cronaca, milano, politica

Ora chi era in piazza a Milano deve tornarci

Non è che l’inizio. I fatti di Milano, con gli scontri e l’assalto alla Stazione centrale, hanno oscurato buona parte delle proteste pacifiche per Gaza di lunedì 22 settembre.  La stampa, anche internazionale, ha fatto fatica a distribuire i pesi. Anche a distanza di ore. Ricevo diverse newsletter, e ho particolarmente apprezzato quelle (un nome su tutti: Good morning Italia) che hanno titolato sul buono della piazza di ieri: grande, partecipata, sacrificata (non solo per il meteo, ma anche perché trattavasi di sciopero, e chi c’era rinunciava alla giornata di paga). La foto qui sopra è stata scattata nei luoghi della guerriglia, pochi minuti prima: non ci sono black block, perché la manifestazione è stata pacifica, e molto meno aggressiva di tante altre di questi anni, negli slogan e nell’atteggiamento.

Non è che l’inizio, perché ieri tanti sono tornati a casa e si  sono sentiti dire: “Visto, te l’avevo detto, ma lascia stare, chi te lo fa fare”. E poi il commento peggiore, quello buono per tutte le stagioni: “Non serve a niente”.

La realtà è diversa. Prendere le strade in maniera pacifica serve, eccome. La protesta di ieri sarebbe finita sui media di tutto il mondo anche se non ci fossero stati gli scontri: ci sarebbe solo finita in maniera migliore. Guardiamo i portuali di Genova, che da mesi si danno da fare per impedire il transito di merci per Israele e carichi di armi.

Per bloccare un paese non serve distruggere una città: basta incrociare le braccia. Basta sedersi per terra, come insegnano da anni gli attivisti del clima, memori della lezione di chi ha protestato prima di loro.

Disaccoppiamo la violenza dalla visibilità: le cose, anche sui media, non funzionano così. Anzi. Si passa per delinquenti, si distrugge in poche ore quanto seminato per anni. E bisogna saperlo.

Ho letto a sinistra analisi che rimarcavano come la polizia abbia manganellato. Inutile girarci intorno: ci sono casi in cui il ricorso alle maniere forti è giustificato. E chi decide di vandalizzare una città, se non è un, passatemi il termine, cagasotto, deve accettare il rischio di prenderle. Questi pusinllanimi di quart’ordine, aggressivi a parole e nei fatti, e poi pronti ad andare a piangere a favor di telecamera mostrando le ferite fanno il gioco di chi non vuole mollare Nethanyahu, in questo caso, come il governo italiano; e, più in generale, di chi si oppone al cambiamento.

Non è che l’inizio perché chi c’era in piazza deve tornarci, senza lasciarsi scoraggiare dalla cattiva pubblicità. Bisogna isolare i violenti, diluire il ricordo di quanto accaduto con dieci, cento nuove piazze e iniziative, colorate e pacifiche. Con azioni di disobbedienza civile, scioperi bianchi, boicottaggi: c’è un campionario ricco cui attingere.

Le infatuazioni durano un battito di ciglia, e chi distrugge non ama una causa piuttosto che un’altra: protesta a prescindere. Per disagio, narcisismo, vanagloria. A volte anche perché prezzolato. E’ probabile che ieri vi fossero dei provocatori, non molti, seguiti a ruota da una manica di imbecilli privi di qualsiasi capacità di analisi, e a cui non pareva vero di avere un lasciapassare.

La parte buona della piazza di ieri deve tornare sulle strade, e farlo presto. Il momento è cruciale: c’è l’anniversario del 7 ottobre, l’assalto finale a Gaza City. C’è da immaginare il futuro della Striscia, senza America e senza Israele. I tempi della diplomazia sono lunghi, ma la soluzione a due Stati, se non diventa un alibi per l’inazione, è il primo passo, e va sostenuta, ora che è vicina. Diluiamo la violenza dei professionisti della protesta con la continuità della passione civile dei molti. E continuiamo a sacrificarci per combattere questo genocidio orrendo. Noi, che nel mondo proviamo ancora a cercare la bellezza, nonostante i nostri problemi, le nostre ansie, le nostre difficoltà. Nonostante questi tempi grami.

