; dove le necessità di base sono soddisfatte, ma che giace da sempre al confine tra il non luogo e il dormitorio. Territorio dove è difficile incontrare, e incontrarsi.

Non è sempre stato così. Milano è una città policentrica per nascita, somma di comuni un tempo autonomi e autosufficienti: e Greco, che esiste da secoli, è citato già dal Manzoni. Renzo vi arrivava da Sesto san Giovanni sulla strada per il capoluogo, in tasca una lettera di Fra’ Cristoforo. La città era in preda alla rivolta per il pane. Come ricorda lo scrittore ottocentesco, ci troviamo abbastanza vicino a Lecco perché il viandante potesse girare la testa e ammirare i “suoi” monti.

Uno scorcio di Greco, il quartiere in cui si trova il centro sociale Leoncavallo

Il centro sociale, si diceva, trasloca in via Antoine Watteau nel 1994, dopo un paio d’anni di lotte. Uno spazio enorme, dotato di cucina, ampio salone per concerti, e ben tre bar. Prezzi popolari: una birra tre euro, un piatto di pasta poco più. Un’eccezione, nella Milano di quegli anni; figuriamoci di questi.

Ci ero tornato una sera del luglio scorso, dopo parecchio: e la sensazione era stata di insperato sollievo. Pareva che, tra quelle mura, il tempo si fosse fermato. L’ecosistema digitale – passatemi l’espressione – in cui ci troviamo nostro malgrado immersi non trovava cittadinanza nelle stanza ampie del Leoncavallo; sui muri erano ancora ben vive le vestigia del passato, con i manifesti delle lotte, i libri polverosi a disposizione di chi voleva portarli a casa, i volantini ciclostilati. Murales caleidoscopici, foto, panchine di legno. Odore di fumo di sigaretta e non solo (dispiacerà ai salutisti, ma il divieto di Sirchia qui non è mai arrivato; e l’odore di tabacco fa parte dell’arredamento).

Ai centri sociali fu concesso molto perché nati come risposta a esigenze trascurate: si accollarono, negli anni Settata, l’onere di fornire, alle periferie delle città, una serie di servizi che le amministrazioni non erano in grado di garantire. Corsi, asili, spazi di riunione e dibattito culturale: attività che sono presenti ancora oggi. Erano gli anni della prima emigrazione interna dal Meridione. Agli albori del nuovo millennio, i locali hanno aperto le porte agli stranieri, agli immigrati, che qui trovavano un posto dove riunirsi senza spendere troppo, e soprattutto essere giudicati, soprattutto nei primi, bui, tempi degli sbarchi.

Concerti, ce ne sono stati tanti nel corso degli anni; artisti di peso si sono alternati sul palco, e l’elenco è troppo lungo per farlo qui. Bandita la vendita di droghe: non il consumo – parliamo di cannabis –, in linea con la visione antiproibizionista. Ma ormai il tema è sdoganato ovunque.

Veniamo allo sgombero di giovedì 21 agosto 2025. Si dirà: resta pur sempre occupazione di proprietà privata, e poi al Leoncavallo non sono dei santi. E’ vero. La verità non sta mai da una parte sola. Certe prese di posizione, un certo oltranzismo, soprattutto negli anni duri della contestazione e delle guerre in Iraq e Afghanistan, sono stati decisamente opinabili.

Non è tutto passato. Al presidio di giovedì 21 agosto, sotto l’acqua, c’erano un paio di migliaia di persone. Tante, tantissime, considerato il periodo agostano e la pioggia. Durante la manifestazione, una parte del corteo ha sfidato i poliziotti che bloccavano  i cancelli urlandogli in faccia slogan carichi di insulti. Poche decine di persone, protette e ringalluzzite dalla psicologia della folla. 

Ora, è evidente che questi atteggiamenti, pur non rappresentendo la posizione ufficiale del centro sociale, spesso vi hanno indiscutibilmente trovato casa e accoglienza. Ma già i Clash negli anni Settanta avevano spiegato che tra i poliziotti ci sono molti proletari, mentre quelli che li insultano spesso sono i figli dei borghesi. Non si tratta di chiudere un occhio sulle violenze delle forze dell’ordine, ma di non lasciarsi trascinare dal branco. E un certo tipo di distinguo, purtroppo, nei centri sociali non hanno quasi mai trovato cittadinanza.

Gli anni, comunque, non passano invano. La linea è progressivamente diventata più moderata, complice anche la guida di una generazione più giovane rispetto a quella dura formatasi negli anni Settanta, quando la lotta politica poteva facilmente sfociare in violenza.

