politica

Perché inchieste come quella di Fanpage servono alla destra

L’inchiesta di Fanpage sulle propensioni fasciste (quando non proprio francamente razziste e naziste) di Gioventù nazionale, cantera di Fratelli d’Italia, ha il merito di aver scoperchiato la pentola. Ai limiti del consentito dall’etica giornalistica? Sì, e ci vuole il pelo sullo stomaco per infiltrarsi, conquistarsi la fiducia di altre persone, e poi tradirle. Lo si può fare per un fine che si ritiene superiore: politico (per rendere un servizio al Paese), oppure semplicemente narcisistico, componente che nel nostro lavoro esiste e non è secondaria. Per tutti, compreso chi scrive.

Più probabilmente ( come quasi sempre) si tratta di entrambe. Ma il giornalismo è tollerato – nonostante i noti limiti – perché, alla fine, serve alla società. È meglio averlo, e averlo in salute, rispetto al contrario.

Da questa storia, c’è da augurarsi, la destra italiana uscirà ripulita, migliore. Sarà chiaro, una volta di più, che non c’è posto per chi inneggia al razzismo, al nazismo, o a stagioni della storia nazionale in cui qualcuno si arrogava il diritto di decidere per tutti, in ogni aspetto della vita: non solo economico (quella sarebbe la destra), ma anche nel quotidiano. Si chiamano totalitarismi proprio per questo. Anche il comunismo – lo dico prevenendo la critica – appartiene alla stessa schiera.

Perché non è possibile ammettere propensioni verso il fascismo? Non è un’intollerabile intrusione nella libertà di pensiero privare qualcuno delle proprie idee? In fondo, la cessione di una certa quota di libertà individuale è funzionale alla vita sociale: non si può organizzare una società lasciando ognuno libero di fare tutto ciò che vuole, e contando sulla sua capacità di regolarsi autonomamente. Non è possibile – se non nei sogni di qualche militante – fare a meno di un governo. Ma l’esecutivo (pur necessario perché una società prosperi in maniera armonica) deve aver cura di non essere troppo rigido, invasivo, dirigista.

E’ facile comprendere come nei momenti di confusione come quello che attravrsiamo la tentazione autoritaria e messianica guadagni fascino. Sosteneva Freud che “l’umanità ha sempre scambiato un po’ di libertà con un po’ di sicurezza”, e c’è chi offre questa preziosa merce a prezzi di saldo.

Ma la visione di chi, in nome della seconda, sacrifica la prima appartiene all’infanzia delle società. Oggi disponiamo di tutti gli strumenti culturali per gestire la complessità crescente che ci troviamo a fronteggiare senza cedere alla tentazione di accontentarci di risposte semplici, di un deus ex machina in grado di risolvere pronblemi che richiedono responsabilità e sforzo. Le classi dirigenti sono un buon compromesso. E qui no, non siamo tutti uguali: uno non vale uno, se devi guidare un Paese. A patto, però, che queste elite siano illuminate, propense al bene comune, e non portabandiera dei valori di una sola nicchia a scapito di tutte le altre.

Immagino che la destra italiana uscirà più forte da questa storia, avendo fatto, una volta di più, i conti con il proprio passato e la propensione all’uomo (o donna) forte. Processo lungo, ma che altrove non hanno ancora affrontato. Probabilmente alla Francia toccherà lo stesso destino.

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cronaca, politica

Ilaria Salis, se la pena (16 anni) è spropositata

Me la ricordo come una ragazza dolce, spesso silenziosa, un po’misteriosa. Ilaria Salis frequentava lo stesso liceo di chi scrive, il classico Zucchi di Monza. A differenza del sottoscritto, era un’ottima studentessa: se non ricordo male si diplomò col massimo dei voti, a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio. Poi la folgorazione con la sinistra e la militanza nel centro sociale Boccaccio, spazio autogestito attivo da vent’anni nel capoluogo brianzolo. Ilaria divenne un’attivista nella tante battaglie dei giovani monzesi, alcune più condivisibili (la lotta contro il precariato, che a inizio millennio era una novità appena introdotta dalle riforme del lavoro) altre meno, almeno per i moderati. Il collante era l’antifascismo, con Mussolini che  – allora – pareva uno spettro lontano, superato dalla storia. Coi postfascisti arrivati da poco al governo assieme a Berlusconi e alla Lega, il leader Gianfranco Fini si era affrettato a definire il movimento del dittatore romagnolo “male assoluto”.

Tanti di quella stagione, come spesso accade ai ragazzi, si sono dispersi. Altre vite, nuove esperienze, lavori, incontri, letture.

Non Ilaria, che proseguì la militanza, studiando nel frattempo per diventare maestra. Si dice si fosse avvicinata alla galassia anarchica.

Personalmente, ne ho perso le tracce. Fino a qualche settimana fa, quando si è diffusa la voce che la trentanovenne monzese è stata arrestata in Ungheria per aver aggredito alcuni militanti neonazisti, radunatisi a Budapest per la “Giornata dell’Onore” in ricordo di Wermacht e SS.

Un video, riportato dalla Bild, mostrerebbe l’italiana assalire, assieme ad altri, un uomo. L’agguato sembra brutale e gratuito; ma, in effetti, il malcapitato simpatizzante nero è in grado di rialzarsi in pochi istanti sulle proprie gambe. Pare che le lesioni siano state dichiarate guaribili in otto giorni, nulla, in termini medici: una formula che consente di tenere tutti al riparo e di prendere qualche spiccio dalle assicurazioni; ma anche di essere impiegata in un processo.

Per quell’azione, Salis rischia sedici anni di prigione, con il processo che si aprirà il 29  gennaio. Oggi è detenuta (da sette mesi) in un carcere di massima sicurezza, in condizioni durissime, trascinata in tribunale al guinzaglio, senza medicine per l’allergia, senza potersi cambiare i vestiti, priva di assorbenti. Nella cella, infestata da insetti, per mesi non è stato ammesso nessuno.

Ora, è chiaro che l’aggressione c’è stata, va sanzionata, e dovrebbe esserlo anche se per ipotesi fosse avvenuta in Italia. Ma è evidente la sproporzione. Date le conseguenze blande, difficile immaginare più di un anno di condanna. Il processo, però, è politico, in un’Ungheria come quella di Orban, con il baricentro spostato verso la destra estrema nonostante il Paese faccia parte a pieno titolo dell’Unione Europea. Vale la pena riflettere – e non è un dettaglio – sul perché una manifestazione neonazista che non avrebbe potuto avere luogo in alcun modo in Germania si sia svolta, invece, senza problemi nello stato orientale.

