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Brexit, l’UE approva il testo dell’accordo. Ecco cosa succede ora.

Questo articolo è stato pubblicato sul magazine Londra, Italia.

Diciotto mesi per scriverlo, solo 38 minuti per approvarlo. I rappresentanti dell’Unione Europea hanno firmato la bozza di accordo su Brexit domenica mattina, in un summit-lampo a Bruxelles. Ora che il compromesso è stato approvato dai governi, si tratta di “venderlo” al Parlamento britannico.

Non è un caso che i media locali usino proprio questo verbo: per Theresa May si tratta del “miglior accordo possibile”, ma il testo soddisfa pochi, e il rischio è che Westminster respinga la bozza, oltre cinquecento pagine accompagnate da un documento politico di una ventina di cartelle sul futuro delle relazioni tra l’isola e il continente.

Bruxelles ha fatto capire che non c’è possibilità di brandire un rifiuto come clava per spuntare condizioni migliori. I timori della vigilia – le riserve della Francia sulla pesca, e della Spagna su Gibilterra – sono stati superati dall’atteggiamento compatto dei Ventisette.

COSA ACCADE ORA? –  Se i deputati approveranno, il 29 marzo 2019  comincerà il periodo di transizione, che terminerà a dicembre 2020. Dal 2021, a cinque anni di distanza dal referendum, il Regno Unito sarà fuori.

Le riserve nel Parlamento britannico vengono dai laburisti, che sperano di far cadere il governo May e insediare  il leader Jeremy Corbin dopo nuove elezioni –, e dai deputati nordirlandesi, a cui l’esecutivo è appeso,  e che temono una frontiera “dura”con l’EIRE. Ma c’è anche una fronda di Conservatori, piuttosto agguerrita e capeggiata dall’ex ministro Boris Johnson.

 

La decisione del Parlamento londines è attesa per una data compresa tra il 10 e il 12 dicembre. La premier partirà nelle prossime ore per un tour di due settimane:  girerà il paese per spiegare che non si poteva fare meglio e che il Regno Unito ha riguadagnato il controllo dell’immigrazione, tema caro ai Leavers. In una lettera inviata alla nazione, May sottolinea come la libertà di movimento sia finita “una volta per tutte”:  “invece di un sistema di immigrazione basato sulla provenienza geografica – scrive –  ne avremo un altro basato sulle abilità e il talento che una persona porta in dote al paese”.

Dal punto di vista economico, la missiva  ricorda che con l’uscita si risparmierà molto denaro pubblico, pronto per essere reinvestito in progetti di lungo termine come ad esempio quello relativo all’NHS, il martoriato sistema sanitario britannico.

Ma dietro le quinte si lavora a un piano B per evitare il peggio in caso di rifiuto: secondo il Telegraph, nelle stanze del governo si pensa a un accordo alternativo che ricalchi il modello norvegese. Il paese nordico non fa parte nell’Europa politica, ma è nello Spazio economico europeo. La Norvegia, però, non partecipa ai tavoli dove le regole vengono decise. Se così fosse, e fatta la tara alla demagogia, sarebbe stato forse meglio restare nell’Unione, con le ampie libertà che un’Europa traballante aveva, da sempre, garantito al Regno Unito.

@apiemontese

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Controesodo, incentivi anche per chi non ha una laurea. Il ddl alla Camera

Questo articolo è uscito sul magazine Londra, italia.

C’era un’epoca, circa vent’anni fa, in cui l’Erasmus era considerato una perdita di tempo, una sorta di vacanza studio a spese dei genitori a base di feste e party ad alto tasso alcolico. I docenti avevano capito bene: era esattamente così. Ma quelle vecchie cariatidi  di facoltà – nel ’68 si sarebbe detto “matusa” -, rinchiusi nei propri studi spesso inaccessibili,  non avevano compreso una cosa: i mesi spesi tra una festa e l’altra, dormendo tre ore a notte e frequentando lezioni come zombie avrebbero  lasciato un’eredità importante: la capacità di parlare le lingue, di apprezzare con culture diverse, l’autonomia – per chi non viveva già da solo. Era nata la prima generazione di europei. Complice il boom dei voli low-cost, nel giro di qualche anno, all’alba del millennio, non era più strano avere la fidanzata a Parigi o andare a trovare gli amici per un weekend in Spagna. Con buona pace di mamma e papà.

