cronaca, salute

“Stai bene”. Dimessa a Londra, la operano d’urgenza in Italia. NHS sotto accusa

Questo articolo è stato pubblicato sul magazine Londra, Italia.

Una lettera a Repubblica apre uno squarcio inedito – almeno per chi vive in Italia –  sulla sanità londinese. A scrivere al quotidiano romano è Laura Biondi, di Pisa. La figlia, che per ragioni di privacy chiameremo M., si trovava a Londra nei giorni scorsi per frequentare un corso di lingue. Il 17 luglio la ragazza accusa mal di testa, dolori al collo e vomito. Si reca al pronto soccorso, chiede di essere visitata. I medici la mandano a casa senza effettuare esami.

Due giorni dopo, il 19 luglio, la studentessa raggiunge di nuovo in ospedale su consiglio della famiglia. La diagnosi è banale: dolori cervicali e disidratazione. Vengono prescritti degli antidolorifici. Il 20 la situazione non migliora; i genitori decidono di raggiungerla col primo aereo.  “Una pena infinita vederla a letto dolorante, fotofobica, cercava solo il contatto con le nostre mani” racconta Biondi.

“Ha avuto, tecnicamente, un’assenza – prosegue la signora – Corsa in ambulanza, esami e diagnosi riconfermata per la terza volta. ‘Sei sana come un pesce’. Ci hanno negato come non necessaria una flebo per idratarla”.

Inevitabile, a quel punto, il rientro in Italia. “A fatica l’abbiamo trasferita in hotel, nutrita, consci di doverla portare via ma all’oscuro dell’elevatissimo rischio: solo la diagnosi pisana, immediata al rientro, ha rivelato emorragia cerebrale per lesione di malformazione arterovenosa congenita”. Ennesima corsa in ospedale, TAC, diagnosi immediata. Ma questa volta, le porte della sala operatoria si aprono subito. L’intervento viene eseguito nel reparto di Neurochirurgia del nosocomio di Cisanello. Sullo sfondo i dubbi sulla gestione dell’emergenza da parte dei medici londinesi.

BUROCRAZIA, TEMPI STRETTI E TAGLIO AI COSTI – “Perché l’ospedale londinese non ha suggerito ulteriori esami per lei che trascinava le gambe a stento? – si domanda la madre – Perché non ha pensato necessarie per lei altre verifiche, diritto umano e dovere primo nella deontologia medica? Forse perché si entrava in una fascia di controlli a pagamento (nessuno ce lo ha detto)? Perché comunque non ha voluto effettuare una TAC di approfondimento, come è stato subito predisposto dai medici pisani che hanno mostrato la risolutezza necessaria per interpretare la situazione di chi gli si affida?”.

L’accaduto getta luce sulla quotidianità del sistema sanitario britannico (NHS), dove vertici di assoluta eccellenza si sposano a storie di superficialità.  Un sistema in crisi, piegato dalla mancanza di fondi e dalle strategie impiegate per gestire il buco nei conti. Soluzioni spesso sbrigative, che a Londra, metropoli da 8,5 milioni di abitanti dove convivono più di 100 nazionalità, mostrano limiti.

L’efficienza è misurata coi tempi di attesa. L’approssimazione dovuta a volumi elevati, l’attenzione ai target imposti dal governo più che al quadro clinico del paziente ed un sistema altamente congestionato dalla burocrazia dedita al risparmio del centesimo rendono purtroppo questo scenario più la norma che l’eccezione” racconta a Londra, Italia un operatore del settore, che preferisce mantenere l’anonimato.  “Purtroppo non è un caso isolato”.

La babele di lingue e nazionalità e la scarsità di professionisti locali non semplificano il quadro. Spesso i medici stranieri – moltissimi e provenienti da tutto il mondo –  sono mandati in prima linea privi delle necessarie competenze linguistiche. Un esame di inglese è stato introdotto solo nel 2014. Può capitare che un camice coreano visiti un paziente spagnolo assistito da un’infermiera polacca: intervenire, soprattutto in un contesto di emergenza, diventa estremamente difficile, e il rischio di sbagliare diagnosi è concreto. Una situazione che ha dato nuova linfa al settore privato, incoraggiando, soprattutto a Londra, la nascita di studi  specializzati nel fornire servizi medici in lingua (tra questi non mancano quelli italiani): poter usufruire di una prestazione nel proprio idioma nativo permette di spiegare meglio i sintomi,  ma anche di avere una sorta di “ponte” con logiche di gestione del paziente spesso profondamente diverse da quelle nostrane.

La cronica mancanza di dottori locali è in parte dovuta ai costi di formazione e agli stipendi migliori che altri paesi – ad esempio l’Australia e gli USA – sono in grado di garantire ai laureati britannici. La mobilità intereuropea ha reso conveniente assumere stranieri, ma il risultato del referendum, e il nuovo “hostile environment” introdotto da Theresa May hanno cambiato il clima, frenando gli arrivi. A risentirne sono soprattutto i giovani medici dell’NHS, arrivati a scioperare per porre l’attenzione sui turni massacranti a cui sono sottoposti.

RICORSO AL PRIVATO – Nel Regno Unito la sanità è pubblica; ma vedere un medico di base (GP) nella capitale non è sempre facile. L’attesa può durare settimane; per chi ha urgenza esistono, naturalmente, soluzioni, anche in questo caso a pagamento, che promettono prestazioni in giornata e si confrontano sul web a colpi di SEO e campagne pay-per-click. Le tariffe sono esorbitanti. Una “under the weather consultation” di massimo 15 minuti può costare 100 pounds. Una “full consultation” di mezz’ora ne costa 120, mentre per una “unlimited consultation” senza guardare le lancette la tariffa sale a 150 sterline. Dettaglio: le prime due opzioni devono essere prenotate, ed è necessario presentarsi in ambulatorio cartella clinica alla mano. Per essere visitati raccontando a voce la propria storia bisogna usufruire dell’ultima, la più cara.

