ambiente, economia, sostenibilità

L’accordo sulla plastica fallisce nel silenzio dei media

La conferenza di Ginevra per arrivare a un trattato vincolante sulla plastica è naufragata il 14 agosto. Di nuovo. Il percorso è cominciato nel 2022, e dopo quattro rinvii, questa volta – la quinta – doveva essere quella buona. Due i fronti principali: chi vuole un tetto alla produzione (un centinaio di paesi, tra cui la delegazione Ue, ma non l’Italia, coinvolta nella filiera del packaging) e chi preferisce puntare sul recupero e riciclo (i paesi produttori di petrolio, perché la plastica si ricava dagli idrocarburi; ma c’è anche la Russia). Ci sono, naturalmente, molte altre questioni sul tavolo: per esempio quelle legate al tipo di sostanze chimiche da bandire, e a una progettazione che renda più semplice il riciclo, oltre al meccanismo finanziario che dovrebbe consentire la transizione.

Non la faccio molto lunga, ma dopo dieci giorni di discussioni non si è arrivati a un accordo.
Il motivo è semplice: come sempre quando si parla di ambiente oggi, nel 2025, è impensabile affrontare la discussione senza legarla all’aspetto economico. Il petrolio come combustibile sarà abbandonato, e i paesi che lo producono vedono nella plastica una risorsa per continuare a valorizzarlo ; altri, come l’India, non sono esportatori ma insistono sul fatto che i costi della transizione e degli adeguamenti debbano essere adeguatamente ripartiti, anche guardando ai dati storici (just transition).

Per chi le segue, il canovaccio è più o meno lo stesso visto alle Cop, le conferenze delle parti sul clima. E anche la complessità dei negoziati, che si sono protratti fino a notte fonda. Non mancano le stranezze: ho visto un paper dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) che consiglia di smettere di produrre sigarette col filtro. La spiegazione è che normalmente viene disperso nell’ambiente da chi getta i mozziconi a terra, e questo è facile da comprendere. Ma dal punto di vista della salute? La risposta è che peggiorando il gusto, si spera di diminuire l’affezione dei consumatori.

Quello in cui questi negoziati, tenuti a Ginevra, non assomigliano per niente alle Cop è che sono stati poco o nulla coperti dalla stampa, e anche dagli addetti ai lavori, complice il caldo agostano.
Eppure un accordo avrebbe un significato epocale.

Siamo sempre più nell’era di Instagram, per cui si può organizzare una Cop del clima (che viaggia in media attorno ai 70mila partecipanti) in una piccola cittadina brasiliana inadatta a ricevere delegazioni cosìnumerose per rivendersela mediaticamente come “la Cop dell’Amazzonia”; ma si parla poco, pochissimo di una conferenza sulla plastica come quella di Ginevra che, avesse avuto successo, sarebbe finita sui libri di testo.

Così è se vi pare. Nota di demerito per le lobby degli industriali, anche questa volta la singola delegazione più rappresentata. Coinvolgere l’industria non è sbagliato, è impensabile dimenticare un attore importante della società se si vuole realmente implementare le decisioni: ma è importante che il lobbismo avvenga allo scoperto, nella maniera più manifesta e trasparente possibile. Cioè con nomi e cognomi delle aziende, e un’indicazione chiara delle proprie posizioni, in modo da poter inchiodare ciascuno alle proprie responsabilità ed evitare il solito greenwashing.

Foto: enb.iisd.org

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economia, esteri, media, politica, tech

Similarities

Zuckerberg reportedly asked Trump to block Eu fines on American tech companies. Here’s the reason of the last days’ repositioning on fact checking and diversity and inclusion policies: ingratiating Trump so to put pressure, not only in the Us , but abroad. These new – so to speak – tech oligarchs are getting closer and closer to power, just like their Russian colleagues. In doing so, they could obviously get burned by the flame – and, even in this respect , Russia has something to teach: the same man who can create your lucks can suddenly destroy you. And in the long run, that’s the most probable thing. But companies divide the reality in quarters.

There’s a third similarity to Russia. Or, to better say, with the old Soviet union. Trump is trying to extend America’s area of influence like the Ussr did in the 20th century with Eastern Europe and the Warsaw pact. Canada, Greenland, Panama. “It’s our national interest”, he says. Someone, a hundred years ago, coined an expression for this: “vital space “.

Europe is not a giant in strictly military terms (at all). But it is, actually , in an economic perspective, in regulations (think about the Ai act, the best legislation in the world on Ai), in culture. And it represents an alternative to the American way of living and doing business, not to mention to its perspective on the world. We have fundamentally experienced colonialism and had enough of it, at least in its “open” version, with tanks and soldiers.