Il problema è che molti di quei giovani all’estero ci sono tornati. Per restarci. Li chiamano “talenti”, e sarebbero una risorsa importante per il paese che li ha formati, cresciuti e poi visti volare via. Circa due milioni di italiani hanno lasciato la Penisola negli ultimi dieci anni, duecentomila ogni dodici mesi, e i dati censiscono solo gli iscritti all’AIRE.

Ma esiste una quota importante di sommerso, persone che, per un motivo o per l’altro non hanno mai fatto questo passo, creandosi, tra l’altro, problemi con il fisco. C’è chi ha preferito restare in incognito per pagare meno tasse, ma anche chi, semplicemente, non voleva perdere il medico di base, come ha rivelato un’indagine di Gruppo Controesodo, community destinata a chi vuole tornare sui propri passi, ma aspetta l’occasione buona per farlo.

LEGGE BIPARTISAN – Per fermare l’emorragia, il Governo è intervenuto con una legge bipartisan già nel 2010, promettendo incentivi e sgravi fiscali per i lavoratori altamente qualificati che facevano rientro in Italia: la cosiddetta legge sul Controesodo, che, peraltro, ha avuto un’applicazione poco costante.

La 238/10 – questa la denominazione ufficiale – abrogata per due anni, è stata poi ripristinata nel 2015. In questi giorni è in corsia alla Camera una proposta a cura del giovane deputato PD Massimo Ungaro che mira a rivederne alcuni articoli, e ad armonizzare le stratificazioni che col tempo si sono accumulate.

Il progetto è dare un incentivo a tutti coloro che vogliono tornare ma non ne vedono ancora le condizioni, – spiega Ungaro a Londra, Italia – anche a chi non ha una laurea. La migrazione in passato serviva ad alleggerire la pressione demografica, ma, con i tassi di natalità ai minimi e le risorse migliori che se ne vanno, un incentivo è necessario”.

Tra i punti chiave della proposta, una sanatoria per chi si è “dimenticato” di iscriversi all’AIRE. La proposta di legge è stata presentata a metà ottobre, ed è in attesa di essere calendarizzata.

Basta una legge? Forse no. “Lo Stato deve fornire un ecosistema” ammette lo stesso Ungaro, expat da dieci anni. Difficile pensare a un controesodo se il contesto nazionale continuerà ad essere caratterizzato da burocrazia e corruzione, mali atavici che a chi ha vissuto altrove pesano anche di più. E il profumo del basilico, adagiato fresco sopra a un piatto di pasta, spesso non basta a dimenticare l’amaro del rientro.

@apiemontese

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“L’austerità sta finendo”: la promessa di Hammond alla presentazione del nuovo budget

Questo articolo è stato pubblicato sul magazine Londra, Italia.

Austerity is coming to an end”, l’austerità sta finendo: così sintetizza il budget 2018 il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, l’equivalente del nostro ministro delle Finanze. Secondo il documento presentato in Parlamento la Brexit avrà poco o nessun impatto sulla crescita che, seppur fiacca, si stabilizzerà  attorno all’1,5% fino al 2023. Anzi, le previsioni sono al rialzo di quache decimale rispetto a marzo. Niente cifre da capogiro, ma nemmeno numeri negativi. Ottimismo di facciata?

Non la pensa così Hammond, che ha spiegato come il “duro lavoro del popolo britannico abbia pagato”, aprendo i rubinetti e stanziando per i prossimi cinque anni 20 miliardi di sterline in piú per l’NHS, il sistema sanitario pubblico che paga una cronica mancanza di fondi, e una drastica perdita di qualità nelle prestazioni.