Del caso si è interessata la senatrice Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ucciso dalle forze dell’ordine qualche anno fa. Cucchi è la persona giusta, pervicace, moderata.

Ma le lettere di Roberto Salis (padre di Ilaria) alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni non hanno ricevuto risposta.

Non è un mistero che la leader di Fratelli d’Italia e Orban siano legati da una certa simpatia, ed è lecito pensare che la presidente del Consiglio possa esercitare un ascendente. Ma, per il momento, ha scelto di non esporsi. Potrebbe anche essere una strategia diplomatica, considerato il carattere dell’ungherese. Budapest sta cercando di rendere chiaro che non è disposta ad accettare azioni di violenza politica sul proprio territorio, in particolare da parte della galassia anarchica, cui Ilaria sembra essere vicina. Il messaggio è chiaro, e può darsi che l’esecutivo italiano abbia scelto di attendere il processo per non delegittimare i giudici ungheresi e intervenire allora con maggiore forza negoziale.

Ma società civile e mezzi di informazione sono altra cosa. Ed è bene che di questa vicenda si parli, sui giornali, e sui social. Non per negare l’accaduto, ma per sottolineare la sproporzione tra il gesto e le conseguenze, che uno stato inserito nel contesto democratico europeo come l’Ungheria non può permettersi; la sorte di una ragazza costretta a subire un trattamento disumano e degradante; e il fatto che la protesta di Ilaria, per quanto estrema e senz’altro violenta, non ha avuto – fortunatamente – conseguenze. Sbagliati i paragoni con il caso Cospito: Salis non ha messo bombe. Se è chiaro che non si può tollerare l’aggressione di chi non la pensa come noi, per quanto si tratti di un neonazista (sono gli Stati ad avere il monopolio della forza, ceduto dai cittadini sulla base del cosiddetto contratto sociale), vale la pena di ricordare che, se proteste ci fossero state negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, ci saremmo risparmiati una guerra mondiale e sei milioni di ebrei morti. Forse è il caso di pensarci.  

Ps. c’è un gruppo Facebook del comitato per Ilaria Salis. Il link è qui.Qui, invece, il link alla petizione per chiedere il ritorno della Salis in Italia durante il processo.

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cronaca, politica

La fine del sogno

Adesso che se ne sono andati i cronisti, attorno a mezzanotte c’è solo silenzio ad Arcore, piccolo borgo brianzolo divenuto noto negli anni per essere residenza del defunto. Di fronte alla villa che fu di Berlusconi, e che ne è diventata la tomba, le corone di fiori, le maglie da calcio, le foto. Una villa maledetta per la storia della povera erede Casati Stampa; una dimora divenuta, poi, simbolo di potere e riservatezza e poi ancora gaudenza, con quelle siepi impenetrabili oltre cui, per chi come chi scrive viveva lì vicino, l’immaginazione disegnava scenari fantastici, leopardiani.

Mi sono sempre chiesto come potesse la gente votarlo, quando, razionalmente, era assurdo, soprattutto per i poveri. L’ho capito, forse, meglio ieri sera.

Raccolgo un blocco, la grafia leggera, giace in mezzo ai fiori. “Caro presidente, ho 25 anni, e sono felice di aver fatto in tempo a votarla due volte” scrive un giovane. “Non ci siamo mai conosciuti se non attraverso la televisione: ma, dopo la sua morte, mi sento orfana per la seconda volta” piange una signora in stampatello rosso.

Le parole che ricorrono nelle dediche sono sempre le stesse: sogno, entusiasmo, speranza. Nei pensieri dei poveri che votavano Berlusconi – invece che a sinistra, come si converrebbe – di razionale c’era poco. Era piuttosto la ricerca di un’Italia da anni Cinquanta a muoverli, quella del boom economico, dove tutto pareva possibile e un Paese di analfabeti diventava la settima potenza del mondo.

Sul ruolo di Berlusconi si pronunceranno gli storici. Il cronista deve limitarsi a registrare che si è trattato di un’illusione. Ma una tale professione di affetto non può lasciare indifferenti. Saranno almeno trenta metri densi di storie calcistiche e politiche, che a leggerle tutte ci si impiega un’ora, con qualche occhiataccia delle pattuglie dei carabinieri di posta di fronte al cancello. Con qualche esagerazione ( “Nobel per la pace postumo”), ma non è il caso di sottilizzare.

Ogni tanto si ferma una macchina. Qualcuno scende per portare un saluto. Guarda un istante, si lascia colpire dall’impatto visivo di questo accrocchio. Rumore di sportelli, rimette in moto, parte. Su Arcore cala di nuovo il silenzio , come una coltre spessa che avvolge le siepi e l’erba umide.

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cronaca, politica

Berlusconi, ritratto di un leader controverso

Ha segnato cinquant’anni di storia italiana. Se ne va in silenzio in un letto d’ospedale, tutto il contrario di una vita trascorsa sotto le luci dei palcoscenici che, di volta in volta, si era scelto. E dove aveva trionfato. Prima l’imprenditoria, poi il calcio, infine la politica. Controverso, ma vincente. Spregiudicato, ma simpatico. Circondato da una pletora di cortigiani, ma solo, come raccontato nel Loro di Paolo Sorrentino, forse il miglior ritratto dell’uomo nato all’Isola, quartiere milanese ai tempi non ancora gentrificato, e vissuto ad Arcore, in quella Villa San Martino che del suo potere divenne il simbolo. Non compì mai la rivoluzione liberale che aveva promesso, troppo occupato a difendersi nei processi che lo videro imputato, e da cui riuscì quasi sempre a salvarsi. Silvio Berlusconi appartiene a un’epoca della storia nazionale in cui complicità inconfessabili erano tollerate nel nome della stabilità dello Stato. Chissà se a ragione. Chi è venuto dopo è suo figlio, e spesso lo ha fatto rimpiangere. Come figlia sua è l’Italia di oggi, plasmata dalle televisioni, dal suo ottimismo illogico, dal suo populismo da bandana. Si spegne solo, in quel San Raffaele che, anch’esso, era una sua creatura. I vecchi lo sentono vicino, i giovani non lo odiano più. Resta, in quelli di mezzo , l’acredine, spesso stemperata dall’oblio. Lo disse lui di Gheddafi: sic transit gloria mundi.