Il bilancio di mezzo secolo di storia, dunque, resta ampiamente positivo. E che il Leoncavallo abbia aggiunto valore a Milano, non il contrario, lo avevano riconosciuto anche tifosi insospettabili. Nel 2006 Vittorio Sgarbi, allora assessore alla Cultura del sindaco di centrodestra Letizia Moratti, organizzò una mostra sui graffitari (i writer) rimasta negli annali. Durante un tour coi giornalisti in via Watteau, gli fu chiesto come poteva un politico di destra appoggiare le scritte sui muri, e di conseguenza, il centro sociale. Risposta lapidaria (chi scrive era presente): “”Sono la Cappella Sistina della contemporaneità. Ma non vedete questi palazzi di merda…”

La somma di tutto fa un luogo che merita di sopravvivere. A Milano, negli ultimi anni, gli spazi di controcultura sono spariti quasi ovunque, e quelli rimasti sono sterilizzati da designer e dai soliti modelli di business che mischiano cultura, glam e profitto. Insomma, per usare un anglicismo: sono fake.

Il diritto alla proprietà privata dell’immobiliarista Cabassi non è in discussione, almeno per chi scrive. Non siamo d’accordo con le spese proletarie, le occupazioni, gli assalti alla polizia; ma con le lotte, anche quelle condotte a muso duro, sì. Con la resistenza allo strapotere del capitale, sì. Non dimentichiamo che la Milano perbenista non ha mai fatto una manifestazione contro la speculazione edilizia e il caro casa, salvo svegliarsi e piagnucolare quando a scoperchiare la pentola ci ha pensato la magistratura.

Al Leoncavallo, invece, certi temi sono sempre stati all’ordine del giorno. E a ragione. Per questo, se sgombero sarà, va trovata una sede adeguata alla storia che questo spazio si è conquistato sul campo, assieme al modo di assegnargliela in via definitiva.

Non solo. L’area che sarà lasciata vuota se il centro sociale se ne andrà (di proprietà dell’immobiliarista Cabassi) potrebbe essere occupata da nuove torri residenziali, che andrebbero a completare lo schema del quartiere dormitorio. Un dormitorio, per di più, destinato ai ricchi. I cosiddetti sviluppatori potrebbero addirittura mimetizzare la speculazione come va di moda oggi in città, con uno studentato da millecinquecento euro al mese a camera.

C’è da augurarsi che Palazzo Marino, che si è detto consapevole del valore dell’esperienza del “Leo”, sappia indirizzare la destinazione d’uso in maniera adeguata. Anche a costo di pronunciare qualche no, insolito a queste latitudini. Il centro sociale potrà pure andare altrove; ma la sua impronta nel quartiere non può più essere rimossa. E, anzi, mi spingo un passo oltre: bisognerebbe trovare il modo per salvare i graffiti del Leoncavallo, ormai parte irrinunciabile della cultura urbana e del paesaggio milanese. E’ possibile?

(Le foto sono mie. Qui di seguito qualche video tratto dalla manifestazione di ieri 21 agosto e pubblicato sul mio canale Instagram 1 | 2 | 3 )

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L’accordo sulla plastica fallisce nel silenzio dei media

La conferenza di Ginevra per arrivare a un trattato vincolante sulla plastica è naufragata il 14 agosto. Di nuovo. Il percorso è cominciato nel 2022, e dopo quattro rinvii, questa volta – la quinta – doveva essere quella buona. Due i fronti principali: chi vuole un tetto alla produzione (un centinaio di paesi, tra cui la delegazione Ue, ma non l’Italia, coinvolta nella filiera del packaging) e chi preferisce puntare sul recupero e riciclo (i paesi produttori di petrolio, perché la plastica si ricava dagli idrocarburi; ma c’è anche la Russia). Ci sono, naturalmente, molte altre questioni sul tavolo: per esempio quelle legate al tipo di sostanze chimiche da bandire, e a una progettazione che renda più semplice il riciclo, oltre al meccanismo finanziario che dovrebbe consentire la transizione.

Non la faccio molto lunga, ma dopo dieci giorni di discussioni non si è arrivati a un accordo.
Il motivo è semplice: come sempre quando si parla di ambiente oggi, nel 2025, è impensabile affrontare la discussione senza legarla all’aspetto economico. Il petrolio come combustibile sarà abbandonato, e i paesi che lo producono vedono nella plastica una risorsa per continuare a valorizzarlo ; altri, come l’India, non sono esportatori ma insistono sul fatto che i costi della transizione e degli adeguamenti debbano essere adeguatamente ripartiti, anche guardando ai dati storici (just transition).