Standard
milano

L’inchiesta urbanistica e il ruolo dei centri sociali

Qualcuno potrebbe pensare che la scarcerazione di Manfredi Catella e degli altri soggetti coinvolti nell’inchiesta sull’urbanistica milanese decisa dal tribunale del Riesame (contrariamente alla richiesta della procura) possa significare che finirà tutto in una bolla di sapone. Non è così. Si dispone la carcerazione preventiva se c’è pericolo di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. Quando al primo, pare sia possibile escluderlo; il danno di immagine sarebbe troppo grande per Catella, che è l’unico che avrebbe i mezzi per vivere all’estero. Per gli altri, fuggire semplicemente non è un’opzione praticabile. Reiterazione del reato? Da escludere. Pare siano ormai tutti lontani dagli incarichi che ricoprivano, almeno da quelli che scottano. Quanto all’inquinamento delle prove, evidentemente i giudici hanno ritenuto che i pubblici ministeri abbiano acquisito elementi sufficienti a dimostrare le accuse. Ci sono centinaia di pagine di chat private agli atti. E il collegamento con quanto effettivamente avvenuto (delibere, permessi, costruzioni) è materiale pubblico.

Quindi tornano a piede libero, ovviamente da osservati speciali. E già qualche giornale ha ripreso a scrivere del ras dell’edilizia milanese con toni compiacenti, suggerendo che quindici giorni ai domiciliari siano un mero incidente di percorso, roba che può succedere. Non è così.

Giova ricordare che nei tribunali non si fa giustizia; si applica la legge, peraltro recentemente depotenziata. Se nessuno subirà condanne penali – ed è tutto da vedere -, ci saranno ancora le cause civili. Ma, soprattutto, va sottolineato un fatto: l’inchiesta della procura ha scritto la parola fine su una stagione che pareva destinata a durare per sempre, tanto era ben oliata la macchina del marketing. E ci vorranno almeno quindici anni – speriamo – perché qualcuno ci riprovi. Costruttori, ex assessori e architetti coinvolti se ne dovranno fare una ragione: indietro non si torna.

***

E qui veniamo ai giorni nostri.

Giovedì 21 agosto la polizia ha sgomberato il centro sociale Leoncavallo, un pezzo di storia milanese, in un quartiere – quello di Greco – bigio e preda dei palazzinari.

Il Leoncavallo negli anni scorsi è stato l’unica realtà a protestare – assieme a tutta la galassia antagonista – contro il caro casa e la speculazione edilizia meneghine. Pochi i politici, e non certo il Pd, che governa Milano da un decennio con Beppe Sala. Nonostante le lacrime di coccodrillo di queste settimane.

Milano non ha mai (sottolineo: mai) fatto una manifestazione contro quanto accadeva in città. Si è limitata a non presentarsi alle urne, per non esporsi, e perché comunque l’aumento dei valori immobiliari stava bene a molti. Salvo poi indignarsi quando il lavoro sporco l’ha fatto qualcun altro.

Ma il merito di scoperchiare la pentola va solo alla procura.

Ne risulta, in maniera evidente, che il centro sociale è stato in grado di leggere la realtà meglio di tanti, inclusi quelli che pontificano a posteriori. Abbiamo già scritto che ci sono stati degli eccessi, negli anni; ma l’esperienza del Leoncavallo e il suo passato (e presente) di luogo di elaborazione politica lontano dal mainstream meritano, anche solo per questo, rispetto e tutela. E, di grazia, una sede.

Standard
cronaca, milano, politica

Calati iuncu

Non è come sembra, dice il marito trovato a letto con l’amante. Innumerevoli film della commedia sexy all’italiana su questa litania hanno fatto fortuna. Ma, per chi amasse riferimenti più colti, torna ancora una volta utile il milanese Alessandro Manzoni, con il dottor Azzeccagarbugli dei Promessi Sposi (duecento anni fa, quattrocento nella finzione): uno che annegava nel latinorum, un intruglio di parole con l’obiettivo di non far capire nulla ai malcapitati clienti e ai giudici. Spieghiamo.