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cinema, politica

Esterno notte, il sequestro Moro visto da Marco Bellocchio

Esterno notte, la serie di Marco Bellocchio sul rapimento Moro, tratteggia bene l’atmosfera, lo smarrimento, la ricerca di senso degli anni del terrorismo,  quando i riferimenti sono caduti uno dopo l’altro sotto i colpi della contestazione ed è necessario sostituirli con qualcos’altro per non rischiare di fare un passo indietro all’ancien regime. Per alcuni, anche a prezzo del sangue.

Dopo il ’68 e le sue molte liberazioni ( dalla famiglia, dalla scuola, dalle ipocrisie della società), nel ’69 la strage di piazza Fontana riporta il Paese con i piedi per terra. Il fronte del lavoro si dimostrerà un terreno  più difficile di altri: in un’epoca ancora contraddistinta dalla produzione industriale di massa, fabbrica, catena di montaggio, capireparto rappresentano il polo di un dualismo tra cui è difficile scegliere: da una parte il salario e la possibilità di acquistare i nuovi prodotti del benessere consumistico, dal giradischi all’automobile; dall’altra, la vita greve, fatta di abusi quasi ottocenteschi ben documentati nelle cronache sindacali di quegli anni.

Le lotte operaie conducono allo Statuto dei lavoratori nel 1970, traguardo storico cui ancora oggi si fa riferimento; rileggerlo è utile per comprendere quale fosse la condizione all’epoca. I colletti bianchi non stavano poi molto meglio: la satira sociale di Paolo Villaggio ne descrive la frustrazione, la “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè anche.

Ma è negli atenei che comincia l’elaborazione di una teoria più o meno organica. In alcuni gruppi comincia a  farsi strada l’idea che è possibile sottrarsi all’imperialismo americano figlio della guerra mondiale e del piano Marshall (l’Italia è un Paese “a sovranità limitata”), al giogo dei padroni e alla dittatura delle multinazionali, tutto in un colpo solo. La risposta, per alcuni, è la lotta armata.

Tra le tante sigle che nascono in quegli anni, ci sono le Brigate Rosse, che imbracciano il mitra quasi subito.

Sono tempi convulsi. Non c’è solo la lotta di classe. Numerose sono le questioni economiche e sociali aperte. Mentre alla radio suonano i Led Zeppelin e Santana, al ’73 risale lo shock petrolifero, che porta alle domeniche a piedi, all’austerity, ma anche a realizzare come, ancora una volta, le crisi colpiscano più forte chi ha di meno.

La droga diventa un problema serio: Lilly, splendido brano di Antonello Venditti, descrive la storia di una ragazza di belle speranze finita nel giro sbagliato.

Si discute aspramente di conquiste sociali come divorzio e aborto, un confronto serrato in un Paese cattolico che, sin dalla proclamazione della Repubblica, è guidato dalla Democrazia Cristiana, ma che conta il Partito Comunista più forte dell’Occidente.

In questo clima, le Br cominciano a rapire e ferire ostaggi selezionati in maniera strategica prevalentemente al Nord industriale: dirigenti pubblici, manager d’azienda, magistrati, fino alla nascita della colonna romana e all’ “attacco al cuore della Stato” attorno al ’75. Al ’78 risale il sequestro di Aldo Moro, che voleva realizzare un storico compromesso tra Dc e comunisti. Personaggio mite ma potente e ben inserito negli apparati statali, il presidente della Dc viene rapito e ucciso in 55 giorni. Non senza opposizione interna nell’organizzazione fondata da Renato Curcio (all’epoca già in galera), e mentre buona parte del Paese scende in piazza per chiederne la liberazione.

La serie di Bellocchio racconta quei due mesi con dovizia di particolari e diversi punti di vista. C’è quello della famiglia – che, nel privato, non riesce a cogliere la grandezza pubblica di Moro – , quello della politica (la crisi del delfino Cossiga , allora ministro dell’Interno; la freddezza di Andreotti; i dubbi sulla linea della fermezza), e naturalmente quello dei terroristi, di cui vengono tratteggiate psicologie e motivazioni,  non sempre inappuntabili dal punto di vista della lotta. C’è anche il Papa, con la sua influenza nelle cose italiane.

Scenografie perfette, dialoghi serrati, una ricostruzione storica che mi pare fedele. Lungo il corso delle sei puntate si viene trasportati dalla regia di Bellocchio negli anni Settanta. I grandi nomi (Toni Servillo e Margherita Buy) ci sono, fanno cartellone ma non sono centrali. La vera star è Fabrizio Gifuni, che interpreta un Aldo Moro drammaticamente reale, disegnandone la personalità delicata ma ferma, la paura, e l’incontro con sentimenti che non credeva di poter provare; quindi, in definitiva, l’umanità. E poi Fausto Russo Alesi (Cossiga), capace di rendere benissimo la caratteristica inflessione sarda del politico, assieme alla ciclotimia e ai tormenti.

Il giudizio di Bellocchio è netto, ma non pedante.

Sono sei puntate su Netflix, poteva essercene forse una in meno, ma è una serie appassionante, non pesante, e da vedere. Nota conclusiva, la sigla iniziale ha un tema che mi è piaciuto molto.

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politica, sostenibilità, sport

La “nuova Napoli” post scudetto è già vecchia

Qualche giorno fa ho scritto un post su Napoli, chiedendomi che futuro avrà la città, se sarà l’ennesimo caso di gentrification e grandi eventi o riuscirà a proporre – meglio, a essere capofila – di un modello diverso di sviluppo, ora che è sulla cresta dell’onda. Mi aspettavo fosse necessario qualche mese, forse qualche anno per capirlo, e chiamavo in causa la politica, che dovrebbe governare certi fenomeni, senza limitarsi a spingere semplicemente sull’acceleratore. Invece non ci è voluto molto: la risposta si trova in queste dichiarazioni programmatiche del sindaco Manfredi (le trovate nelle due foto qui sotto). Napoli, dice, “inizia a essere città globale, guida dei Sud del mondo“. A me sembra roba da neuro, talmente populista da essere una macchietta. E non solo perché Napoli si trova indiscutibilmente a nord, del mondo.