Le cliniche private stanno registrando un incremento del numero dei pazienti solventi, che nel 2017  si aggiravano tra il 15% e il 25% del totale (fonte Intuition Communications, società specializzata nella diffusione di notizie in ambito sanitario). I tempi di attesa spesso superano le 18 settimane previste dal sistema sanitario nazionale come limite per avere accesso a una prestazione, e l’ossessione dei manager di rientrare nelle statistiche spesso conduce a dimissioni frettolose. La situazione è diventata così drammatica per alcune fasce sociali che, nei mesi scorsi, quattro società specializzate in gioco d’azzardo  hanno fatto circolare una fake news secondo cui un marito disperato avrebbe potuto pagare le terapie solo grazie a una vincita al tavolo verde. L’authority è intervenuta, ma il marketing ha cercato di sfruttare cinicamente quello che, con tutta evidenza, è un tema sentito.

QUESTIONE POLITICA – Come accade anche a latitudini più mediterranee, i costi dell’NHS sono diventati terreno di scontro per la politica. I sostenitori della Brexit promettevano condizioni migliori dopo l’uscita; a due anni dal referendum, la situazione non è cambiata.

Quel che è certo è che la sanità britannica sta affrontando sfide ormai comuni a tutti i governi dei principali paesi europei. Londra e il suo cosmopolitismo pongono problemi che cominciano ad avvertirsi anche nelle città italiane. I fallimenti, e le soluzioni, che arrivano dal Regno Unito possono diventare spunto per una riflessione strutturale sulla sostenibilità del welfare che cerchi di contemperare esigenze di bilancio e tutela delle fasce svantaggiate della popolazione. Un’idea che in Europa, a differenza di quanto accade altrove, non suona blasfema.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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cultura, salute

Padiglione cancro, di Aleksander Solgenitzin

Aleksander Solgenitzin vinse il premio Nobel negli anni ’70, ma non, come molti credono, per “Arcipelago gulag”, la sua opera più famosa. Gli accademici di Svezia lo incoronarono per un’opera poco conosciuta,  il romanzo “Padiglione Cancro”.

Ne avevo sentito parlare e mi incuriosiva, così quando l’ho trovato sullo scaffale di un negozio di libri usati l’ho comprato subito. Di Solgenitzin non avevo mai letto nulla.

Mi aspettavo un autore pesante e un libro noioso, insomma ero rassegnato e pronto ad abbandonarlo.  Mi sbagliavo. Ho scoperto che il nostro è un grandissimo scrittore, capace di rendere con tratti rapidi ed efficaci uno spaccato della quotidianità in un ospedale sovietico, senza rinunciare, in più di una circostanza, a toni persino umoristici.

Siamo nell’Uzbekistan degli anni Cinquanta.  Nelle corsie del padiglione 13, quello riservato ai malati oncologici,  si intrecciano le storie dei protagonisti: paure, ansie, infatuazioni, piccole e grandi meschinità. Medici e pazienti vengono descritti con una profondità di sguardo e una conoscenza dell’animo umano che a tratti meraviglia.

L’autore, che negli anni Cinquanta aveva ricevuto una diagnosi di cancro ed era stato ricoverato proprio come i personaggi del libro, riversa nelle pagine parte della propria esperienza; del resto, la terminologia ricca di dettagli lascia pochi dubbi sulla sua padronanza della materia.

Ma Padiglione cancro è almeno altre due cose. In primis uno spaccato su una malattia, e relative terapie, per come era percepita quando ancora lasciava poche speranze. Allora si moriva molto più di oggi; ma è interessante vedere come gran parte delle tecniche di cura fossero già impiegate (chirurgia, radioterapia, chemio, ormonoterapia; per chi fosse interessato al tema, consiglio anche “L’imperatore del male – una biografia del cancro” di Siddharta Mukherjee).

L’altro profilo per cui si tratta di un romanzo da scoprire (o da rileggere) è che la vita di corsia e l’intrecciarsi dei destini offrono uno visione estremamente realistica e particolare della società sovietica. Lontano dall’inferno dei gulag, Solgenitzin racconta la quotidianità di un paese dove per fare la spesa serve la tessera e per spostarsi da una città all’altra bisogna chiedere il permesso alla polizia. Il comunismo ne esce per quello che fu, un gigantesco esperimento sociale capace, in nome dell’ideologia, di sacrificare milioni di esistenze; ma, al di là della valutazione storica, mi sembra che questo lungo romanzo possa essere considerato come l’antesignano di tutto il filone di “medical tv” che, da ER in poi, ha spopolato in Occidente. Scritto trent’anni prima. Insomma, leggetelo.

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Informatori o venditori? Viaggio nel lato oscuro del marketing farmaceutico
inchieste, salute

Informatori o venditori? Il lato oscuro del marketing farmaceutico

“Proibiamo rigorosamente tangenti, bustarelle, pagamenti illegali e qualsiasi altra offerta di oggetti di valore che possano influenzare o premiare in modo inappropriato un cliente per aver ordinato, acquistato o utilizzato i nostri prodotti e servizi, siano essi forniti direttamente o tramite una terza parte come un distributore, uno spedizioniere doganale o altro agente”. La dichiarazione di intenti è tratta dal Codice di comportamento di Jonhson&Johnson, multinazionale coinvolta nella vicenda che ha condotto all’arresto del primario di Ortopedia del Gaetano Pini di Milano Norberto Confalonieri.