In sostanza, l’immobiliarista Manfredi Catella e gli altri indagati nell’inchiesta sulla suburra dell’urbanistica meneghina si difendono (chi con memorie scritte, chi nel corso di audizione ) disseminando dubbi, facendo distinguo riguardo alle chat messe agli atti. Non è come sembra, sostengono tutti assieme. Così, in questa narrazione, le parole intercettate dai magistrati diventano poca cosa, chiacchiere informali tra conoscenti.
Ma in altri ambiti, distanti dall’urbanistica lombarda, quando si discute di questioni scomode si prendono certe precauzioni: si parla solo in presenza e ,quando lo si fa, non manca chi lascia il cellulare nell’altra stanza. Essere lassi al riguardo tradisce l’idea di sentirsi all’interno di una bolla dove nulla di male può accadere. Perché Roma ha assegnato a Milano il ruolo di locomotiva del pil italiano, un mandato ampio, tanto più dopo la crisi di inizio millennio: e il lavoro sporco qualcuno deve pur farlo. Tanto poi le cose si sistemano.

Nei tribunali non si fa giustizia: si applica la legge. Ed è per questo che le norme a Milano hanno cercato di scriverle da sé , arrivando a far votare al Parlamento un salvacondotto fortunatamente bloccato.

Con queste premesse, vedremo cosa dirà l’esame dei magistrati. Quello politico, però, è altra cosa. Si può evitare la galera, che peraltro è da poveracci: ma non il giudizio della Storia. E quello difficilmente sarà clemente. Una generazione di architetti, amministratori e faccendieri merita di essere allontanata dalla cosa pubblica: ed è strano che debba intervenire la magistratura per ricordarcelo. È strano che la gente abbia dato forma ed espressione alla propria rabbia solo dopo le inchieste della procura, come se prima fosse stata avviluppata dalle narrazioni marchettare all’americana, per cui “vivi in una città che offre tutto quanto si possa desiderare”, e se non ce la fai a tenere il passo “è solo perché non ti sei impegnato abbastanza”. È strano che a protestare contro l’andazzo del capoluogo lombardo fosse solo una ristretta cerchia di – chiamiamoli così – intellettuali, mentre gli altri, il popolo, si rifugiavano nel non voto, segno di una sfiducia ormai cronica verso il sistema. Come gli adolescenti che si chiudono in camera perché non si sentono compresi dagli adulti, e non hanno speranza di esserlo. L’adolescenza poi passa, di solito, e ci si prende la responsabilità della propria vita: è quello che c’è da augurarsi anche per Milano. A volte serve un supporto esterno: uno psicologo , un insegnante, un prete, ed è questo il ruolo della stampa. Ora che la questione è posta, non deve farsi irretire ancora una volta dai quattrini dei costruttori (Catella ha visto aperture, interviste e titoli accomodanti su troppi giornalini e giornaloni durante il suo regno). Perché il nostro non è e non sarà mai un popolo equilibrato; saremo sempre tentati parimenti dall’esaltazione e dalla forca; e in questo scenario, navigare fuori dalle acque tempestose non è facile. Tradotto: non facciamola finire in una bolla di sapone. Il potere di condizionamento di certi soggetti è suadente. E fra poco, passata la buriana e caduta qualche testa, ricominceranno a comprarsi le copertine, secondo i dettami della “comunicazione di crisi”, che ricalca il detto siciliano: calati juncu, che passa la china (piegati giunco, intanto che la tempesta passa ).

Standard
cronaca

Perché è sbagliato pubblicare i nomi degli stupratori di Gisele Policot

Sono tanti gli organi di informazione internazionali (dalla BBC al New York Times al Guardian, compresi alcuni media italiani) ad aver pubblicato la lista e le biografie dei cinquanta uomini (o solo di alcuni) condannati per aver abusato di Gisele Pelicot. La donna francese, ha riconosciuto in primo grado una giuria di Avignone, sarebbe stata drogata e abusata inconsapevolemente per anni con la regia del marito Dominique.

Sarebbe stato proprio il consorte a reclutare gli uomini sul web. Secondo la corte, gli uomini – camionisti, dipendenti informatici, un giornalista, carpentieri – sarebbero stati consapevoli dello stato di incoscienza della donna. Persone che avresti potuto avere come vicini di casa, commentava la stampa transalpina.

Una vicenda che ha scosso il mondo, e non solo la Francia. La corte ha proceduto a effettuare i rilievi e ha preso una decisione meditata per il reato commesso da Dominique Pelicot e dagli altri cinquanta uomini. Il primo ha preso vent’anni, massimo della pena, gli altri condanne variabili. Ci sono dieci giorni per fare appello.

Eppure, se l’indignanzione per il reato è comprensibile, non capisco, e non giustifico, l’esposizione al pubblico ludibrio della lista dei nomi.