Tra le varie misure, 400 milioni di sterline per le scuole (destinati alle “spese extra” – ma il sistema scolastico è bisognoso di fondi strutturali) e una digital tax del 2% sui profitti realizzati dai giganti del web dai clienti UK.  Insomma, Amazon e Google pagheranno le scuole, e se nessuno si indignerà a vederli versare più imposte, non manca chi chiedeva più coraggio.

L’housing beneficerà di 500 milioni di sterline in piú, che sbloccheranno 650.000 abitazioni, mentre un fondo da 675 milioni sarà destinato al sostegno delle high streets, penalizzate dalla crescita del commercio online. Con la postilla che il cambiamento dei modelli di consumo (leggasi, il declino)  è “irreversibile” e si tratta di adattarvisi, senza pretendere di invertire la rotta.

Le forze armate riceveranno un miliardo di sterline da destinare alla prevenzione dei crimini informatici, nuova frontiera della guerra fredda, mentre 500 milioni saranno accantonati per l’eventualità di una no-deal Brexit. E non mancano interventi per riparare le buche nelle strade (420 milioni) e piantare piú alberi (60 milioni).

Previsto, infine, un aumento del 4,9% del minimun wage, che passerà da 7.83 a 8.21 sterline: una buona notizia per i tanti lavoratori italiani della ristorazione, e non solo. Su uno stipendio da 1000 sterline, garantirebbe 50 pound in più al mese.

Scettiche le opposizioni. Il leader del Labour Jerey Corbyn ha commentato che “qualunque cosa dica oggi Hammond, l’austerità non è finita”. Non ha tutti i torti. La messa in pratica della manovra dipenderà in buona parte dal fatto che la Gran Bretagna strappi un accordo finale soddisfacente, o almeno non penalizzante, con l’Europa su Brexit. In caso contrario,  il documento dovrà subire una pesante revisione.

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“La gente deve votare”, a Londra la marcia per un nuovo referendum su Brexit

Questo articolo è stato pubblicato sul magazine Londra, Italia.

Non importa se Leavers o Remainers, la gente deve tornare alle urne per approvare l’accordo finale su Brexit. Questa la richiesta degli organizzatori del corteo che domani a mezzogiorno partirà da Park Lane (fermata Tube Marble Arch, qui tutte le info) con arrivo a Parliament Square, dove si terrà il comizio conclusivo.

Si torna in piazza, dopo la manifestazione del giugno scorso che aveva radunato decine di migliaia di persone. Sono attesi partecipanti da tutto il paese per chiedere un referendum sull’accordo finale che potrebbe essere siglato dal Governo nelle prossime settimane.  “Sarà la protesta più importante per la nostra generazione” dicono gli organizzatori.

Un sondaggio recente avrebbe rivelato che oltre la metà dei cittadini britannici preferirebbe restare nella UE. Merito, forse, del dibattito pubblico che in due anni e mezzo ha sviscerato la questione meglio degli slogan

CHI HA ORGANIZZATTO LA MANIFESTAZIONE – A organizzare il corteo, diversi gruppi, tra i quali Open Britain e Britain for Europe. Tra gli speaker attesi, anche il sindaco di Londra Sadiq Khan. “La gente non ha votato per essere più povera, per danneggiare l’NHS o mettere a rischio posti di lavoro – ha detto Khan al tabloid Sun –  Come sindaco di Londra, sono orgoglioso di accogliere chiunque voglia unirsi alla Marcia per il Futuro e sommare la mia voce alla richiesta di un voto pubblico”. Oltre al primo cittadino, saliranno sul palco anche deputati conservatori, dei verdi, di area lib-dem e numerose celebrità, tra cui la chef Delia Smith. Smith e altri personaggi noti hanno pagato di tasca propria fino a 1000 sterline ciascuno per contribuire ad affittare pullman per portare in città i manifestanti da tutto il paese.