Il noto chirurgo, spesso ospite di trasmissioni televisive, è accusato di aver ricevuto compensi per impiantare i prodotti di due aziende, la stessa Johnson e la B.Braun, in cambio di viaggi per sé e gli accompagnatori, ospitate in televisione e lucrose consulenze. Tutto pagato, secondo l’accusa, dalle aziende. Ma le intercettazioni condotte dai pm di Milano mostrano un Confalonieri spregiudicato, che si vantava al telefono di aver rotto un femore a un’anziana paziente “per allenarsi” e in qualche caso avrebbe cercato di rimediare in regime pubblico ai danni arrecati durante operazioni effettuate in regime privato. Allo studio dei magistrati ci sono 62 cartelle cliniche: la misura cautelare è stata irrogata per corruzione e turbativa d’asta, ma potrebbe configurarsi anche il reato di lesioni. Il primario, dal canto suo, rifiuta in toto le accuse.

Si ripropone il problema dei rapporti tra case farmaceutiche, produttrici di apparecchiature medicali e protesi e i medici che questi prodotti sono chiamati a impiegare o prescrivere. Il tema sale periodicamente alla ribalta in corrispondenza delle inchieste della magistratura o dell’intervento delle authority. Una questione complicata, perché a cavallo tra la ragion d’essere di ogni azienda – l’utile – e le implicazioni etiche derivanti dal particolare settore affrontato: quello della salute.

Ricostruiamo il rapporto tra queste entità così diverse.

L’attività professionale, condotta in studio o in ospedale non sempre consente di aggiornarsi costantemente sul complicato mondo delle molecole o delle protesi. Certo, esistono le riviste di settore, anche online: ma gli informatori scientifici (spesso laureati) conoscono meglio di chiunque le interazioni dei propri farmaci, gli studi effettuati e le nuove indicazioni terapeutiche. Riceverli è un modo per sopperire alla necessaria attività di aggiornamento. Ed è questo anche il fine che assegna loro il legislatore, diffondere l’aggiornamento sui farmaci o i presidi chirurgici. Ai medici il compito di valutare, facendo uso della propria competenza, e conformandosi ai principi della miglior cura per il paziente, le affermazioni.

Il legislatore interviene per la prima volta sulle “chiacchierate” tra informatori e medici nel 1934 con il Testo Unico delle leggi sanitarie, in cui si fa esplicito riferimento al “comparaggio” tra prodotti di aziende concorrenti e si vieta il commercio, sotto qualsiasi forma, dei campioni gratuiti dei medicinali. Nel 1972, quarant’anni dopo, un secondo intervento legislativo richiede, per l’assunzione della posizione di informatore scientifico, la laurea in discipline biomediche o chimico-farmaceutiche; i campioni omaggio possono ora essere consegnati solo su richiesta, e presso il Ministero si istituisce un elenco dei professionisti dell’informazione scientifica con l’indicazione del loro titolo. Non solo: il numero di informatori che è possibile impiegare in azienda dipende da popolazione medica, dal volume di produzione e della ricerca della compagnia e deve in ogni caso essere contenuto entro le 160 unità. Ma, come spesso accade, a Roma si fanno le leggi; per i controlli, rivolgersi altrove. Il testo nella prassi viene costantemente disapplicato.

Nel 1978 viene istituito il Servizio Sanitario Nazionale, che si assume l’onere dell’informazione scientifica sui farmaci in concorso con le aziende. A Roma restano poteri di vigilanza sull’attività aziendale. Il decreto 23 giugno 1981 entra nello specifico. Il testo fa esplicito riferimento a un “contenimento dei consumi” di medicinali tra gli obiettivi. Lo Stato si avvale dell’informazione scientifica aziendale come strumento per raggiungere anche quei medici che, di loro spontanea volontà, sarebbero troppo pigri per aggiornarsi. In realtà, come fa notare Inforquadri, la Federazione nazionale dei Quadri di Informazione Scientifica e ricerca, le case farmaceutiche (e più in generale quelle che gravitano nel mercato della salute) interpretano l’informazione scientifica esattamente al contrario: essenzialmente, uno strumento per aumentare le vendite. Del resto, queste figure hanno un costo: e poco importa che, sul finire degli anni Ottanta, il costo degli IFS sia scaricato sul prezzo finale delle medicine (sostenuto, quindi, dal Sistema Sanitario Nazionale).

Nel 1992 interviene la comunità europea: la direttiva 92/28 della CEE delinea la figura dell’informatore scientifico, ponendolo come figura degerarchizzata alle dipendenze del Responsabile scientifico dell’azienda. Anche questa volta i controlli scarseggiano: in molte compagnie queste figure dipendono invece, esplicitamente o de facto, dall’ufficio marketing o vendite.

Dalla ricostruzione normativa emerge il fatto che, se l’idea è buona, l’applicazione diventa problematica. Del resto, un tempo non esisteva internet, e l’aggiornamento poteva essere molto lento. Anche oggi i professionisti (non solo i medici) sono spesso pigri dopo gli anni dell’Università, e spedire personale competente direttamente in studio appariva una soluzione pragmatica. In un certo senso, si è ceduto in appalto al privato una parte dell’onere ingombrante e difficile da gestire della formazione continua. In questo varco le aziende si sono infilate, dilatandone progressivamente le maglie. Gli informatori sono stati caricati di pressioni difficili da gestire e dotati di budget sempre più consistenti da spendere nell’esercizio dell’attività. I maghi delle note spese e gli artisti della consulenza hanno gioco facile, soprattutto quando si tratta di evitare guai e raggiungere gli obiettivi: c’è sempre qualcuno disposto a non fare troppe domande in cambio di vantaggi personali. Del resto, questo ci si aspetta dagli informatori: coefficienti di vendita (o, per meglio dire, di “penetrazione” del prodotto) in continuo aumento nelle aree di competenza. Numeri che significano quattrini.

Il codice di autodisciplina di Farmindustria datato 2014, è un corposo documento di 40 pagine che affronta nel dettaglio tutte le questioni che potrebbero gettare discredito su un’industria spesso al centro di polemiche infuocate come quella dei medicinali.