Anche il resto delle affermazioni del primo cittadino è un inno alle worst practices globali (uso l’inglese manageriale in chiave ironica), un copia e incolla da Milano, che a sua volta copia e incolla da Barcellona, che copia e incolla da chissà chi. In una parola: grandi eventi, dalle dubbie ricadute sul territorio.

Tra un concerto dei Coldplay e uno di Bono, spiace rovinare la festa: ma chiedetevi a chi andranno i soldi che gireranno all’improvviso. Domandatevi se creeranno sviluppo umano in una città che ha bisogno di crescita diffusa, o incancreniranno le differenze, confermeranno i ghetti, alimenteranno ancora una volta appetiti puzzolenti e illegalità.

Pare che, di fronte all’abbondanza, la ragione abbia perso anche questa volta. Eppure, lo scudetto sarebbe stato un bel momento per fare dichiarazioni – queste sì, rivoluzionarie – diverse dal solito campionario trito e da parvenu (tranquilli, anche Milano lo è, in questa corsa alle metriche). Perché leader sono coloro che sanno dare voce al disagio. E sono capaci di andare controcorrente.

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app, internet, politica

Qualche link per comprendere la questione Chat Gpt

Di seguito provo a riepilogare qualche pezzo interessante su Chat Gpt, assieme ad alcune considerazioni personali.

Nota: questo post nasce il 7 aprile come una tantum, ma nei giorni seguenti ho pensato di tenerlo aggiornato e farne una specie di utile repository, a beneficio mio e di chi legge. Anche perché potrebbe essere interessante, domani, ricostruire la questione e il dibattito sull’intelligenza artificiale, che per la prima volta sta diventando mainstream.

Premesse

Qui trovate un articolo molto bello del New York Times, gran pezzo di giornalismo, sul fondatore di ChatGpt, Sam Altman. Da leggere, anche perché l’autore ha il raro dono di saper bilanciare dubbi e certezze.

Qui la lettera di mille appartenenti alla comunità tech sui pericoli della AI: chiedono una moratoria di sei mesi. Siamo a marzo 2023.

30 marzo 2023

Il Garante italiano per la privacy formula alcune richieste a Open AI, la società che ha sviluppato ChatGpt. Quest’ultima reagisce “spegnendo” l’applicazione nel nostro paese.

Qui il testo della delibera dell’Authority (ecco una sintesi) mentre qui la risposta di Open AI, la società che ha sviluppato Chat Gpt.

Qui un bel podcast di DataKnightmare che riassume l’intervento del Garante italiano, primo al mondo, sulle questioni legate alla privacy. Altri stanno seguendo, segno che la strada è giusta. In questo articolo Guido Scorza, membro dell’Authority, spiega molto bene il senso dell’intervento, e perché non dobbiamo scegliere tra futuro e diritti, come molti tecnottimisti ripetono. Teniamo presente che tanti si sono già gettati a pesce sulla nuova tecnologia, investendo, e sono toccati direttamente dallo stop. Insomma, sono interessati nel loro parlare.

Questo è un pezzo del Guardian, che annuncia di stare sviluppando una squadra dedicata allo studio di Chat Gpt, delle sue potenzialità giornalistiche e, speriamo, dei limiti. Magari con qualche proposta su come gestire questa tecnologia.

19 aprile 2023

Il sociologo bielorusso Evgeny Morozov, uno tra i più attenti osservatori di Internet, spiega le sue preoccupazioni sull’AI, il “soluzionismo tecnologico” e il ruolo fondamentale dei media nel tenere vivo il dibattito senza accontentarsi delle narrazioni degli uffici stampa di Big Tech. ().

Qui un articolo della MIT Tech Review, non proprio un circolo di luddisti. Da leggere perché ampio e non schierato aprioristicamente. Si parla degli impatti sul lavoro, ma anche di chi deve fare le regole e del ruolo di Big Tech. Si propone il modello del Cern per il ruolo nel world wide web. Faccio notare che il pezzo è del 25 marzo, cioè prima del provvedimento del Garante della Privacy italiano. In quest’altro pezzo, sempre la MIT Tech Review spiega che le società di Intelligenza artificiale potrebbero incontrare più difficoltà del previsto ad adeguarsi alle normative sulla privacy. E che forse si poteva allenare le AI in maniera diversa

25 aprile 2023

Questo è il primo video politico realizzato interamente dall’intelligenza artificiale. A commissionarlo, il partito repubblicano Usa, dopo l’annncio di Biden che si sarebbe ricandidato alle presidenziali del 2024.

28 aprile 2023Chat GPT riapre in Italia.

Qui la dichiarazione del Garante della Privacy relativa alla riapertura di ChatGpt in Italia

In questo pezzo per l’Economist, lo storico Yuval Harari (autore, tra l’altro, di Sapiens) spiega le sue preocupazioni riguardo all’AI, a come potrebbe essere la fine della storia guidata dall’uomo. “We can still regulate the new AI tools, but we must act quickly” scrive, chiamando in causa i governi, come si fece per l’energia atomica, che riscrisse l’ordine internazionale. “The first crucial step is to demand rigorous safety checks before powerful ai tools are released into the public domain. Just as a pharmaceutical company cannot release new drugs before testing both their short-term and long-term side-effects, so tech companies shouldn’t release new ai tools before they are made safe. We need an equivalent of the Food and Drug Administration for new technology, and we need it yesterday“. Harari sottolinea anche come l’AI generativa sia in grado di influenzare il dibattito democratico.

2 maggio 2023

Geoffrey Hinton, accademico, uno dei padri dell’intelligenza artificiale, rassegna le dimissioni da Google, dove lavorava da oltre un decennio e si unisce al coro di critiche. “L’unica scusa che mi dò è la solita: se non l’avessi fatto io l’avrebbe fatto qualcun altro”, dice.

7 maggio 2023

Un bel riassunto semplice che fa il punto sull’intelligenza artificiale lo potete leggere qui. E’ del Washington Post, ed è veramente per tutti. Citazione cinematografica nel sommario: “Everything you wanted to know about the AI boom but were too afraid to ask”. Va notato che il Washington Post è di Jeff Bezoes, proprietario di Amazon. E che Amazon non è citata tra le società in corsa per l’AI. Non ancora?