Il punto di incontro è fissato a Park Lane, poco distante dall’Hilton Hotel, a mezzogiorno. Il corteo sfilerà per le vie del centro fino a Parliament Square, dove per le due è previsto il comizio. Una marcia più breve partirà da Trafalgar Square.

COSA SUCCEDE DOPO IL 29 MARZO – Anche in caso di deal si aprirà un periodo di transizione di 21 mesi. La notizia di ieri è che l’Unione Europea sarebbe disposta a concedere una proroga a questa fase intermedia, come confermato da Donald Tusk e Jean Claude Juncker, rispettivamente presidente del Consiglio europeo e della Commissione Europea.

Nelle prossime settimane il quadro sarà più chiaro. L’appuntamento di sabato potrà fornire qualche risposta sugli umori dell’opinione pubblica. Due anni e mezzo sono un periodo lungo, in cui si è sviluppato un vero dibattito attorno alla questione. La storia della Brexit ha tutta l’aria di non essere un racconto breve.

@apiemontese

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Un anno alla Brexit
brexit, esteri, politica

Brexit a metà strada: il rischio per Londra è restare sola

 

Questto articolo è stato pubblicato originariamente su Londra, Italia

Un anno dall’avvio delle trattative, quasi due dal referendum. E dodici mesi esatti all’addio ufficiale fissato per il 29 marzo 2019. La Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione non è ancora avvenuta. Parliamo, allo stato dei fatti, di una eventualità probabile ma non ancora certa. Ma le ricorrenze  simboliche offrono lo spunto per  qualche valutazione.

E’ stato un errore votare Leave e orchestrare una campagna per allargare la Manica? Nigel Farage e Boris Johnson risponderebbero che no, non lo è stato.  Ma tipi come Farage e Johnson sono pronti a negare l’evidenza. E, mancando la controprova, trovano sempre qualcuno disposto a dar loro credito.

I numeri, pur non essendo catastrofici, non depongono a favore dell’esito elettorale: l’economia tiene, ma su una curva più bassa rispetto al passato. La sterlina non è risalita, e le aziende straniere continuano a portare via da Londra i propri uffici, giocando d’anticipo. I fondi europei che verranno a mancare aiutavano proprio le campagne, i territori che si sono dimostrati più ostili a Bruxelles.  Nessuno ha spiegato quale sia il piano adesso, ammesso che esista.

La verità è che nessuno si aspettava la Brexit (52% degli elettori a favore in occasione del referendum del 23 giugno 2016): la vittoria del Leave ha sorpreso persino gli stessi promotori.

Non  se la aspettava David Cameron, che concesse il referendum – pensando di vincerlo – per mantenere un’avventata promessa elettorale. Con le stelle all’alba, tramontò la sua carriera politica.

Non se lo aspettava Nigel Farage, che pensò bene di fare un passo indietro all’indomani del successo: perché un conto è desiderare l’impensabile, e un conto è ottenerlo.

Non se lo aspettava nemmeno Theresa May, che, da sostenitrice del Remain, si trovò a gestire la transizione ripetendo il mantra “Brexit means Brexit“.

Non se lo aspettava nessuno, e invece è accaduto. Come è stato possibile?

La causa sta nel grave errore politico di Cameron, che concesse la consultazione. L’ex premier mostrò qui tutta la propria inesperienza. L’uso disinvolto dei media –  vi dice niente Cambridge Analytica?  – , le fake news e le campagne di stampa orchetrate da politici senza scrupoli e più interessati al proprio tornaconto che all’interesse nazionale fecero il resto.