Europe’s only strength to resist to these attacks is to deepen the ties between member countries: more integration between us, more autonomy from America in key strategic sectors. More cultural self consciousness. We represent an alternative to the US, a pacific one. No need to get engaged in Trump’s wars. But, nevertheless, we do have to need to stand firmly in front of these menaces.

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città, economia, tendenze

La Milano della solitudine

Servizio di Presa Diretta, da vedere. La Milano descritta è quella della solitudine, resa strutturale – letteralmente – dalle nuove tendenze immobiliari. Che separano le funzioni: casa con case, negozi con negozi, una scuola ogni tanto. Si rischia di meno, dicono gli esperti: lo sviluppatore (chi costruisce, cioè) non rischia il negozio fastidioso sotto i portici, men che meno chiassosi assembramenti. Metti la macchina in garage e sali con l’ascensore dritto fino a casa senza incontrare nessuno: lì ti aspetta Alexa, il metaverso o qualunque scemenza digitale prodotta in questi anni. C’è, però, il punto di ritiro per i pacchi: il commercio elettronico, così impersonale, è il perno dei nuovi aggregati come Cascina Merlata. Ogni tanto, come accaduto a Santa Giulia, si scopre che non hanno fatto le bonifiche e si abita sotto le scorie: e, a occhio e croce, c’è da aspettarsi altri casi, nei prossimi anni.

Ma la vita, osserva uno degli intervistati, sono proprio quegli incontri a volte indesiderati, quella fastidiosa mescolanza: evitarli è una scorciatoria per ridurre il dolore; ma, al contempo, rinunci alla gioia. Un Prozac di mattoni e vetro. Che funziona, aggiunge la docente Elena Granata, fino a che stai bene. Ti crei una bolla domestica in cui vivere connesso, e uscire (se si è fortunati) per gli happy hour, i weekend all’estero, le cinquantadue something week che caratterizzano la Milano degli ultimi anni.
Come sottolinea Manfredi Catella, patron di Coima, uno dei più grandi sviluppatori immobiliari italiani, ognuno fa il suo mestiere. E’ alla politica che spetta il compito di stabilire le regole, dice: gli affari, sintetizzo, restano affari. Catella è uno degli uomini più potenti in città: per influenza e relazioni stacca di gran lunga il sindaco del capoluogo lombardo. Con il vantaggio di non essere legato a nessuna famiglia politica, e poter, quindi, lavorare con tutti, indipendentemente dal colore.

Un amico mi diceva di vivere a Maciachini. Pensavo fosse un po’ fuori. “Guarda che tutta Milano è centro: fra qualche anno non ci sarà differenza, vedrai”. Non comprendevo. Poi sono passato in viale Isonzo, circonvallazione esterna, le colonne d’Ercole tra due mondi: l’inizio della fine. Una volta, forse. Dietro al vicino scalo di Porta Romana, dove sorgerà il Villaggio per le Olimpiadi invernali senza montagna dell’anno prossimo e che diventerà uno studentato una volta archiviato l’evento, vedo un capannello di ragazzi: l’italiano è una lingua staniera, quella ufficiale è l’inglese. Sono gli ospiti del primo edificio del complesso, riuniti nella pizzeria costruita lì sotto. Stessi vestiti, stessi profumi, stessi discorsi dei coetanei di Londra, Varsavia, Madrid. Stesse ambizioni (Ral, e beato chi non capisce l’acronimo): stesso retroterra economico (privilegiato) e culturale (in massima parte, figli di professionisti), che possono pagare 1.500 euro al mese per una stanza con bagno e cucinino, oltre alla retta delle università private più à la page. Era periferia, ed è stata inghiottita dal centro: a pochi passi c’è la Fondazione Prada, che, quanta lungimiranza, quindici anni fa investì nell’area, diventandone il perno. Più dietro viale Ortles, dove c’è un dormitorio per senzatetto, chissà per quanto. A quel punto ho capito. “Fanno il deserto, e la chiamano pace”: mi vengono in mente le parole di Tacito, un risuonare sinistro e senza tempo per una città che sta perdendo l’anima.

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Milano, un Longevity summit di 13 giorni è l’ennesima scelta inutile

Dopo le Olimpiadi invernali senza montagna (e pure senza la neve: la coltre bianca è sempre più rara sulle Alpi, ma questo è un altro discorso), dopo la Ocean week senza il mare, la città del marketing perenne si inventa la Milano Longevity Week. A me la presentazione pare delirante. Riporto testualmente quanto appare sul sito, a partire dalla domanda iniziale, di una banalità che sconfina nell’incoscienza.