Sempre di oggi, un’intervista del Mit Tech Review a Geoffrey Hinton, uno dei pionieri del deep learning che ha appena lasciato Google, dove ha lavorato per dieci. La sua posizione riguardo all’intelligenza artificiale è cambiata negli anni: ora Hinton la teme, definendola una “minaccia esistenziale”, e mette il mondo in guardia sui rischi. E questo ha fatto scalpore nella comunità degli esperti.

9 maggio 2023

La Harvard Business Review scrive un lungo contributo su come evitare i rischi etici per l’Ai e le nuove tecnologie. Potete leggerlo qui.

13 maggio 2023

Intanto il 14 giugno (data provvisoria) il Parlamento europeo discuterà la norma nota come Ai Act, di portata non inferiore al quella del Gdpr (che ha da poco compiuto cinque anni) per la privacy. Qui c’è un pezzo recente dell’Mit Technology Review che spiega cosa ci aspetta. Qui il pezzo di Luca Tremolada sul Sole 24 ore, che risale a febbraio ma è in italiano. Una volta delineata la posizione di Strasburgo, comincerà il dialogo con Commissione e Consiglio Europeo, il cosiddetto trilogo, procedura standard che porterà al testo finale. Potrebbe volerci più di un anno, qualcuno dice anche due prima che diventi legge, ma l’Unione avrà il vantaggio di fare la prima mossa e anche gli Stati extraeuropei che vorranno fare affari con il grande mercato continentale dovranno adeguarsi; questa legislazione rischia di essere, de facto, lo standard internazionale sulla Ai, e comprenderà anche aspetti controversi come il riconoscimento facciale. E’ previsto (e prevedibile) un intenso lavoro delle lobby per depotenziare la portata del testo finale.

16 maggio 2023

Anche l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, prende posizione e mette in guardia sui rischi di un uso “precipitoso” delle nuove tecnologie. I dati di cui sono nutriti i language models, scrive, possono essere imprecisi e generare conseguenze negative per i pazienti. C’è anche un elenco di casistiche. L’organizzazione si dichiara, comunque, “entusiasta” di un uso “appropriato” della tecnologia. La proposta sono 6 linee guida “per l’etica e la governance dell’intelligenza artificiale per la salute”. Da qui potete scaricare il documento.

22 maggio 2023

Sempre l’MIT Technology review in questo pezzo fa una sintesi di quanto stanno facendo i policymakers globali, dando i voti. C’è il Consiglio d’Europa (un’organizzazione umanitaria, diverso dal Consiglio europeo), che sta chiudendo una bozza interessante che comincia con le definizioni – e le cosiddette tassonomie sono la base di qualunque ragionamento politico; ma ci sono anche l’OCSE, che già nel 2019 aveva emesso alcune linee guida che sono la base delle policy occidentali, e le Nazioni Unite. Lettura interessante.

25 maggio 2023

I media riportano di un nuovo super antibiotico in grado di prevalere su batteri farmacoresistenti scovato tramite l’intelligenza artificiale. Qui un pezzo della BBC. Non è detto che arrivi mai all’impiego umano, ma la farmacoresistenza è uno dei problemi principali della sanità globale, ed è un buon segnale, anche perché mostra il volto positivo si questa tecnologia.

14 giugno 2023

Ai Act: il Parlamento di Strasburgo ha approvato il testo dell’Ai Act, che vede fra i relatori il deputato italiano Brando Benifei (Pd). Un testo che prova a fissare uno standard globale per il settore (come già accaduto con il Gdpr), e passa dalle diagnosi mediche ad alcuni tipi di drone, fino ai deepfake. Bandito anche il riconoscimento delle emozioni sul luogo di lavoro, in passato usato in Cina per capire se gli autisti di camion erano stanchi. Tentativi di lobbying ci sono stati, ma molti di più ce ne saranno adesso che il testo entrerà nella fase di Trilogo, la negoziazione con Consiglio europeo e Commissione, e da cui uscirà il documento finale. Potrebbe volerci un anno, e le lobby punteranno sui governi (cioè i membri del Consiglio) per ammorbidirli e blandirli: sono i più sensibili alle lusinghe di Big Tech (“apriremo una sede e assumeremo tremila persone”, magari in un coworking ed esentasse: film già visto). Il centrodestra ha fatto qualche storia, ma alla fine ha ceduto, mi ha detto Benifei. Vedremo in futuro. Una cosa è certa: fra un anno si vota per il rinnovo dell’organo, e se non si arriva in tempo all’approvazione finale,  il rischio è che il processo si arresti. A quel punto l’Europa, da prima, potrebbe ritrovarsi ultima. In quel caso, le lobby avranno vinto.

19 giugno 2023

Ai e video porno, questo il tema. In un pezzo del Washington Post si mette in evidenza un’implicazione distante dalla percezione comune, ma ben presente in quella delle forze di polizia: la proliferazione di video pedopornografici generati dall’intelligenza artificiale potrebbe rendere più difficile identificare le vittime (e i violentatori) reali, che si troverebbero “annegati” nel mare dei falsi.

23 giugno 2023

Ancora la Harvard Business Review argomenta che è improbabile che la Ai generi disoccupazione nel lungo periodo, considerato anche il calo demografico nei Paesi occidentali; il problema potrebbe porsi nel breve  periodo, data la velocità con cui le imprese stanno adottando la tecnologia. La soluzione, secondo gli autori del pezzo, è spingere di più e non di meno sull’Ai, per far sì che i nuovi lavori creati rimpiazzino quelli vecchi. Una visione estremamente business, a mio parere, e molto teorica. Mi lascia molti dubbi perché la capacità di un lavoratore di riqualificarsi cresce al crescere dell’istruzione, e un conto è parlare di un ingegnere informatico (che peraltro di solito ha un “cuscinetto” di risparmi in banca che gli permette di affrontare la transizione), un altro considerare il content manager pagato 1.500 euro al mese, che vive a Milano e ne spende 1000 per un monolocale e che una transizione del genere non può permettersela. Ma sono visioni.