Si parla di  rispettare la volontà del popolo: ma le questioni di geopolitica sono, da sempre, gestite dai governi, al limite dai sovrani, e mai dal demos; quando si ricorre ai plebisciti, agganciandoli al diritto all’autodeterminazione dei popoli, lo si fa per conflitti di matrice etnica, religiosa, e sempre con maggioranze di ben altra portata. Nel caso della Gran Bretagna, che,  pearaltro, in seno all’UE ha sempre goduto di amplissima autonomia, è stato il 2% dei voti a risultare determinante.

Ma il caso della spia russa avvelenata sul suolo britannico – con ogni probabilità su mandato del Cremlino – ha mostrato a Londra cosa significa rischiare di restare isolati.

In un contesto europeo, la solidarietà ai britannici sarebbe stata scontata e doverosa. Oggi non lo è più. E’ una questione di buoni o cattivi rapporti; insomma, di interesse. E’ arrivata, certo, ma grazie al lavoro sottotraccia dei funzionari; e chi la ha mostrata, lo ha fatto in primis per indebolire il leader russo Putin, tornato prepotentemente sullo scenario globale.

Sessantacinque milioni di abitanti, poche risorse naturali, un’economia basata essenzialmente su servizi. Il Regno Unito è esposto al vento. Poco interessante per l’America, poco interessante per l’Europa.  Per dirla con gli economisti, ciò che prima era gratis, oggi ha un prezzo, e vedremo quale.

A Brexit avvenuta, Londra dovrà reinventarsi un ruolo e uno status che, una volta fuori dall’UE, non avrà più. Potrebbe volerci molto tempo. Potrebbe anche non accadere mai.

La politica internazionale in un mondo multipolare funziona ancora – piaccia o meno – come ai tempi del Congresso di Vienna. Un gioco di diplomazie. E non si decide mai esclusivamente in base ai dati economici; si agisce, piuttosto, guardando agli interessi di potenza, che a volte impongono di rinunciare a benefici immediati per ottenere sicurezza a lungo termine. Spiegare questo ai cittadini infiammati dalla propaganda pro-Brexit era obiettivamente impossibile. Ecco perché quella di farli votare è stata la scelta sbagliata.

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Voto dall’UK: tra gli expat il populismo non sfonda

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Londra, Italia.

Il populismo non sfonda all’estero. Il voto oltre confine  non rispecchia l’esito della consultazione in Italia. Quando i seggi scrutinati alla Camera sono circa un terzo del totale, il partito democratico si attesta attorno al 26%, ben al di sopra del 18% raccolto in patria.

Ma a sorprendere è il Movimento Cinque Stelle, fermo attorno al 17%:  metà della performance straordinaria registrata in Italia.  Male anche la coalizione di Centrodestra (Fi,Lega, FdI) che assomma, fino a questo momento, il 21 % circa dei consensi. Maie e Usei fanno registrare rispettivamente 10,11 e 8,01. Le sorprese riguardano anche Liberi  e Uguali (5,49%) e, soprattutto, + Europa (5,9%).

Ci sarà tempo per le analisi sociologiche certo è che l’affluenza è stata bassa (28% circa), e lascia supporre che ad esprimere il voto siano state solo le persone più motivate, politicamente attive e informate, probabilmente anche quelle con una scolarizzazione più elevata.

Un partito nazionalista come la Lega è privo di mordente tra gli expat; perde grip anche il Movimento, pagando forse lo scetticismo sull’euro. Una valutazione confermata dalla prestazione brillante della lista di Emma Bonino, che dell’Unione ha, invece,  fatto bandiera.

Il risultato  delle ripartizioni  Europa e Asia-Africa- Oceania rispecchia i dati generali, mentre in Nord America prevale il centrodestra con il 32,88 %; in America Meridionale, invece, Maie e Usei trionfano con , rispettivamente, il 29,4 e il 24,75.

In UK, al momento, i dati danno il PD al 33%, 5 stelle al 26% Centrodestra al 17%. Ottima la performance di +Europa, che in Italia probabilmente non prenderà seggi (2,5% dei voti), mentre nel Regno Unito assomma addirittura l’11% dei consensi, così come quella di LeU (7%): numeri che raccontano una storia particolare, e forse risentono dell’effetto Brexit.