Tra le torture medievali c’era la gogna. Poi, fortunatamente, in Europa abbiamo avuto l’Illuminismo. Quindi, Cesare Beccaria. Quindi, la civiltà giuridica, che tanto ancora stenta se guardiamo alle nostre carceri.

Ecco: in questo contesto che ha superato la barbarie, le sentenze e le pene le comminano i tribunali.

Non le persone in piazza, men che meno i giornalisti, categoria che ha ben poco di cui vantarsi. E verso cui, mediamente, non nutro particolare stima per la supponenza e l’arroganza che ne caratterizzano buona parte.

Scrivere su internet i nomi dei condannati per reati sessuali – notoriamente puniti anche dal codice non scritto dei detenuti – è un orrore civile.

Sono pubblici, si dirà. Ma che si vadano a cercare alla fonte, obietto. E il diritto all’oblio? Il fatto che queste persone resteranno marchiate a vita, in spregio alla funzione rieducativa della pena? La legge del taglione, la vendetta sono concetti barbari, che meglio sarebbe restassero confinati nel passato.

E invece mi pare che la nostra civiltà sia sempre più plasmata dalla pubblica piazza dei social network e dei talent show, regno dei leoni da tastiera e dei polemisti di professione. Manca la calma, manca la riflessione. Manca l’autocritica. Che porta alla consapevolezza che si può sbagliare, si deve per questo pagare, e che poi, si può, si deve tornare alla vita. Perché lo diceva qualcuno un paio di millenni fa: chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Standard
cronaca

Vent’anni senza Antonio Currà, vent’anni senza Toto

Vent’anni fa, in una sera d’estate come tante, un ragazzo italiano che si stava affacciando alla vita veniva accoltellato a morte a Copenaghen. La sua storia rimbalzò immediatamente sui telegiornali nazionali. Mentre il figlio ancora agonizzava, il padre, con forza d’animo ammirevole, chiese in lacrime di non colpevolizzare indiscriminatamente gli immigrati: gli assassini, infatti, erano d’origine turca, cresciuti nel ghetto di Norrebro.

Erano gli anni a ridosso dell’ 11 settembre, della rabbia e dell’orgoglio, dello scontro di civiltà. Quello del padre di Currà fu un messaggio di pace nel momento più difficile.

Quel ragazzo, Antonio Currà, lo conoscevo bene. Dopo la sua storia, il governo danese emanò una legge che ancora oggi vieta di girare per strada con addosso coltelli e armi da taglio. Non solo: la vicenda ruppe la narrazione di un nord Europa perfetto e immune dalle problematiche dell’integrazione che cominciavano ad affacciarsi sul resto del continente, almeno la parte che non aveva avuto esperienze coloniali.

C’è stato un processo, delle condanne. Gli assassini (minorenni) sono poi tornati in Turchia, dove pare uno abbia ucciso a propria volta l’altro.

Quella notte a Copenhagen mi ha sempre portato alla mente i versi di De André, nel Testamento di Tito: “[…] con un coltello piantato nel fianco/gridai la mia pena e il suo nome/ma forse era stanco, forse troppo occupato/e non ascoltò il mio dolore/ ma forse era stanco forse troppo lontano, davvero lo nominai invano“.

Ieri la sorella Rossana ha scelto di condividere il ricordo di Antonio in pubblico e di celebrarlo con un concorso di poesia per adolescenti, con l’aiuto dei comuni di Monza e Villasanta. Rivolto agli studenti delle scuole superiori, si tratterà di scrivere testi rap, musica amata dal giovane brianzolo. Tema, il viaggio; in palio, un biglietto interrail, come quello che aveva in tasca lui. E così una storia come quella di Toto, seppur tragica, vent’anni dopo potrà finalmente diventare l’occasione per fare germogliare un seme nuovo.

[nella foto, un testo rap scritto da Antonio e uno degli ultimi ritratti]

Standard
cronaca, esteri, guerra

Una notte a Lodz, Polonia, tra paura della guerra e voglia di vivere

Una bandiera ucraina, come un lungo serpente da oltre cento metri, sfila per Piotrkovska, la strada pedonale più lunga d’Europa. Siamo a Lodz, terza città della Polonia. I quattro chilometri dell’ampia arteria tagliano in due l’abitato; ai tempi del comunismo, segnavano lo spartiacque tra il Vecchio Mondo, con la mesta sede del partito, e il Nuovo, con le prime luci al neon. Oggi sono il cuore di una città postindustriale che si sta lasciando alle spalle il passato e non ha niente da invidiare a quelle europee. Stessi negozi, stessi bar alla moda, stesse pettinature.