3 luglio 2023

Ai e futuro del giornalismo: in questo pezzo per Wired ho sentito Orson Francescone del Financial Times, che mi ha spiegato come gli eventi siano sempre più importanti per i media. “La Ai non sa trovare le storie” dice Francescone “perché non ha le fonti: può solo limitarsi a riprendere quanto è stato scritto da qualcun altro”. Ma l’allarme è già suonato per molti lavoratori nel mondo dell’informazione. La Bild, tabloid tedesco, nei giorni scorsi ha annunciato centinaia di licenziamenti, figure che saranno sostituite dall’Ai. Potrebbe non essere l’unica testata a farlo. L’idea che mi sto facendo è che reggerà l’impatto dell’Ai solo il 10% dei giornalisti, forse meno, e sicuramente quelli in grado di fornire valore aggiunto con una propria rete di fonti e un bagaglio di conoscenze sufficiente a fornire interpretazioni personali di spessore. Chi copia (per scelta o per ordine di caporedattori ed editori: ci sono interi gruppi editoriali basati su questo) è spacciato.

15 luglio 2023

Altra declinazione dell’impatto dell’AI, questa volta sul cinema. A Hollywood è in corso il più grande sciopero dagli anni Ottanta, con decine di migliaia tra sceneggiatori e attori che si chiedono che ne sarà di loro. Se per le trame è facile capire le preoccupazioni (le farà ChatGpt in dieci secondi), per gli attori è più difficile La risposta arriva dal sindacato. Riporto testualmente: “I produttori hanno proposto di poter scansionare i volti degli artisti non protagonisti — o comparse — pagandoli un giorno di lavoro, e di poter possedere e utilizzare la loro immagine «per l’eternità, in qualsiasi progetto, senza consenso e senza compenso“. In pratica, ti cedo la mia immagine, magari con una scansione full body, e tu ne fai quello che vuoi. Come? Semplice: entri in un tunnel stile Tac e ti fai riprendere da un paio di centinaia di telecamere da qualunque angolazione. Il computer a quel punto avrà materiale sufficiente per generare qualunque tipo di azione, che si tratti di partecipare a una marcia o riprodurre i passanti su una strada affollata. «Se pensano che sia una proposta rivoluzionaria, gli suggerisco di ripensarci», ha detto Duncan Crabtree-Ireland, capo negoziatore di SAG-AFTRA, un sindacato di attori.

Vengo alle mie considerazioni.

  1. La prima riguarda il giornalismo. Speriamo che non si perda la voglia di insegnare ai giovani il lavoro paziente e spesso (in apparenza) infruttuoso che conduce a scrivere unbuon pezzo. Per capire la realtà non basta una ricerca su internet, e non basta certo ChatGpt. Servono tempo, pazienza e studio: ma il lavoro dei giornalisti è essenziale alla società perché prova a dare la bussola in tempi che corrono veloce. E lo fa più in fretta degli storici, spesso basandosi su intuito ed esperienza, e, soprattutto, partendo da presupposti umani. Cioè il ritmo sul quale dovremmo andare noi, e sulla quale dovremmo tarare il mondo.
  2. Il problema della responsabilità è centrale: provate a multare un algoritmo per aver scritto scemenze…impossibile. E senza sanzioni, liberi tutti: immaginate l’invasione di fake news in vista delle prossime elezioni di rilievo globale del 2024 (rinnovo parlamento UE e presidenziali americane).
  3. Il problema di chi prende le decisioni: come sottolineato da Scorza, non è detto che – anche se il pubblico non se ne rende conto – i pericoli non siano reali. Le elite servono a questo , e non lascerei alle masse, che non sono informate, la decisione su cosa è giusto e sbagliato su temi che plasmeranno il futuro.
  4. Da qui un altro tema, quello del populismo digitale. Nei giorni scorsi Ryanair ha mandato una mail ai clienti invitandoli a fare pressione sulla Commissione europea per limitare gli scioperi dei controllori di volo francesi. Mail empatica, si paventano disagi in vacanza. A mio avviso si è superata un’altra soglia, l’ennesima. Immaginate se le compagnie petrolifere cercassero di convincere i clienti del fatto che la transizione ecologica è negativa perché aumenterà il prezzo della benzina. Le persone leggono, votano, poi uno vale uno e la frittata è fatta. Se ci si rivolgesse alla gente con strumenti potenti di marketing e budget milionari per spingerla a fare lobby anche su transizione ecologica e AI, saremmo nei guai. Su un certo tipo di questioni devono decidere gli informati. Il dibattito, anche duro, è necessario, e nessuno può tirarsi indietro. Ma le posizioni si pesano, non si contano. Piantiamola con questa retorica i cui costi ci troveremo a pagare tra dieci anni, quando non sarà più possibile tornare indietro.

Giusto sottolineare che Chat Gpt non è uno strumento non intelligente (semplificazione giornalistica, utile ma imprecisa). Significa che non va oltre la statistica per fare le proprie affermazioni, non è in grado di scovare il dettaglio che dà il senso a tutto. Ma non sottovalutiamone la potenza.

E, soprattutti, non ripetiamo l’errore fatto a inizio Duemila con Big Tech, quando si lasciò fare, per comodità, interesse e ignoranza. Il risultato dell’influenza dei social e dei motori di ricerca sulle nostre vite è sotto gli occhi di tutti. Brexit, elezione di Trump e fake news comprese.

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Gli scontri in piazza a Parigi
esteri, politica, reportage

Quello che resta degli scontri di Parigi

Chissà che cosa deve aver pensato Emmanuele Macron quando il 24 marzo, assieme al vento e alla pioggia che dalla mattina si alternavano a squarci di sole, dal cielo di Parigi è scesa la grandine. Probabilmente, che se i chicchi fossero arrivati un giorno prima la capitale non sarebbe stata messa a ferro e fuoco. Che il destino di chi ha salvato la Francia per due volte da Marine Le Pen è ben triste, se la piazza gli si rivolta contro con una manifestazione da Sessantotto. E che quando ci si mette anche il meteo, c’è poco da fare. Meglio rassegnarsi.