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Fine di Renzi, Lega al 17%: l’Italia ai Cinque Stelle

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Londra, Italia.

MILANO – La sala si svuota, gli esponenti politici se ne vanno, i ragazzi, mesti, si guardano tra loro. Nessuno parla. La maratona elettorale al comitato PD di Milano finisce a mezzanotte e trenta, con le prime proiezioni. Una scena lunare. “Quando cadi così in basso non puoi che risalire”. “L’abbiamo detto tante volte”. Si sapeva, ora lo ammettono dopo le frasi di circostanza delle scorse ore. Ma fa sempre male.

Mentre la Milano democratica va a dormire, ce n’è un ‘altra che festeggia. E’ quella di Salvini, in via Bellerio, che con il 17 % quadruplica il risultato di cinque anni fa.

Ma sono state le elezioni del Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, che sfonda la soglia del 30 per cento.
Cosa accadrà adesso, nessuno lo sa.
Tutto dipende dai pentastellati, da come decideranno di capitalizzare il risultato.

Una campagna elettorale povera di contenuti, mai come questa volta giocata sulle paure e sull’immagine. Il trionfo della politica – spettacolo.
Silvio Berlusconi, il grande comunicatore, è sembrato antiquato, e non solo per sopraggiunti limiti di età. Oggi la comunicazione politica si fa con Instagram, le televisioni non bastano.

“Renzi è morto” proclama qualcuno. Caduto in disgrazia, dopo i trionfi del  2014. Mai si era vista una fine tanto repentina per un leader. Non in Italia, almeno. Vittima del proprio ego, senza i denari dell’uomo di Arcore, anche il partito gli si è rivoltato contro.

Arrogante. Troppo. Questo gli rimprovera la gente, questo gli rimproverano i suoi. Mentre Salvini soffiava sul fuoco della paura degli immigrati, e il Movimento Cinque stelle, via il capo dei vaffa, si normalizzava con Di Maio.

Ora la speranza è che i grilini accettino di diventare forza di governo e non ripetano il copione scontato del 2013. Non sarà facile; ma non è impossibile. Molti  hanno fatto esperienza nei palazzi, compreso che guidare un paese è molto diverso dal contestare lo status quo. Basta non illudersi che la democrazia del web possa decidere su questioni vitali; per quelle, a volte, basta il buonsenso.

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Pungente e impietoso: il monologo dell’inglese Oliver sulla politica italiana divide il pubblico

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Londra, Italia

Caustico, infarcito di stereotipi, impietoso, ma nonostante tutto realistico nel descrivere la politica italiana.  I venti minuti di John Oliver, andati in onda nei giorni scorsi su Hbo (in basso il video integrale rimbalzato sui social), hanno fatto discutere. “Tutto vero” gridano  alcuni; altri si indignano.

Il comedian britannico, noto per sferzare i politici americani tutte le settimane, non fa sconti. Partendo dai 65 esecutivi  in 70 anni del nostro paese – qualcuno si è scordato i  “governi balneari”? – prosegue con le apparizioni giovanili  di Renzi alla “Ruota della Fortuna” e di Salvini al “Pranzo è servito”.

E’ quindi  il turno di Grillo  e Di Maio (con il Vaffa day trasformato, ad uso del pubblico di lingua inglese, in “Fuckoff day”); infine, last but not least, il ritorno in campo di Silvio Berlusconi, cui è dedicato quasi metà del monologo.

Del resto, è un fatto che l’ex premier abbia offerto materiale alle cronache, e non solo: dal contratto con gli italiani alla bandana, dal lettone di Putin a Ruby Rubacuori nipote di Mubarak; dal bunga bunga con le olgettine vestite da infermiere  – qualcuna persino da Barack Obama  –  alle norme su legittimo sospetto, legittimo  impedimento e falso in bilancio  che hanno tenuto banco per anni. Gran finale con il “culona inchiavabile” affibbiato alla Merkel: impossibile resistere alla tentazione di un excursus che ne desse conto.