Il corteo si allunga sotto la neve. Sfilano polacchi e tanti ucraini (nel Paese sono due milioni). Per le strade chiedono pace, e una no fly zone. Qualcuno chiede cibo e indumenti; qualcuno, senza troppi giri di parole, raccoglie fondi per l’esercito del presidente Zelensky.

Poco più in là, i giovani locali escono agghindati per il weekend. Capelli impomatati, trucchi, scollature, gli approcci impacciati dei ventenni. Sorprende il contrasto. A quattrocento chilometri fischiano le bombe, c’è la guerra, quella vera; qui si prova a vivere. Basta una frontiera, per segnare, ancora una volta, il confine tra il Vecchio e il Nuovo Mondo: di là la morte, di qui la vita. Ma anche questa è normalità. C’è bisogno di non pensare.

Siamo andati a letto con il miraggio di un cessate il fuoco, ci svegliamo con la notizia dell’attacco russo a una centrale nucleare, finita in fiamme. Pericolo radiazioni. Le farmacie hanno già esaurito le pastiglie di iodio. “Sono tutte nell’est, anche i fornitori hanno terminato le scorte. Provi a ordinarle online” risponde, costernato, il dottore al bancone. Segno che la paura si è fatta largo da giorni, per non dire settimane. Da queste parti, Chernobyl è ancora un ricordo vivido. E dei russi non si fidano. “Sono matti”, dice una volontaria.

Camere sospese

A Varsavia, l’ottanta per cento delle camere d’albergo è occupato: a turisti e uomini d’affari si è sommata la frazione di rifugiati che può permettersi queste sistemazioni. La città accoglie i profughi con un abbraccio caldo, per il momento; si organizzano servizi di telemedicina gratuiti in lingua, i cinema proiettano film per bambini in ucraino, si distribuiscono schede sim e caricatori per cellulari, per consentire a chi arriva di tenersi in contatto con i propri cari.

Negli hotel della capitale, al caldo, non è raro vedere macchine di grossa cilindrata con la targa gialla e blu, borsette griffate, valigie curate.

Sono i ricchi in fuga dal conflitto.

Ma, ammassati alla stazione centrale e in quella ovest, ci sono gli altri, i disperati, materassi estemporanei gettati a terra e buste della spesa. Senza una mascherina, con il rischio che uno starnuto si trasformi nell’ennesima emergenza sanitaria.

Si dice che, soprattutto alla frontiera, siano parecchie le camere pagate da clienti che poi non si sono presentati, “sospese”, come i caffè a Napoli.

E mentre in Polonia è atteso un milione di migranti, Matteo Salvini, il leader sovranista amico di Putin, noto alle cronache internazionali per i respingimenti in mare, annuncia che lunedì verrà al confine. Magari a favore di telecamere, per postare un selfie con una felpa ad hoc, come quelle con la scritta “Berghem”. Qualcuno, per favore, gli dica che non è un videogioco.

Standard
coronavirus, cronaca, milano

Milano, cronache dal fronte / 6

Accetta di raccontarmi la sua storia, ma prima mi dice di aspettare. Tira fuori un cracker e lo lancia ai piccioni di piazza Duomo. Gli uccelli, abituati ai chicchi di mais gettati dai turisti, si avventano tutti assieme sulle poche briciole da spartirsi.

L’immagine funziona. Vagano per le strade del centro, raccogliendo rifiuti dai bidoni della spazzatura, bevendo birra da lattine lasciate da chissà chi. Oppure restano seduti, aspettando offerte che non arriveranno. Sono i senzatetto di Milano, gli invisibili di una città che correva e, tutto sommato, aiutava.

Wilmer e sua moglie abitano qui, nel salotto buono della città, da quattro anni (guarda il video). Lei è disabile psichica al cento per cento, lui si è venduto il cellulare l’altro giorno per sfamarsi.

L’emergenza Covid è anche la loro, perché sono rimaste le briciole. Di solito ci pensano i volontari delle tante organizzazioni. Ma in questi giorni, mi spiega, l’attività di supporto si è ridotta. Probabilmente, a causa dei servizi attivati per distribuire pasti e medicinali a domicilio. Restare a casa, ma una casa non ce l’hanno. Immagino che qualcuno commenterà: cazzi loro. Resto dell’idea che sono anche cazzi nostri.