Cito. “Si può ed è giusto rincorrere l’eterna giovinezza e prolungare le aspettative di vita? La ricerca scientifica più all’avanguardia risponde di sì. È una vera e propria rivoluzione nell’approccio all’invecchiamento, di cui Milano si fa portavoce con un summit di diversi giorni, un grande incontro scientifico internazionale policentrico, a carattere divulgativo e aperto al grande pubblico, agli operatori, agli studenti, che coinvolgerà le più importanti Istituzioni della città, sui temi “caldi” del momento, a livello di ricerca e di investimenti: l’invecchiamento sano (Healthy Aging) e il prolungamento della vita (Longevity).

Sessanta scienziati tra i più noti ed accreditati, vere e proprie star in questo settore, sveleranno le frontiere più avanzate della ricerca nel rallentamento del processo biologico dell’invecchiamento.

Il cambiamento demografico esige un approccio olistico, fondato su nuovi paradigmi sociali nel campo della politica assistenziale, dell’economia, del mondo del lavoro e dell’organizzazione delle città, ed anche una vera presa di coscienza politica e amministrativa. In quest’ottica il Summit ospiterà tavole rotonde con la partecipazione di demografi, investitori, imprenditori di startup e sindaci di alcune delle città che stanno già sperimentando nuovi modelli di organizzazione sociale ispirata ad una diversa composizione demografica.

Il Milan Longevity Summit si pone l’obiettivo di valorizzare Milano come centro scientifico all’avanguardia a livello internazionale e di produrre un documento in dieci punti, il Milan Longevity Program, per aiutare i legislatori, gli operatori del settore e il pubblico tutto a migliorare lo stile di vita della popolazione e contribuire ad una vecchiaia sana, attiva ed efficiente“.

Ora, l’allungamento della vita media (nei paesi del global north, cioè quelli i ricchi) è una realtà. Ma francamente è un problema grosso, e c’è poco da stare allegri. Nel longevity summit allo zafferano troviamo la solita accozzaglia di luoghi comuni, fondazioni e aziende, demografi e investitori (non è un errore: demografi accanto a investitori) senza arrivare a una chiara definizione della questione. Il risultato di questi 13 (tredici!) giorni di eventi sarà la solita dichiarazione inutile in dieci punti: la “Carta di Milano della longevità”, tento un titolo a naso. Nulla di più, e ci sarebbe molto da dire.

Quello che in questa visione da anni azzurri non sta scritto è che siamo in troppi; dovremo lavorare tutti fino a oltre 70 anni perché le patologie croniche pesano sul sistema sanitario e quindi su welfare; le pensioni pubbliche saranno sempre più basse, e quelle private non potranno permettersele quelli che guadagnano 900 euro; con la mobilità e flessibilità del lavoro, gli anziani con figli resteranno sempre più privi di appoggi e finiranno l’esistenza in struttura; ma molti non avranno prole (siamo al limite della denatalità) e finiranno anch’essi in struttura.

Quello che non viene detto è che la “silver economy” è una delle nuove frontiere del marketing: si vende agli anziani, dato che ci si è accorti che sono consumatori molto più a lungo di un tempo, e conviene tenerli attivi e curarseli.

Ma c’è un’altra questione, su cui forse davvero il sindaco di Palazzo Marino (quello vero pare sia un immobiliarista molto noto in città) dovrebbe insistere. Il lavoro ai cinquantenni che l’hanno perso. Perché hai voglia arrivare a 70 se quando ti licenziano a 50 non ti vuole più nessuno, e magari hai pure un figlio.

Ecco, degli Stati Generali per il lavoro ai cinquantenni, caro sindaco Sala, sarebbero utili e apprezzati. Il “modello Milano” potrebbe (dovrebbe?) diventare questo. E allora avrà finalmente legato il suo nome a qualcosa di utile.

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Amnesty: “Abusi sui lavoratori migranti nei magazzini di Amazon in Arabia Saudita”

Li cercavano in Nepal  con la promessa di lavorare per Amazon in Arabia Saudita. Ma, invece di firmare per il colosso di Seattle, erano ingaggiati da caporali senza scrupoli che chiedevano una recruiting fee  (una commissione per il reclutamento) di 1.500 dollari. Ad aspettarli, condizioni di lavoro massacranti e alloggi dalle condizioni igieniche precarie, sovraffollati e infestati dalle micidiali bed bugs.

La denuncia arriva da Amnesty International, che ha raccolto le storie di ventidue lavoratori che hanno accettato di parlare. I nomi sono stati cambiati per paura di ritorsioni.

Gli operai – scrive la ong – erano attirati con l’illusione di lavorare per un colosso multinazionale che avrebbe garantito diritti, stipendio e condizioni di lavoro dignitose. Ma poco prima di mettere piede sull’aereo scoprivano la verità.  Arrivati in Medio oriente, si ritrovavano in camerate sovraffollate e sporche.  La paga non era quella promessa. Gli standard produttivi richiesti erano estremamente elevati, il monitoraggio costante. Chi protestava era punito, anche fisicamente. Una volta concluso il lavoro con Amazon, raccontano i migranti, rimanevano legati alla società di fornitura di lavoro, impossibilitati a cambiare lavoro o a lasciare il Paese.