Certo, avremmo preferito che Oliver ricordasse i paralleli tra l’ex Cavaliere e Trump –  due fotocopie -, e in questo il comico cede al gusto dello sberleffo; ma non si può negare che abbia toccato un punto chiave.

Ripercorrendo assieme a lui gli ultimi 20 anni, sembra che i siparietti cui l’uomo di Arcore  ci aveva abituati siano diventati patrimonio comune della politica nostrana. Qualcuno deve essersi accorto che ha funzionato, e l’arena si è riempita di epigoni. Come scordare Renzi con il giubbotto da Fonzie? o la plateale traversata dello Stretto di Messina di Grillo?

Forse è da questo che dovremmo ripartire per comprendere il presente.

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brexit, londra, politica

May dalla Regina, probabile accordo con il DUP

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Londra,Italia il 9 giugno 2017.

“L’alternativa a Theresa May è intollerabile”. Con queste parole, il Partito Democratico Unionista (DUP), formazione nordirlandese, apre la porta alla possibilità di sostenere un esecutivo guidato dall’attuale primo ministro. Sospiro di sollievo per l’inquilina di Downing Street, che rischia di abbandonare la carica dopo aver consumato il mandato più breve dagli anni Venti. Roba comune alle nostre latitudini, ma che Oltremanica fa un certo effetto.

Ma non si tratta di una situazione facile. Con la maggioranza assoluta dei seggi, necessaria per governare, fissa a quota 326 seggi, i 318 collegi vinti dai Tories non bastano. L’alleanza con il DUP garantirebbe altri dieci seggi: appena due sopra la quota di stallo. Significa che qualsiasi provvedimento sarebbe esposto al fuoco amico dei franchi tiratori, che non mancano soprattutto sui temi legati alla Brexit, e le questioni sociali. Il rischio è la paralisi decisionale. Il contrario di quello per cui il modello parlamentare inglese, il “modello Westminster”, è progettato.

Del resto, il costo politico di un accordo con il DUP potrebbe essere molto alto. Il partito rappresenterebbe un veto player in grado di condizionare qualsiasi decisione, con appena dieci deputati eletti, per di più localizzati in Irlanda del Nord.  May rischia di trasformarsi in un manichino.

La premier si è recata a Buckingham Palace attorno a mezzogiorno per incontrare la Regina e confermarle la possibilità di restare in carica.

La leader ha deciso di provare a restare in sella nonostante la scelta di convocare elezioni politiche per “rafforzare il mandato sulla Brexit” e fornire al Paese “un governo forte e stabile”si sia rivelata fallimentare. La maggioranza assoluta dei seggi ottenuta da David Cameron nel 2015, che secondo i calcoli dei conservatori avrebbe dovuto aumentare, è evaporata sotto il sole di giugno. Sei ministri non sono stati rieletti e un altro ha mantenuto il proprio collegio con un distacco di appena 300 voti.

Non è stato il tema della Brexit  a smuovere il consenso, quanto, piuttosto, le questioni di politica interna come l’aumento delle tasse scolastiche e la cosiddetta “dementia tax”, che ha allarmato molti cittadini anziani.

La politica internazionale, considerata un tema prioritario dallo staff conservatore, si è rivelata meno interessante del previsto per gli elettori, preoccupati di tirare avanti. A conti fatti, la Brexit era stata votata proprio da chi temeva la concorrenza dei lavoratori stranieri e ulteriori ristrettezze.