 



Che questa crisi abbia anche un risvolto sociale lo ha sottolineato ieri Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana.

“Esiste già un secondo fronte: accanto a quello sanitario ce n’è uno sociale. C’è anche chi ha già visto peggiorare la propria condizione economica già al limite della sussistenza – ha spiegato all’agenzia SIR – Ci sono colf e badanti, assunte in nero, che hanno perso i loro clienti e ci chiedono un aiuto maggiore”.

“Dobbiamo iniziare a prepararci sin da ora ad affrontare la crisi sociale che sta esplodendo dentro questa emergenza sanitaria – ha ripreso Gualzetti – Già adesso ci sono categorie più colpite: dai senzatetto a chi va avanti con lavori saltuari. Ma presto arriveranno ai nostri centri di ascolto tutte quelle persone che non potranno usufruire delle misure di protezione che il governo si appresta a mettere in campo, dalla cassa integrazione in deroga ai congedi familiari. Saranno loro a pagare il costo sociale più salato a questa crisi. Anche se fino ad ora se ne parla ancora poco”.

Ed è vero, se ne parla poco. Chi lavora nel silenzio sono gli avvoltoi, non solo quelli delle farmacie senza scrupoli. Dai “compro oro” che hanno riempito la città di pubblicità a chi rastrella case sul mercato immobiliare, che vive un brusco stop delle compravendite in quello che era diventato il paese dei balocchi. Il Movimento Cinque Stelle proponeva (sensatamente) di fermare le aste giudiziarie perché oggi, ad essere interessati agli acquisti, sono solo gli speculatori.

A Milano in centro non c’è nessuno o quasi per strada.
Il problema sono le periferie, gli anfratti. Viale Monza è deserto, ma basta infilarsi nelle stradine laterali e lo scenario cambia. Lungo la Martesana tra runners, passeggiate col cane, quattro passi con l’amica, il bimbo che deve uscire e i venti gradi primaverili oggi sembrava domenica pomeriggio. Pare che anche sul Monte Stella ci fosse il pienone.

Ci si è messa anche ATM, che ha improvvidamente ridotto le corse: risultato, sui primi treni del mattino, quelli dei pendolari, un affollamento da ora di punta.

Sta entrando in gioco il nemico più pericoloso. La frustrazione. Per ora Milano tiene, ma siamo all’inizio. È probabile che il tre aprile le misure siano prorogate. Oggi in città i casi sono 1.091, 127 in più di ieri. Il problema è che nelle statistiche finiscono solo i positivi sintomatici. Ma in casa c’è molta gente che il virus ce l’ha e non è conteggiata.

Nelle piazze si raccolgono tante persone, passatemi il termine, scazzate. Sole. Senza prospettive. La città sta diventando una grande galera. E la cosa peggiore che può capitare in carcere è una rivolta dei detenuti.

Standard
coronavirus, cronaca, milano

Milano, cronache dal fronte / 5

C’è una mamma incinta al quinto mese ricoverata con sospetto Covid, e un marito che fa avanti e indietro dall’ospedale con un figlio di tre anni a casa. Gli servono delle mascherine per tutelarsi, finalmente le trova. Questo qui sotto è lo scontrino. Duecentoquaranta euro.

La foto mi è arrivata da un’amica che lavora nel settore sanitario, e conosce di persona l’acquirente. Siamo in centro a Milano, l’indirizzo l’ho cancellato perché non ho (volutamente) verificato di persona con la farmacia. Non ho tempo e voglia di farlo. Ci penseranno le autorità, a cui il caso è stato segnalato. Ma pare che si tratti di normali mascherine Ffp3 che di solito costano meno di 10 euro, e che siano proprio 4 pezzi (non quattro scatole).

Sembra che a Milano ci sia ancora chi specula sulla tragedia. Denunciate sempre (ripeto: sempre) certi comportamenti, qui e altrove. Non si può vendere a questi prezzi.

Oggi il Corriere ha scritto dell’allarme lanciato dai medici di base. I contagi sarebbero molti di più di quelli ufficiali. È così. I tamponi ormai vengono fatti solo a chi è sintomatico grave, quindi, sostanzialmente, a chi deve essere ricoverato in ospedale. Fino a che i sintomi non si aggravano, la linea è quella di provare con l’isolamento domiciliare. Non si puo fare diversamente, perché mancano i letti.