Il codice affronta tutti gli aspetti che il legislatore non aveva considerato, ma che ormai ricorono frequentemente nella prassi e nelle cronache giudiziarie, che ormai chiama Big Pharma le maggiori realtà di settore, percepite come un cartello. Consente, ad esempio, di offrire solamente omaggi di valore trascurabile (massimo 25 euro) come biro, agende, portapenne, a patto di indicare chiaramente sull’oggetto il nome dell’azienda e la specialità medicinale pubblicizzata. Sono permesse anche le confezioni di prova di medicinali, nel limite complessivo di 8 per ogni dosaggio, e comunque da distribuire non oltre i 18 mesi dalla data di prima commercializzazione.

Scorrendo le pagine, un capitolo ad hoc è dedicato ai congressi. È esplicitamente vietata – e questo la dice lunga – l’organizzazione di incontri di aggiornamento in località di richiamo. Recita testualmente l’articolo 3: “Sono tassativamente escluse località a carattere turistico nel periodo 1° giugno – 30 settembre per le località di mare e 1° dicembre – 31 marzo e 1° luglio – 31 agosto per le località di montagna“. Fanno eccezione le città, come Barcellona, sede di importanti istituzioni di rilievo scientifico, purché la sistemazione in albergo (non più di quattro stelle) offerta ai partecipanti non preveda accesso al mare. Anche gli spostamenti, se pagati dalle compagnie, devono avvenire in classe economica – tranne per i relatori dei convegni – mentre i pasti devono restare sotto la cifra di 60 euro. Insomma, niente vacanze organizzate in cambio di prescrizioni facili, almeno in linea di principio.

Nel caso di Milano, gli atti dell’inchiesta parlano diversamente. Partecipazione a congressi con volo scelto direttamente da Confalonieri, accusano i magistrati, soggiorno in hotel a cinque stelle dotato di piscina e spa a Barcellona e Tokio per lui e un’accompagnatrice: si arriva facilmente a superare i cinquemila euro a persona. E nessuna compagnia investirebbe una cifra simile se il ritorno atteso non fosse molto più alto.

La carta deontologica di Federfarma torna poi sull’attività in studio degli informatori, che per legge hanno diritto di essere ricevuti ogni tre pazienti, e solo se il medico gradisce. Vietato, durante la conversazione, fare ricorso a iperboli e affermazioni universali (“perfetta tollerabilità”, “assolutamente innocuo”, “farmaco di elezione”) per perorare la propria causa. Ottimo impegno. Controllare che questo comportamento venga rispettato è tutt’altro paio di maniche.

Il terzo livello a tutela dei consumatori è quello delle aziende. Tutte sono libere di dotarsi di strumenti propri, integrativi rispetto al documento dell’associazione di categoria. Si sa, serve a fare bella figura.

Spesso le multinazionali, soprattutto americane, rendono disponibili al pubblico questi strumenti, che fanno bella mostra di sé sul sito aziendale. È il caso di Johnson&Johnson: un corposo paper di una quarantina di pagine scaricabile da tutti che affronta le principali questioni etiche che si pongono davanti a chi fa business con la salute. Una guida per i dipendenti, con le modalità di comportamento da seguire in caso di, e un consiglio: far sempre riferimento ai dirigenti o all’ufficio legale. In altre aziende, come B.Braun, sul sito italiano non è possibile rintracciare una vera e propria policy: non si va oltre alle dichiarazioni generiche di rispetto del buonsenso.

Abbiamo contattato sia Johnson&Johnson che B.Braun per capire che cosa pensassero della vicenda di Milano. Entrambe le aziende hanno preferito non rilasciare dichiarazioni. “Stiamo collaborando con i magistrati”, informano i portavoce praticamente all’unisono, mentre parlano di un’indagine interna per accertare le responsabilità. Risposte di prammatica.

Se le accuse fossero confermate, il problema, in entrambi i casi, è che qualcosa non ha funzionato nella catena di controllo di cui ogni corporation deve essere dotata. Ma resta da capire a che livello: se, cioè, sia stata la dirigenza a favorire l’utilizzo di determinate pratiche scorrette – e in questo caso si configurerebbe una colpa pesante per la compagnia – oppure l’iniziativa è stata presa spontaneamente da figure di basso profilo – ad esempio gli agenti di vendita – : una pratica, quindi, perpetrata all’insaputa dei superiori, per gonfiare i numeri e fare bella figura durante le presentazioni con i dirigenti. La differenza è sostanziale.

Le aziende farmaceutiche e del comparto sanitario vivono di obiettivi di vendita come qualunque altra realtà, dai concessionari di automobili ai produttori di salumi. Sono, però, coinvolte in un settore molto più delicato, il cui giro d’affari è ampio: il 70% circa dei bilanci delle Regioni è destinato alla sanità che, per come è configurata in Italia, è legata a doppio filo alla politica. Facile che solletichi appetiti poco limpidi. A tutti i livelli.

Del resto, lavorare per un’azienda impegnata nell’healthcare significa, tecnicamente, avere un impiego come un altro. Business is business, e le cosiddette prassi diffuse, a meno di inchieste clamorose, raramente vengono alla luce: sono difficili da provare in assenza di intercettazioni, richieste, però, solo in presenza di sospetti gravi come quella di Milano. Nessuno, come abbiamo visto, troverà mai documenti che giustificano il ricorso a bustarelle o benefit: troppo banale.

Piuttosto, ci si imbatterà in carte deontologiche titolate con intestazioni alla moda come “corporate responsibility. In attesa che i magistrati compiano il proprio lavoro, abbiamo perciò provato a leggere tra le righe. “Noi crediamo che la nostra prima responsabilità sia verso i medici, gli infermieri e i pazienti, verso le madri, i padri e tutte le altre persone che usano i nostri prodotti e i nostri servizi” si legge nella carta di responsabilità di Johnson. I medici prima dei pazienti? Invertendo l’ordine degli addendi, la somma, a volte, cambia.