Jeremy Corbyn esulta. Un passato (e forse anche un presente) socialista, il leader laburista ha saputo recuperare combattendo la propria battaglia punto su punto e spostando l’asse del partito a sinistra. Se il tentativo di May di formare un governo dovesse fallire, toccherebbe a lui provare a imbastire un esecutivo di minoranza capace di incassare il voto dei Lib Dem e dello Scottish National Party di Nicola Sturgeon su singole questioni. Non certo un governo di prospettiva, ma un modo per superare un impasse che ricorda molto da vicino quello che si è verificato in Italia nel 2013.

Dal canto loro, i Lib Dem hanno già detto di non voler fare alleanze.

In UK manca una Costituzione scritta che preveda norme su come uscire dall’impasse. Ci si affida a consuetudini consolidate e al buonsenso. Non è esclusa la possibilità di nuove elezioni, ma non a breve termine.  Per gestire il momentum, si parlerebbe a questo punto di un esecutivo di scopo per gestire l’ordinaria amminisitrazione, che nel Regno Unito, ora, significa l’apertura delle trattative per la Brexit, fissata per  il 19 giugno. L’Unione Europea potrebbe, se richiesto, concedere una proroga.

Ciò che appare certo è che la May non mollerà facilmente. E che sembra sempre più innamorata di se stessa e del proprio sogno di essere ricordata come statista. Hubrys.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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internet, politica, pubblicità

Pubblicità e politica: online è il far west

Lo suggerisce il Guardian con la solita intelligenza, e del resto il tema è attualissimo. Mentre la pubblicità elettorale sui media tradizionali (Tv, radio, manifesti) è ampiamente regolamenta, quella online è terra di nessuno e, in buona parte, inesplorata. Soprattutto dal legislatore. Il quotidiano inglese la paragona al “wild west” di Sergio Leone, dove gli sceriffi fanno tappezzeria e i conti si regolano con le pistole.

Dai sondaggi alla “par condicio” alla cosiddetta “pausa di riflessione” prima del voto, nelle democrazie moderne ogni aspetto sensibile è sottoposto a normativa. L’obiettivo, nobile, è evitare che chi è in grado di condizionare i media possa sfruttarli a proprio vantaggio. In Italia sappiamo che un modo per comprarsi il consenso si trova comunque: basta possedere tre reti nazionali, un quotidiano, quattro o cinque mensili, una casa editrice  e qualche amicizia che conta. Trump ha imparato la lezione così bene che, da palazzinaro e protagonista di reality, si è ritrovato a Washington in un battito di ciglia.

Ma c’è poco da stare allegri. I database di Facebook contengono migliaia di post per ogni utente e la creatura di Zuckerberg consente per definizione di inviare pubblicità profilata. Per capire a chi, ci sono società più piccole come Cambridge Analytica che sono in grado di creare profili elettorali bersaglio incrociando “big data and psychographics” (che tradurrei con “psicografiche”, sul modello delle ormai diffusissime infografiche). Significa che chi è sensibile  alla povertà e si commuove di fronte alle immagini shock, sarà bombardato da messaggi toccanti. Un tipo analitico, invece, riceverà reports a base di  numeri e istogrammi. Molto più persuasivo, no?

Le conseguenze possono essere pesanti. Nelle elezioni del 2015 i Conservatori in UK spesero 1,2 milioni di sterline in advertising online, il Labour solo 160mila. Il risultato fu l’inaspettata elezione di David Cameron che avrebbe condotto, l’anno seguente, al referendum sulla Brexit.
Già allora Politico.com si chiedeva se la tecnologia stesse rendendo inaffidabili i classici sondaggi.

Il problema oggi è dannatamente serio, e configura una delle sfide più interessanti per il diritto. La sfida per il legislatore è duplice. In primo luogo, capire come intervenire a livello nazionale senza ledere le libertà fondamentali. In secondo luogo obbligare le grandi corporation multinazionali come Facebook, che possono piazzare i server dove vogliono, ad adeguarsi.

Un’altra dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia essenziale l’Unione Europea. Siamo sicuri che l’Italia una partita del genere possa, non diciamo vincerla, ma semplicemente giocarla?

@apiemontese

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