Per chi le segue, il canovaccio è più o meno lo stesso visto alle Cop, le conferenze delle parti sul clima. E anche la complessità dei negoziati, che si sono protratti fino a notte fonda. Non mancano le stranezze: ho visto un paper dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) che consiglia di smettere di produrre sigarette col filtro. La spiegazione è che normalmente viene disperso nell’ambiente da chi getta i mozziconi a terra, e questo è facile da comprendere. Ma dal punto di vista della salute? La risposta è che peggiorando il gusto, si spera di diminuire l’affezione dei consumatori.

Quello in cui questi negoziati, tenuti a Ginevra, non assomigliano per niente alle Cop è che sono stati poco o nulla coperti dalla stampa, e anche dagli addetti ai lavori, complice il caldo agostano.
Eppure un accordo avrebbe un significato epocale.

Siamo sempre più nell’era di Instagram, per cui si può organizzare una Cop del clima (che viaggia in media attorno ai 70mila partecipanti) in una piccola cittadina brasiliana inadatta a ricevere delegazioni cosìnumerose per rivendersela mediaticamente come “la Cop dell’Amazzonia”; ma si parla poco, pochissimo di una conferenza sulla plastica come quella di Ginevra che, avesse avuto successo, sarebbe finita sui libri di testo.

Così è se vi pare. Nota di demerito per le lobby degli industriali, anche questa volta la singola delegazione più rappresentata. Coinvolgere l’industria non è sbagliato, è impensabile dimenticare un attore importante della società se si vuole realmente implementare le decisioni: ma è importante che il lobbismo avvenga allo scoperto, nella maniera più manifesta e trasparente possibile. Cioè con nomi e cognomi delle aziende, e un’indicazione chiara delle proprie posizioni, in modo da poter inchiodare ciascuno alle proprie responsabilità ed evitare il solito greenwashing.

Foto: enb.iisd.org

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Nelle carte dell’inchiesta sull’urbanistica milanese spunta anche la Cop29

Nelle carte dell’inchiesta sulla suburra dell’urbanistica milanese che ha condotto all’arresto di sei persone spunta anche la Cop, la Conferenza delle parti della Nazioni Unite sul clima.

E’ a pagina 401 dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Mattia Fiorentini su richiesta dei pubblici ministeri milanesi.

A parlare è Giuseppe Marinoni, a capo della Commissione paesaggio del comune di Milano. Nelle conversazioni sequestrate dai magistrati e finite agli atti, Marinoni si rivolge – tra gli altri – a Paolo Colombo, architetto titolare della società A++  di Massagno, vicino Lugano, studio internazionale di architettura con parecchi progetti attivi in Italia e all’estero. Secondo il Corriere del Ticino, Colombo sarebbe stato protagonista di alcune importanti operazioni immobiliari in territorio svizzero negli ultimi anni.

Tra i due ci sarebbe un rapporto di conoscenza, non esclusivamente personale, ma – pare – anche professionale.

“Caro Paolo, ho visto che andiamo assieme in Azerbaijan”, scrive Marinoni nel pomeriggio del 17 gennaio 2024. Nel paese asiatico si sarebbe tenuta otto mesi dopo la Cop29, conferenza internazionale con al centro i temi del riscaldamento globale. Nate come evento tecnico negli anni Novanta, le Conferenze delle parti sul clima (ce ne sono anche altre, come quelle sulla biodiversità, molto meno frequentate) col tempo sono diventate sempre più popolari e mediatiche. E’ in questa sede che, nel 2015, è stato raggiunto il compromesso sull’accordo di Parigi per limitare il riscaldamento globale a due gradi rispetto ai valori preindustriali, momento storico. Altro anno epocale il 2021, subito dopo il Covid, con l’edizione scozzese di Glasgow: il mondo appena uscito dalla pandemia si era raccolto con entusiasmo nella città britannica con uno slancio poi perso sotto i colpi di guerre e crisi energetiche. Grande copertura mediatica, allora, grande affluenza di delegati, grandi aspettative.

Fu l’anno della svolta, quello in cui la conferenza cominciò a crescere oltremisura inglobando sempre più aziende e figure opache. Tanto da rendere necessario un intervento delle Nazioni unite per rendere visibile sui badge l’affiliazione dei partecipanti: nei corridoi, tra diplomatici e negoziatori, si aggiravano anche dirigenti di multinazionali delle fonti fossili, uomini dei giganti della consulenza (interessati a vendere i propri servizi green e in palese conflitto di interessi, dal momento che lavorano anche per i big del petrolio). Come ho raccontato più volte su Wired, allargare le maglie e coinvolgere gli attori economici era un passaggio probabilmente necessario del percorso per raggiungere gli obiettivi climatici: ma per come è avvenuto, si è trattato di un allargamento frettoloso e lasso. Tanti si sono presentati ai cancelli delle Cop per dare una mano di vernice verde alle proprie attività, a favor di telecamere e social network. Tra questi, a quanto emerge dalle chat, ci sarebbe stato anche Marinoni. Torniamo alle carte.