Antonio Piemontese
@apiemontese

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Epatite C: esposto allìAntitrust contro il caro farmaci.
salute

Epatite C, esposto all’Antitrust per il caro farmaci

Questo articolo è stato pubblicato su TiSOStengo.

Abuso di posizione dominante. Questa l’accusa mossa dall’associazione Altroconsumo all’azienda americana Gilead, produttrice di Sovaldi e Harvoni, i nuovi farmaci per la cura dell’epatite C che promettono di eradicare la malattia.
Il trattamento, attualmente, è estremamente costoso in Italia: dopo una lunga contrattazione, l’AIFA (l’Agenzia per il Farmaco, che agisce per conto del governo), ha spuntato un prezzo di circa 74.260 euro per un ciclo da 12 settimane di Sovaldi e di 82.520 euro per Harvoni. Cifre monstre, che gravano sui bilanci delle Regioni e le costringono a pagare il trattamento solo ai malati terminali. Gli altri? Devono curarsi a proprie spese, corrispondendo il prezzo della terapia, o aspettare che la situazione si aggravi. Una situazione paradossale che ha portato alla crescita di un turismo sanitario ormai consolidato verso l’India e i paesi, come l’Egitto, dove il prezzo del medicinale è drasticamente inferiore: si parla di un massimo di duemila euro a trattamento.

Dal gennaio 2014 (data del nulla osta a Sovaldi da parte dell’EMAl’Agenzia Europea dei Medicinali) al gennaio 2015 (quando fu autorizzata l’immissione in commercio del Viekirax, il primo concorrente prodotto dalla AbbVie) la multinazionale americana si sarebbe trovata, secondo l’esposto presentato da Altroconsumo, in posizione dominante e avrebbe approfittato di questo vantaggio per imporre un prezzo estremamente più alto di quello giustificato da un recupero dei costi sostenuti. Gilead, secondo il documento, applicherebbe, inoltre, sconti solo a posteriori, a fronte, cioè, dell’acquisto di determinati scaglioni di quantità: AIFA, per ottenere un risparmio, avrebbe quindi fatto pressioni sulle Regioni perché “spingessero” i medici a cominciare il trattamento sui pazienti affetti da epatite C con i prodotti dell’azienda, distorcendo la normale concorrenza.

Non solo. Le Regioni, dovendo anticipare il costo salatissimo delle terapie prima di conoscere quale scaglione sarebbe stato raggiunto – e quindi che rimborso avrebbero ricevuto da Gilead  – si sarebbero trovate, secondo l’associazione di consumatori, nell’impossibilità di programmare la spesa sanitaria per l’acquisto di altri farmaci. Una politica commerciale cinica, quella della compagnia statunitense, basata sul presupposto che, in Occidente, la disponibilità economica permette di sostenere spese enormi.

Niente a che fare con il recupero dei costi, o con un guadagno congruo: Gilead acquistò nel gennaio 2012 la Pharmasset, che aveva scoperto la molecola del Sofosbuvir alla base di Sovaldi e Harvoni, per una cifra record di 11,2 miliardi di dollari. Di fronte alle critiche, i vertici aziendali  si difesero sostenendo che, a dispetto delle apparenze, si trattava di “un affare”. Non si sbagliavano: i ricavi, fin da subito, furono pari a circa 20 milioni di dollari al giorno. Con un incasso di 15 miliardi, l’operazione era in attivo già alla fine del primo anno, mentre nel primo trimestre 2016 i ricavi complessivi avevano superato di ben tre volte il capitale investito.

Lo sviluppo del farmaco, però, costò molto meno a Pharmasset: secondo un’inchiesta voluta dal Senato americano, l’investimento condotto fra il 2008 e il 2011 fu di poco superiore ai 64 milioni di dollari. A conti fatti, il Sovaldi è una gigantesca macchina da soldi. Sulle spalle dei malati.

@apiemontese

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TiSOStengo: nasce la testata editoriale

L’editoriale di presentazione del magazine  tiSOStengo, un nuovo  progetto editoriale legato ai temi di salute e sanità. 

Il “sentito dire” è la prima fonte di informazioni per tutti: chi consultasse l’enciclopedia per dirimere ogni singolo dubbio rischierebbe di rendersi ridicolo. La vox populi è rapida, e, ammettiamolo, spesso non si discosta troppo dalla verità. L’importante è saper andare oltre le chiacchiere tra amici, e controllare quel che ci viene raccontato quando si tratta di argomenti rilevanti; e la salute ovviamente è tra questi.

Pochi giorni fa è nata la nostra testata editoriale. In realtà, come sapete, abbiamo cominciato le pubblicazioni da diversi mesi. Giorno dopo giorno, però, abbiamo visto questa pianta crescere, e, forti dell’apprezzamento che ci avete manifestato, ci siamo decisi a dare una veste istituzionale ai contenuti che produciamo.

Adesso la testata è registrata in tribunale. Ci siamo sentiti di compiere questo passo per due motivi. Il primo, semplicemente, è che la legge lo impone se, come nel nostro caso, le pubblicazioni da sporadiche diventano regolari. Il secondo è che ci teniamo a sottolineare che i nostri contenuti sono scritti con leggerezza per quanto riguarda lo stile, ma senza mai dimenticare la professionalità. Facciamo il nostro lavoro con scrupolo, precisione, cercando di evitare la banalità per fornire un’informazione utile e, perché no, stimolante.
Abbiamo deciso di creare una testata editoriale perché la Rete offre a chiunque la possibilità di amplificare notizie prive di fondamento, e non sempre un sito ben curato o un’applicazione ben fatta assicurano la qualità dei contenuti. Noi cerchiamo di mettere a disposizione la nostra esperienza per assicurarvi tutto questo.