Macron non è simpatico. Ho avuto l’occasione di vederlo da molto vicino a Sharm el Sheick, parliamo di istanti, ma la prima impressione – diceva qualcuno – si forma in dieci secondi, e passiamo tutta la vita solo a confermarla. Monsieur le President è un primo della classe, arrivato al potere giovanissimo, appoggiato da potentati economici i cui contorni non saranno mai del tutto chiari – come quelli di Renzi, per capirci – e, non ultimo, dall’Unione europea. E’ di sinistra perché non è di destra, non mi viene una definizione migliore. Certo, sui diritti civili il posizionamento è innegabile. Ma con la gauche, come è intesa in riva alla Senna, non ha niente a che spartire. E nemmeno con la rive gauche, quella degli intellettuali. L’inquilino dell’Eliseo è piuttosto un tipo pragmatico, metodico, uno che ama avere la situazione sotto controllo e che ha sempre la risposta pronta. Più maturo della sua età sin da quando era giovane, e ha sposato una donna che potrebbe essere sua madre.

Il problema dei tipi come Macron è che capiscono molto in fretta, baciati da una razionalità superiore. Non sono cattivi, ma mancano di empatia. Il presidente conosce la matematica abbastanza per sapere che, se l’età media si allunga, un sistema pensionistico pensato nell’Ottocento – quando si campava in media meno di sessant’anni – non può reggere.

Quindi, sicuro di non potersi ricandidare e senza più niente da perdere, all’inizio del secondo mandato ha fatto quello che un governante deve fare: la cosa giusta, anche se impopolare. In questo caso, alzare l’età del pensionamento di un paio d’anni, portandola da 62 a 64. Bastano un foglio e una matita per capire che ha ragione.

Il fatto è che nella piazza di giovedì, tre milioni di persone che hanno marciato da place de la Bastille all’Opera dopo dieci giorni di proteste, di razionalità ce n’era ben poca.

Abbiamo camminato coi manifestanti da place d’Italie fino al concentramento, e poi ancora verso i punti critici. Per strada c’erano persone comuni, gente di mezza età, studenti, pensionati – che la pensione, quindi, già la percepiscono – e poi, a guardare bene, tutti gli strati sociali. C’erano diplomi, lauree, elementari, licenze medie, senza che fosse possibile individuare un senso. Slogan comunisti misti a rivendicazioni più moderate. Qualcuno ha provato a prenderla con un sorriso: ma erano, francamente, pochi. Sguardi torvi, la rabbia si respirava a ogni passo, più forte assieme alle sirene, assordanti; e a ogni metro percorso, quando il serpente cominciava a raggomitolarsi e a mostrare la potenza delle proprie spire proprio in place de la Bastille, la psicologia dell’individuo cedeva il passo a quella, molto più pericolosa, delle folle. Risate. Qualcuno sparava bombe carta che spaventavano la gente, e rideva, per aver fatto paura a chi, in teoria, ne condivideva la lotta. I compagni a fianco, come da copione, assistevano. Sopportavano, in qualche caso scattavano persino foto ricordo.Non condividevano, forse, ma non protestavano, e questo è il prodromo delle escalation di piazza.

Si creava, insomma, quella sensazione di impunità per la quale esiste una zona franca dai limiti, una finestra temporale in cui tutto è permesso, in cui si arriva a concedersi atti da cui, in un contesto diverso, ci si asterrebbe per prudenza.

Probabilmente esisteva una componente organizzata e violenta che ha cercato lo scontro e la devastazione come unica ragione della propria presenza. Accanto a loro, però, e accanto alla gente normale, sfilava questa accozzaglia di codardi da branco. Quanti erano? Facciamo una stima, approssimativa perché basata sull’osservazione di chi ha esplorato un unico settore: uno ogni venticinque, trenta.

Quella di giovedì mi pare sia stata una manifestazione di pancia. Le rivendicazioni erano slegate dalla logica, anche chi aveva gli strumenti per capire si rifiutava di farlo. Mi sembra si possa inscrivere, piuttosto, in quel rifiuto più generale del sacrificio, della vita passata al lavoro, che caratterizza gli anni dopo la pandemia. La quale, dopo aver costretto a casa miliardi di persone, le ha abbandonate con la consapevolezza che passare due ore al giorno in automobile o sui mezzi per lavorarne altre otto – se va bene – è una follia. Che vivere in città dove uno stipendio basta a malapena a pagare un affitto è un controsenso in termini. Che le macchine, lontano dalla promessa di Keynes, ci hanno portato a lavorare di più e non di meno. E che questo surplus va sempre più a beneficio di pochi.

Ci si può chiedere come da questa logica stringente si possa passare alle devastazioni, e che cosa si possa salvare tra i cassonetti bruciati. Ma non dimentichiamo che in piazza c’erano tre milioni di persone – la polizia ne stimava centomila alla vigilia – , e sono tante, tantissime.

Qualcosa di simile era accaduto coi novax.

Si cerca un motivo per protestare, un pretesto, senza riuscire a tradurre le sensazioni in un pensiero coerente. Un tempo questo compito spettava a partiti e sindacati, i cosiddetti corpi intermedi: ma la gente non si fida più, e marcia da sola e alla mercé di minoranze organizzate che aspettano acquattate di intestarsi la protesta. Ironicamente, En marche è il nome del movimento che ha condotto al poter Macron.

Sono tempi duri, qualcosa si sta muovendo, non si capisce in che direzione. Se esprimere un disagio è corretto, e mettere a ferro e fuoco una città non lo è, cosa resta degli scontri di Parigi? L’umore della piazza è mutevole. Il presidente francese era stato acclamato a maggio, è ancora vivido il ricordo della folla radunata sotto la torre Eiffel per festeggiare la vittoria. Poi, però, quando ha assolto al compito per cui era stato chiamato – governare -, il botto. C’è rifiuto dell’autorità, della razionalità. Frustrazione, in una città dove i clochard sono ovunque, molto più che in qualunque altro posto, e dormono persino nei campetti da basket sotto i ponti della metropolitana dove i bambini giocano facendo attenzione a non lanciargli il pallone in testa. I ricchi da una parte, i poveri dall’altra. Le babysitter inglesi, le startup, la fisica quantistica e la potenza nucleare contro il destino di emarginazione già scritto a quattordici anni degli immigrati: li riconosci subito, girano in branco con cappelli di pelliccia e borse Gucci, calano in città dalle banlieu, e prendono tutto quello che possono perché sanno che, a loro, il domani non riserva niente. La grandeur, il ruolo della Francia, la scena mondiale e la ragione contano poco per chi non ha molto: e soprattutto non ha speranza. Confinati nei ghetti, lontani dagli edifici con le facciate dipinte da murales che mostrano il volto di una città moderna e fintamente inclusiva, non cercano altro che un’occasione per essere ascoltati. E se la prendono, come bambini che urlano, senza sapere perché, in attesa di un genitore che traduca il loro disagio in richieste. Sono loro, rimasti indietro nella corsa al futuro. E non c’è welfare, soccorso sociale che possa salvarli perché anche quello è già un ghetto. La Francia è un Paese costruito sulle colonie, quindi sullo sfruttamento. Ma ha marginalizzato i propri figli, che ora le si rivoltano contro, offrendo a chi sta dalla parte giusta l’occasione non per una riflessione, ma per l’ennesima condanna.