In Lombardia risultano 14.649 positivi: in realtà sono (almeno) cinque volte questa cifra. Chiunque può essere infetto. Quindi restate a casa, perché sarà ancora molto lunga. E fare attenzione quanto uscite: anche il carrello del supermercato può veicolare il contagio. Il gel per le mani si trova in molte farmacie, compratelo e fatene uso abbondante. Costa tra di cinque e i sette euro.

Chiudo con una informazione. Sul sito della Croce Rossa è possibile offrirsi come volontari temporanei (in tutta Italia). Se volete info, questo è il link

Standard
coronavirus, cronaca, milano

Milano, cronache dal fronte / 4

Milano, notizia dal fronte / 4 (domenica 15 marzo). Fuori per la solita ricognizione. Sarà la domenica, il fatto che manca il traffico dei lavoratori, ma oggi la desolazione ha preso il posto del silenzio.

Il tram numero 9, quello della movida, corre dalla stazione Centrale a Porta Genova. Un solo passeggero, oltre a chi scrive. Scendiamo entrambi vicino all’Università Bocconi, simbolo della città rampante che sembra così lontana.

Mi chiedo se in questi anni non abbiamo corso troppo, peccato di vanità. Non c’entra col virus, ovviamente, il contagio non è la punizione divina per l’hybris. Ma accosto queste vie deserte allo spirito competitivo che vi si respirava fino a pochi giorni fa, e non riesco a scrollarmi la sensazione di una gigantesca giostrina che ha smesso di girare. L’onnipotenza del business ridicolizzata da un virus grande qualche milionesimo di millimetro. Che contrasto stridente.

Chissà come sarà la città d.C., dopo il Covid. Chissà se esiste un modo per salvare il lato umano (che stiamo riscoprendo) e coniugarlo allo sviluppo economico (di cui abbiamo bisogno).

Mi incammino a piedi verso la Darsena e i Navigli. Spettrali  (video). Qui, con 15 gradi e un cielo che alterna nuvoloni e schiarite, oggi sarebbe stato un brulicare di persone. Invece non c’è nessuno. Risalgo corso di porta Ticinese: solo clochard, mai visti così sconsolati, senza nessuno che dia loro una moneta.

Via Torino, strada dello shopping: pochi passanti. Oltre alle farmacie e agli alimentari, l’unico negozio aperto è quello di Iliad, la compagnia telefonica. Quattro o cinque commessi, in piedi, nelle loro divise rosse. Mi sembrano imbarazzati quando getto lo sguardo oltre l’ingresso. A ragione. C’è da chiedersi per quale motivo stiano lavorando, con che tipo di autorizzazione siano stati mandati qui a rischiare di ammalarsi, dato che gli esercizi commerciali sono tutti chiusi.

Torno a casa in metropolitana. Una persona per vagone, in media. Avverto un senso di sporcizia. Confermato: qualcuno ha defecato nei corridoi.

Chi è qui vorrebbe essere altrove. Non c’è gioia nei volti che incrocio, neanche l’ombra di un sorriso. Ci studiamo da dietro le mascherine. Milano oggi sembra una città abbandonata dopo un disastro atomico. Compro i giornali, e non vedo l’ora di risalire in superficie, chiudermi il portone dietro le spalle, e aspettare che venga domani.

Standard
coronavirus, cronaca, milano

Milano, cronache dal fronte / 3

Il telefono vibra, il segnale è quello. L’amicizia ai tempi del Covid è fare la spesa nello stesso momento, appuntamento all’Esselunga, e la coda assieme per raccontarsi che cosa significa stare in casa, tutto il giorno. Per una volta, di persona, non via Skype.

C’è da augurarsi che la tempesta perfetta dovuta al virus ci renda più capaci di apprezzare il piacere di uno sguardo, il calore di una stretta di mano, e non finisca per rinchiuderci, quando finalmente sarà alle spalle, ancor di più in uno scafandro inodore, con la complicità dell’ultima tecnologia disponibile.

Il cronista, per mestiere, ha facoltà di raccontare. Ma chi scrive queste righe non sfugge al senso di colpa quando si aggira per i vicoli deserti, che sfumano nella luce di un tramonto primaverile che tanti vorrebbero godersi.