Siamo una redazione giovane, ma ci siamo dati delle regole. Citare sempre le fonti, per esempio. Oppure comprare le foto: tutte le immagini che vedete sono regolarmente acquistate da professionisti, che ricevono una retribuzione per il proprio lavoro. Puntare sulla qualità e non sulla quantità: se non siamo sicuri di una cosa, semplicemente, non la scriviamo. E, ultimo ma non per importanza, ci siamo imposti di tutelare la lingua italiana, patrimonio nazionale che merita rispetto.

Esistono sicuramente redazioni più strutturate della nostra, giganti dell’editoria che hanno storia e tradizione da vendere. Noi, nel nostro piccolo, proviamo a difenderci. Proponiamo un modello di giornalismo alternativo e giovane, senza rinunciare alla serietà che la materia richiede.

Se facciamo bene il nostro lavoro sarete voi a giudicarlo. Di una cosa, però, siamo certi: preferiamo le critiche oneste alle lodi sperticate. Vogliamo creare un rapporto con chi ci legge, e saremo sempre pronti a rispondere e dare conto di quello che scriviamo. Continuate a seguirci, come avete fatto finora. L’avventura è appena cominciata.

Antonio Piermontese
@apiemontese

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salute

Verga, l’ospedale brianzolo che l’Europa ci invidia

Il pezzo qui sotto è stato pubblicato su tiSOStengo.

Quando Giovanni Verga, colpito al cuore dalla morte prematura della figlia, iniziò ad accarezzare il sogno di far vivere la piccola almeno in un’associazione, non avrebbe pensato di veder nascere il miglior ospedale per la cura delle leucemie pediatriche d’Italia, e forse d’Europa. Un centro dislocato su quattro piani, dove ogni dettaglio è curato pensando ai giovani ospiti e persino ai genitori, che assieme ai figli vivono l’esperienza della malattia e possono sentirsi a casa.

Ci sono voluti quattordici milioni di euro e l’aiuto di centinaia di familiari, volontari, associazioni e industrie del territorio per erigere quello che, più che un nosocomio, è un monumento all’Italia che sa darsi da fare. Un modello di collaborazione fra iniziativa privata (tanta) e sistema pubblico diventato caso di scuola. Per i risultati, non per le intenzioni.

Siamo a Monza, in Brianza, terra operosa, votata al lavoro e al sacrificio. Da sempre, il buen retiro della borghesia milanese. Qui i ricchi e i nobili venivano a trascorrere le vacanze lontano dal fracasso della città. Un lembo verde nella sconfinata pianura industrializzata che si distende fino a Varese, a Bergamo e a Brescia. Il comitato Maria Letizia Verga vede la luce a Milano nel 1979, ma bastano un paio d’anni perché la mancanza di spazio imponga di cercare una nuova sede; Monza ne ha.

La storia è quella di una ragazzina colpita da leucemia: le terapie non funzionano, e la piccola spira tra le braccia dei genitori. Il trauma smuove il padre. Per non lasciarsi annientare al dolore, Verga cominciò a raccogliere fondi per migliorare, un giorno, le condizioni dei bambini come la sua, che trascorrevano le giornate in reparti plumbei e anonime camerate da sei letti. Accanto a loro, genitori stremati che si addormentavano sulle sedie.

L’idea prende corpo. Parliamo di trentasette anni fa, ai tempi di leucemia si moriva quasi sempre. L’idea è buona, vale la pena di sostenerla. Il carisma di Verga, un “founder” molto diverso da quello tratteggiato nella recente pellicola, trova una valida sponda nella comunità locale. E così tra un evento di beneficenza e un banchetto in piazza, le donazioni cominciano ad arrivare.

Gli sforzi si moltiplicano, come fiori al principio di primavera. Sono passati undici anni dall’approdo in Brianza quando, nel 1993, nasce il day hospital, che consente di risparmiare ai piccoli pazienti lo stress dell’ospedalizzazione e ai genitori di dormire finalmente a casa propria. Una rivoluzione copernicana, che permette di mantenere abitudini e riferimenti in un’età delicata, e di tagliare i costi di gestione. Per chi viene da lontano, nel 1999 vede la luce il residence Maria Letizia Verga: una cascina completamente ristrutturata a spese del Comitato, dotata di 16 appartamenti, a cui le famiglie possono appoggiarsi per i lunghi periodi richiesti dalle cure. Nello stesso anno nasce anche il centro Trapianti Midollo Osseo, che oggi, da solo, effettua il 10% degli interventi eseguiti in Italia.

Il nuovo millennio si apre all’insegna della ricerca. Nel 2002 viene inaugurato un laboratorio all’avanguardia di Terapia Cellulare, che nel 2007 riceve l’autorizzazione dall’AIFA (l’Agenzia Italiana per il Farmaco) a produrre farmaci sperimentali.

Mancava ancora qualcosa, però. Bisogna attendere il 2013 perché prenda vita il progetto più ambizioso: la costruzione di un vero e proprio ospedale, autonomo rispetto al vicino San Gerardo, ma che potesse, al contempo, integrarsi con esso. Fino ad allora, i bambini leucemici erano curati all’undicesimo piano della struttura monzese. Spesso le grandi idee nascono da un imprevisto; in questo caso la scintilla scocca quando il personale medico scopre che i lavori di ristrutturazione del nosocomio sarebbero durati almeno sei anni: troppi per i piccoli pazienti, senza contare il rischio altissimo di contaminazione con le polveri.

Verga capisce che è l’occasione per provarci. In pochi mesi, mobilita le risorse economiche e il network relazionale costruiti in 30 anni di attività, e comincia a dare forma al progetto che vale una vita. Si avvale della consulenza “qualificata” dei piccoli pazienti – che hanno espresso le loro richieste: vogliono un ambiente colorato, accogliente, dove trascorrere una parte importante della loro vita in serenità e non essere semplicemente curati – e di quella dei genitori, ma tiene conto anche dell’esperienza del personale sanitario.