Non si possono condividere le bombe carta, ma chi ha gli strumenti per capire, deve accogliere la verità che siamo di fronte a un sistema che ha fallito e ha prodotto disuguaglianze ammantate dal marketing dei diritti. Il primo è quello al futuro. E per tanti è solo un miraggio.

[foto in alto: da Internazionale, le altre sono mie]  

Qui qualche video che ho girato a Parigi 1 | 2 | 3. Sono ospitati su Facebook. Per chi non l’avesse, qui su Instagram ci sono gli stessi video assieme a molte foto.

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politica

Elezioni: Von der Leyen? No, non ha sbagliato

La levata di scudi riguardo alla dichiarazioni di Von Der Leyen (ha detto, più o meno: “Se in Italia le elezioni vanno male, abbiamo gli strumenti”) è la classica foglia di fico, molto nazionalista, un po’ provinciale, per mascherare che il re è nudo. La presidente tedesca della Commissione ha detto quello che a Bruxelles e a Washington (e non solo) pensano tutti. Se avesse più carattere (non lo ha), non avrebbe nemmeno ritrattato.

L’Italia ha potuto predisporre un generoso Pnrr (più fondi del piano Marshall) grazie all’Europa. Denari che consentiranno al Paese di provare a continuare a mantenere il livello di benessere attuale – che è alto: provate ad andare in Sudamerica, in Asia o in Romania, per non parlare dell’Africa – nonostante attrraversi una lunga fase di declino. Assieme all’Occidente tutto, peraltro.

Chiaramente, i fondi sono sottoposti a condizionalità: per questi arrivano in tranche, con la possibilità di sospendere i pagamenti in caso di mancato rispetto degli accordi. Un’ipotesi già paventata per l’Ungheria.

Ora, in Parlamento, quasi con la maggioranza assoluta, dopodomani finiranno una destra che non ha mai rinnegato il passato fascista; una Lega che propone flat tax e scostamenti di bilancio, una politica economica da cumenda milanès che fa male ai conti dello Stato; un Berlusconi, l’unico moderato, che, se prima dava le carte, conterà molto poco (numericamente, oltre che per raggiunti limiti di età).

Il problema, quindi, è reale. E il fatto di essere attenzionati da un’Unione di cui siamo orgogliosamente membri e che tanto ci ha dato, personalmente mi rasserena. Non esistono pasti gratis: se i soldi del Next Generation Eu smettono di arrivare, tanto vale emigrare.

Si dirà: non c’è diritto a intromettersi negli affari interni. Questa è la versione di chi non vuole l’integrazione.

Per chi sostiene l’Europa, pur nei limiti che le vanno addebitati, e vuole far avanzare il processo, il fatto che Bruxelles ogni tanto intervenga è, invece, positivo.

Sovranità? Parliamoci chiaramente. Dopo l’ultima guerra mondiale l’Italia era un paese agricolo e distrutto, di cui otto abitanti su dieci non parlavano la lingua. Si è ricostruita, diventando in vent’anni la settima potenza industriale al mondo, grazie ai fondi del Piano Marshall. Quei soldi, però, non sono arrivati gratis. Il debito lo abbiamo pagato con la cessione a Washington di quote ampie di sovranità. Capita la stessa cosa negli stati federali: si concede qualcosa al centro in vista di un bene maggiore.

Personalmente, credo che se il nostro baricentro stesse a Bruxelles e non negli Stati Uniti avremmo solo da guadagnarci. Nei tempi grami che ci attendono, la nostra liretta non sarebbe stata in grado di garantirci benessere. Per cui, bene ha fatto Von der Leyen a mandare un segnale. Tanto, poi si può sempre precisare. Noi, invece, dovremmo assumerci la responsabilità di non mandare in Parlamento i soliti pifferai da quattro soldi, ma chi ha mostrato di volersi assumere le responsabilità di quello che ci aspetta. Buon voto a tutti.

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Una centrale nucleare: assieme al gas, l'atomo è entrato nella tassonomia green dell'Unione Europea
ambiente, politica, sostenibilità

Perché gas e nucleare non possono entrare nella tassonomia green

L’approvazione da parte del Parlamento Europeo della tassonomia è la risposta sbagliata a un dubbio legittimo, quello sul massimalismo ambientalista riguardo alla transizione ecologica. Il documento è l’elenco delle fonti finanziabili sotto la voce di iniziative “verdi”.

Del nucleare possiamo parlare, ha il problema delle scorie ma aiuta (non l’Italia, che ha perso il treno, complici due referendum tenuti a ridosso dei disastri di Chernobyl e Fukushima: nel primo caso volutamente, nel secondo per sfortuna). Ma, il gas, verde non lo è davvero. Certo, la transizione ecologica non si fa col massimalismo, e (ancorché progressivamente ridotto) assieme all’atomo è necessario a decarbonizzare e contrastare il cambiamento climatico; ma non è la tassonomia il documento giusto per affermare questo concetto.

Mischiare le carte facendo ciò che conviene alla bisogna, creando documenticchi ibridi privi di impatto toglie credibilità alle istituzioni europee: che, ancora una volta, vengono percepite come prone alle lobby. A sguazzarci saranno le aziende (e i gestori finanziari) che venderanno i propri portafogli definendoli green. Non a caso, alle fiere di settore, buona parte della comunicazione è ormai da mesi incentrata sulla sostenibilità. A questo punto, non resta che affidarsi alla stampa: sperando che non si accontenti delle veline, e si metta a fare inchieste per stabilire, di volta in volta, dove sta la verità.

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