Come una grande ora d’aria, le strade di Milano sembrano il cortile di un carcere abbellito dagli intarsi dei palazzi, dai portoni colorati, dai manifesti sui muri. Alle finestre, i detenuti-cittadini, gli stessi che fino a ieri giravano liberi per lavoro, per amore, o solo per piacere, cercano il profumo della libertà nella fragranza dei ciliegi in fiore. Per le vie, i fortunati cui è concesso il turno.

Alle diciotto, il web si è dato appuntamento in balcone. Via Colletta, a quattro passi da Porta Romana. Due ragazzi escono, tirano fuori un bongo. Lui suona, lei canta. Qualche decina di metri più in là, una chitarra elettrica tiene il ritmo con un giro sincopato. I galeotti a passeggio si accrocchiano col naso all’insù, per godersi l’inaspettato concerto. Pochi istanti, e anche i palazzi di fianco, quelli di fronte, si riempiono di famiglie alle finestre: chi fuma, chi prende un caffè, chi semplicemente si gode brandelli di vita guardando quella degli altri.

Università Statale, altra jam session improvvisata. Questa volta le note sono quelle di Ligabue. Qui, fra un mese, avrebbe dovuto esserci uno dei rendez-vous più frequentati del Salone del Mobile, la kermesse dove le fabbriche dello Stivale raccolgono commesse per tutto l’anno. Un evento di portata globale che la sera si trasferisce in città, dai Navigli a Lambrate, dal centro a via Tortona all’Isola.

Oggi, notizia di poche ore fa, nei padiglioni della Fiera si pensa invece di farci un lazzaretto, per curare i malati che non trovano più posto nei nosocomi. Tutto rimandato, forse, di qualche mese. Ma c’è da scommettere che la prossima edizione sarà molto diversa dal solito, tra mascherine protettive e saluti col gomito.

Fa uno strano effetto restare in casa, e pensare che il tempo è l’unica medicina che, per ora, funzioni. Il tempo che cura, il tempo che guarisce, il tempo che stiamo faticosamente riconquistando compressi nei pochi metri quadri delle abitazioni cittadine.

I medici lottano alla ricerca di una terapia che appare lontana. Nelle chat riservate, lontano da occhi indiscreti, si raccontano casi, procedure, tentativi di soluzione. Qualcuno avanza ipotesi, rispolvera i libri dell’università per provare a interpretare i sintomi e dar loro un senso. Altri sono preoccupati per i familiari, esposti al contagio come ci fossero loro, in corsia. Tanti hanno paura.

Nella calma irreale della metropoli deserta, sono le sirene delle ambulanze a ricordare che i numeri del contagio continuano ad aumentare. Oggi in Lombardia dicono 9.820. Probabilmente sono almeno cinque volte tanto (ma la stima è nostra), dal momento che il tampone viene fatto, ormai, solo al personale sanitario e a chi manifesta sintomi gravi. Chiunque può essere infetto, vale la pena di ricordarlo. E le cifre sono destinate a crescere, fino a che la quarantena imposta dal governo non manifesterà gli effetti sperati, fra un paio di settimane. Secondo un’analisi dell’Istituto Superiore di Sanità di qualche giorno fa, il 22% dei pazienti avrebbe tra i 19 e i 50 anni, il 37,4% tra i 51 e i 70, il 39,2% più di 70 anni. Rende l’idea.
Quando finirà? Secondo il virologo Fabrizio Pregliasco (Università di Milano) il picco arriverà fra 14 giorni, con il Sud Italia che potrebbe ottenere risultati migliori perché lì la diffusione è minore, e quindi ci sono meno difficoltà di contenimento.

Fortunatamente, l’impressione è che la mente si stia abituando, che stia gradualmente imparando a convivere con l’emergenza. La rassegnazione è un’arma potente. Non sopravvive la specie più forte, ma quella che sa adattarsi meglio. Nella clausura involontaria, tutto serve a tirar su il morale. Un fiore, un bacio, il disegno di un bambino. Un bicchiere di birra. Un film stupido.

Col calare della sera, esce dalle case il popolo dei runner. Violano la quarantena. Ma sono gli unici, se ti affacci alla finestra, a restituire un senso di pur precaria normalità. Che continuino a correre. E a ricordarci come torneremo ad essere.

Standard