Gli architetti disegnano un complesso di quattro piani, ispirato ai criteri della cromoterapia, dotato di spazi per i bambini piccoli e di un angolo per i teenagers, di stanze singole e di un day hospital dove poter effettuare i trattamenti. Gli infermieri sono collocati al centro della stanza, con un bancone circolare che offre una panoramica completa di quanto accade. Una struttura di respiro europeo, più che italiano. Il San Gerardo cede il terreno, i soldi arrivano da associazioni, imprese, e anche da privati: comincia la corsa per mettere insieme il necessario ad accendere un mutuo e avviare i lavori.

Ogni stanza, ogni ambiente, è “preso in carico” da un soggetto, dal supermercato di zona alla grande realtà della distribuzione mondiale. Al pianterreno i corridoi colorati, i locali e le stanze per il relax, richiamano un immaginario asilo. Al piano interrato, invece, moderni laboratori di ricerca e diagnostica studiano nuove terapie. La malasanità è un ricordo lontano.

La ricetta, del resto, era collaudata. Passione contro svogliatezza. Precisione contro approssimazione. Trasparenza contro spreco. A garantire per tutti, la mano pesante di Verga, che motiva il personale e lo sprona con lo spirito di un guerriero. Bastano un sorriso e una pacca sulla spalla per ricominciare più forte di prima.

Ma libri economici e partite doppie non sono orchi malvagi, esistono davvero. E i conti vanno pagati, anche quelli di un ospedale pediatrico. Per mandare avanti il Centro (nato da iniziativa privata, ma pubblico e accessibile a tutti tramite il Sistema Sanitario Nazionale) è necessario mantenere costante il flusso di cassa. Non sempre facile, anche perché la raccolta di denaro si rivolge soprattutto al territorio monzese e milanese. “Le radici del nostro finanziamento – confermano i responsabili del fundraising – al momento sono più che altro locali”: e se è vero che la comunità ha sempre risposto all’appello, la ricerca e la cura, fatte a questi livelli, costano care. Ma sono le stesse che in tre decenni hanno consentito di elevare il tasso di sopravvivenza dei bambini dal 30% all’80% . Nasce una struttura dedicata alla raccolta fondi, che si occupa di tutto. Il tessuto economico risponde; ma chi vuole dare una mano, può farlo anche donando il proprio tempo: tra le attività che si svolgono nel centro, non è difficile trovare il modo di rendersi utili. Dall’intrattenimento all’aiuto nei compiti, c’è sempre qualcosa da fare.

Oggi il sogno si è realizzato. Un modello replicabile? Forse. Sicuramente, serve un territorio ricco e socialmente impegnato, condizione che in Brianza, senza dubbio, ricorre. Serve un leader carismatico capace di guidare il progetto e garantire sull’impiego dei fondi; e serve la cooperazione degli enti locali e delle aziende ospedaliere, che, se non finanziano, devono quantomeno spianare la strada dal punto di vista burocratico. In un periodo in cui la sanità pubblica sta cedendo il passo a quella privata (per chi può permettersela), il centro Maria Letizia Verga di Monza propone un modello misto, una terza via dal sapore nordico. L’impressione è che l’ingrediente fondamentale per oliare i meccanismi sia la fiducia. Fiducia nel futuro e nella possibilità di realizzarlo, fiducia che quanto donato non sarà sprecato, fiducia nei medici. Probabilmente, più dei soldi, è questo l’ingrediente raro.

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cinema, politica, salute

Sicko, o della fortuna di vivere in Europa

L’articolo qui sotto è stato pubblicato in origine su TiSOStengo, ed è disponibile a questo link. Buona lettura. 

Michael Moore è sempre stato un regista controcorrente. Americano fino al midollo, ha fatto della critica al suo paese il fil rouge di tutti i suoi film. Da “Bowling a Columbine” a “Fahrenheit 9/11”, passando per “Capitalism: a love story”, fino a “Where to invade next?” ha affrontato dietro alla macchina da presa tutti i temi più importanti della politica e della società a stelle e strisce. Nel 2007 Moore uscì con un nuovo lavoro, dedicato alla sanità: si chiamava Sicko, ed era destinato, come tutti gli altri, a far riflettere.

Il documentario – le opere del regista di Flint appartengono a questo genere – si apre con la storia di un falegname con due dite amputate da una sega circolare: arrivato al pronto soccorso, e verificato il tipo di copertura assicurativa di cui disponeva, i medici gli chiedono di scegliere quale delle due riattaccare. “Ho scelto l’anulare, per tenerci l’anello del mio matrimonio” confesserà lui; la verità è che costava molto meno del medio.

Benvenuti negli USA, dove le assicurazioni sanitarie dettano legge, e si può essere buttati fuori da un nosocomio (patient dumping) se non si dimostra di essere in grado di pagare, lasciati in mezzo a una strada con il camicione da ricovero ancora addosso.

Quando la salute è un business, le compagnie sanitarie si appellano a ogni cavillo pur di non pagare, fino a rifiutare esami fondamentali. La figura del supervisore medico, retribuito in base a quanto riesce a risparmiare rifiutando visite e prestazioni, ha letteralmente potere di vita e di morte sui pazienti, cercando nell’anamnesi le ragioni per rifiutare la copertura: ogni ricovero deve essere autorizzato, e si dà il caso che, talvolta, qualcuno nell’attesa prenda il volo verso l’ aldilà.

Del resto, negli USA il modello europeo di sanità pubblica viene percepito come “socialista”, in omaggio alla nota allergia americana a ogni sfumatura di rosso che non sia quella della bandiera. Eppure, a pochi passi dalla frontiera, in Canada, curarsi è gratis: ma lo è anche in Francia, in UK, a Cuba, e da noi.

Ben girato, con una colonna sonora all’altezza, Moore con “Sicko” ha il merito di portare fuori dai confini nazionali una situazione che difficilmente può essere immaginata. Come al solito, calca un po’ la mano con la retorica, fino a tratteggiare un quadro di Cuba come paradiso terrestre (e infatti pare che il film sia stato vietato nell’isola: la gente avrebbe potuto agitarsi), ma è un difetto che gli si perdona volentieri.