“Ho detto a Raffaella che dobbiamo portare una presentazione con masterplan, considera anche la possibilità di mettere le realizzazioni di Porta nuova e piazza Gae Aulenti. Il masterplan è firmato anche da me e lo posso rendere pubblico. Se non ti offendi possiamo anche dire che lo abbiamo fatto assieme”, scrive sempre il 17 gennaio 2024.

Il 18 giugno, Marinoni torna alla carica. “Paolo, se andiamo in Azerbaijan non ci serve un’interprete italiano russo? Potrei chiedere alla mia fidanzata…”. La signora – di cui non facciamo il nome perché non risulta indagata – ha spirito di iniziativa. Qualche giorno prima, il 12 giugno 2025, aveva preso il telefono di Marinoni per piazzare il compagno.  “Buongiorno dottor[…], sono […], la fidanzata di Giuseppe Marinoni. Giusppe ha appena pubblicato questo libro in italiano sulla sostenibilità ambientale della città”, scrive la donna, “tema che avete affrontato nelle interviste che Giuseppe e Paolo hanno rilasciato nella vostra televisione. Considerato che nel libro si parla anche della White City di Baku, Giuseppe chiede se poteste essere interessati a fare un’edizione in russo, sia come ebook che cartacea. Giuseppe potrebbe fare tutto con la sua casa editrice e farvi avere i libri stampati. Potrebbe essere interessante per voi distribuirlo in previsione della Cop29. E’ solo necessario che riconosciate alla casa editrice un rimborso spese. Se ti interessa possiamo fare una call per chiarirci meglio. Grazie anche a nome di Giuseppe”.

Niente di penalmente rilevante, ovviamente. Così va il mondo, ma leggere questo scambio mi ha fatto un certo effetto.

Ora che la prossima Cop, la più instagrammabile di sempre, sarà in Brasile e rischia di perdere rappresentatività perché sono molte le associazioni (e persino i governi) che faticano ad accollarsi i costi assurdi di una sistemazione a Belèm, sarà interessante vedere chi ci sarà, “a chi appartengono” i partecipanti. Tenete d’occhio i social: in Brasile a novembre volerà solo chi ha un vero interesse da difendere. Che si tratti di clima, di quattrini o di visibilità, beh, quello  è un altro discorso.

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Un crowfunding per Hope, documentario sulla Cop30

Li ho conosciuti in questi anni passati in giro per il mondo a seguire conferenze sul clima, le Cop: da Glasgow a Sharm El Sheikh, da Dubai a Baku loro c’erano, cellulari e pc alla mano, per raccontare quello che accadeva. Sono giovani, svegli, preparati. Soprattutto, lavorano bene sui media digitali per portare a un pubblico ampio i temi del cambiamento climatico – quello che in ambito universitario viene chiamato disseminazione della conoscenza: perché la ricerca non basta, se non impara a uscire dai corridoi degli atenei.

L’associazione è Change For Planet, e per la Cop30 di Belém (Brasile, in scena a novembre) ha pensato di girare un documentario che racconti le contraddizioni dello Stato sudamericano. “Nel cuore pulsante dell’Amazzonia, tra Belém e Manaus, seguiremo il cammino di giovani attivisti e attiviste dall’Europa e dall’America Latina, uniti a ong e comunità indigene che ogni giorno affrontano, vivono e combattono gli effetti della crisi climatica”, dice la presidente Roberta Bonacossa. Un lavoro ambizioso e indipendente, per raccontare gli aspetti meno mediatici dell’appuntamento.

Hope, questo il nome del progetto, sarà finanziato da un crowdfunding. Aiutarlo con un piccolo contributo è un’idea da considerare (qui ci sono tutte le informazioni per farlo): Change for Planet ha svolto un ottimo lavoro in questi anni, e merita la chance di salire sull’aereo per il Sudamerica. L’opera di divulgazione che l’associazione ha portato avanti non ha padrini compromessi con il mondo delle fonti fossili  ed è ritenuta da molti giovani più affidabile (non a torto) di quella di tanti giornali.

Ma la scelta di finanziare questi ragazzi ha anche il senso di farli crescere come professionisti, consentendogli di lavorare a un progetto strutturato e più ambizioso di quelli realizzati finora. La Cop30 brasiliana sarà una conferenza mediatica, preparata per Instagram e per catturare like, e c’è bisogno di voci alternative, fuori dal coro. In bocca al lupo.

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