“Sicko” va visto per ricordarci che, nonostante sia migliorabile nella gestione degli sprechi, nella formazione e selezione del personale e nello spadroneggiare della politica, il nostro modello sociale e sanitario è ancora di gran lunga superiore a quello a stelle e strisce. La salute, in Europa, è garantita a tutti, non solo a chi è ricco. Vale la pena di rifletterci ogni tanto.

(L’articolo originale è stato pubblicato su tiSOStengo del 12 ottobre 2016)

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economia, salute

Epatite C, la UE e lo strapotere delle lobby

L’articolo che segue è stato pubblicato su TiSOStengo a questo link

Un nuovo farmaco contro l’epatite C promette l’eradicazione del virus in una percentuale attorno al 90% dei casi. Certo, non significa guarigione per tutti (se c’è cirrosi conclamata, il danno strutturale non è riparabile): ma, se non altro, si impedisce l’evoluzione della malattia. C’è, però, un problema: il farmaco costa tanto, troppo.

L’anno scorso sono stati spesi, in Italia, 1.7 mld di euro per curare 31.069 ammalati (fonte: elaborazione su dati AIFA). Il trattamento per il virus nel nostro paese costa 55.000 euro a paziente.

QUESTIONE DI PREZZO – Si ripropone la questione del prezzo dei medicinali. La Gilead, azienda californiana che produce il preparato in questione (Sovaldi), è infatti in grado di contrattare con le varie agenzie nazionali del farmaco condizioni di vendita più che favorevoli.

Funziona così: dal punto di vista dell’azienda che produce un bene necessario (ad esempio, il farmaco per l’epatite C, ma anche i pannoloni per gli incontinenti, per restare in ambito sanitario), un mercato frammentato è quanto di più desiderabile. Se al tavolo delle contrattazioni si siedono soggetti relativamente piccoli (come le agenzie del farmaco dei singoli paesi), la negoziazione sarà a senso unico: l’ideale per un’azienda farmaceutica che mira al massimo profitto (ricordiamo che, in fondo, si tratta di business, e l’etica c’entra poco). Le trattative, tra l’altro, sono per lo più segrete.

Ma cosa accadrebbe se la contrattazione fosse concordata a livello sovranazionale, diciamo europeo?
Probabilmente, quello a cui si assiste per un altro bene “di prima necessità” , i già citati pannoloni: prezzi più bassi se lo Stato ne acquista centralmente grandi quantità, distribuendole tramite il sistema sanitario. Nella Ue esiste senz’altro la possibilità di centralizzare le decisioni di acquisto. Basta trovare l’accordo.

IL PROBLEMA DI STIMOLARE LA RICERCA – Tutto risolto, quindi? Non proprio. Anche Big Pharma ha le sue buone ragioni (ne avevamo parlato qui): prezzi troppo bassi significano perdere lo stimolo per la ricerca e, quindi, ogni incentivo allo sviluppo di nuove terapie. Cerchiamo di spiegarci.

In pratica, per come è strutturato il settore, nessuno investe in ricerca su farmaci che, nel lungo periodo, non hanno il potenziale di ripianare i costi. E dato che, fra le tante molecole testate, sono poche quelle che superano le severe fasi disperimentazione, è solo ed esclusivamente da quelle capaci di arrivare in commercio che le aziende dipendono per tenere in piedi i bilanci e fare utili. Le altre rappresentano perdite secche. Un esempio evidente del meccanismo sono i farmaci orfani (leggi qui), quelli che curano malattie poco diffuse: fare ricerca in questo campo non conviene a nessuno perché manca un mercato sufficientemente ampio. Con tutto quello che ne consegue nei termini di un diritto alla salute che cessa di essere universale.

TRASPARENZA ZERO – Ci si addentra in un terreno estremamente scivoloso che dall’economia declina verso la politica. Se le aziende ragionano in base ai bilanci e alle logiche di mercato (e non potrebbe essere altrimenti), spetta ai governi intervenire con correttivi utili ad aggiustare i prezzi, badando però a non azzerare lo stimolo che porta ad assumersi il rischio di impresa.

In concreto, sono due le strade che gli Stati impiegano per incentivare le aziende a investire: ricorrere ad aiuti diretti oppure fornire agevolazioni indirette come, ad esempio, sgravi fiscali (probabilmente un’opzione migliore).

Ma c’è una terza arma, probabilmente ancora più efficace: la trasparenza, e una regolamentazione vera delle lobby. Che, a Bruxelles, sono da sempre un’istituzione parallela. Stazionano nei palazzi del potere, preparando comodi riassunti (ovviamente interessati) sulle questioni del giorno, ad uso di parlamentari che di farmacologia non masticano più di quanto si intendano di fiscalità internazionale o dimensione delle olive.

Se poi ai bignami si accompagna la “riconoscenza” dell’industria, e Big Pharma sa essere munifica, si comprende come mai, a tutti i livelli, sulle lobby si preferisca non decidere. Ma quanto converrebbe portare tutto alla luce del sole, come qualche forza politica (ad esempio i Cinque Stelle) chiede a ragione?

Guglielmo Pepe su Repubblica ricorda che per trattare tutti i malati – gravi e meno gravi – di epatite C nel nostro paese servirebbero 8 miliardi di euro l’anno, pari circa alla metà di una finanziaria di media portata. Una cifra da spendere da qui al 2025, cui va aggiunto il resto della spesa farmaceutica. Certo, si tratta di un investimento. Ma sedersi al tavolo delle contrattazioni nella maniera migliore per spuntare un prezzo equo è quanto farebbe ogni “buon padre di famiglia” recandosi al mercato. E quindi, anche ciò che dovrebbe fare l’Europa

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