I lavoratori credevano di aver trovato un’occasione d’oro con Amazon, ma finivano per essere vittima di abusi che hanno lasciato molti traumatizzati. Sospettiamo che siano in molti ad aver subito questo trattamento spaventoso. Molti di quelli che abbiamo intervistato sono stati sottoposti ad abusi così pesanti che si possono avvicinare al traffico di esseri umani con finalità di sfruttamento” dice Steve Clockburn, capo del dipartimento Economia e giustizia di Amnesty. “Amazon avrebbe potuto prevenire questi abusi e porvi termine, ma le procedure hanno fallito nel proteggere i lavoratori da questi comportamenti scioccanti. L’azienda dovrebbe urgentemente compensare tutti quelli che sono stati danneggiati, e assicurarsi che fatti del genere non si ripetano mai più” ha aggiunto l’attivista. Ma, prosegue, “anche il governo saudita ha pesanti responsabilità. Deve aprire un’indagine urgente e riformare il proprio sistema del lavoro per garantire il rispetto dei diritti fondamentali, compresa la possibilità di cambiare impiego e lasciare il Paese senza condizioni”.

Gli uomini intervistati hanno lavorato nei magazzini Amazon di Riyadh tra il 2021 e il 2023, ed erano assunti da due contractor che fornivano personale: Abdullah Fahad Al-Mutairi Support Services Co. (Al-Mutairi), or Basmah Al-Musanada Co. for Technical Support Services (Basmah). 

Gli sfruttatori a volte trattenevano parte del salario; a chi resisteva, era richiesto di sollevare carichi pesantissimi, soddisfare requisiti di produttività troppo elevati e operare sotto constante sorveglianza.

In case sporche e sovraffollate e senza aria condizionata si superavano i cinquanta gradi. Non c’era connessione internet per contattare i propri cari e la legge saudita, che lega il lavoratore al datore, impediva loro di cercare altro o tornare a casa.

A chi non resisteva e voleva andarsene non veniva comprato il biglietto, e anzi: veniva multato. Dev, uno di loro, racconta di aver cercato di buttarsi dalla finestra per la disperazione. Altri hanno contratto prestiti pensando di poterli ripagare con il salario, e si sono ritrovati con debiti che si sono accumulati.

Le condizioni di lavoro in Arabia Saudita, rileva Amnesty, erano ben note anche prima del 2020, anno in cui Amazon è sbarcata nel Paese. L’azienda aveva effattuato una procedura di valutazione dei rischi dalla quale la ong desume che sapeva della possibilità di abusi. Secondo Kiran, un altro magazziniere, “Amazon conosceva ogni singolo problema”.

Il gigante americano ha replicato alle accuse dell’organizzazione non governativa. Nel 2023, riferisce, ha condotto un’inchiesta sui contractor trovando evidenze che confermavano quanto scritto nel rapporto. La multinazionale ha dichiarato di aver assunto dei consulenti per rivedere le policy dei fornitori e rimediare in qualche modo agli abusi, rimborsando per esempio le “recruiting fees” di chi era stato intervistato nel documento. Al momento, però, i soldi non sono ancora arrivati.

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Porte girevoli

Se riuscite a recuperarlo, leggete questo articolo di Stefano Feltri su Domani. Il tema sono le carriere che troppo facilmente dalla politica proseguono verso il settore privato. L’ultima caso è quello di Marco Minniti, ex ministro dell’Interno e sottosegretario con delega ai Servizi Segreti, fino a due giorni fa parlamentare . Minniti si è dimesso ed è passato però da pochi giorni a Leonardo (ex Finmeccanica, molto attiva nel comparto militare), dove guiderà una fondazione attiva nella promozione dei rapporti tra Mediterraneo e Medio Oriente, insomma, più o meno le stesse aree del mondo su cui aveva lavorato da politico. Riporto un estratto, che sintetizza la questione. “I Cinque Stelle hanno imposto il tema della ‘casta’, convinti che conquistare una ‘poltrona’ fosse il punto di arrivo di una carriera, la garanzia di uno stipendio alto e privilegi. Ma dai tempi dei Vaffaday del M5s le cose sono cambiate: ora un passaggio in parlamento o al governo è una fase transitoria per accumulare relazioni e informazioni che poi verranno ben remunerate dal settore privato“. Non è l’unico. Non è ora di affrontare il fenomeno apertamente e provare a regolarlo, come si sta cercando di fare con le lobby?

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Populismo e investimenti

Non solo investimenti. Nel mezzo della discussione sull’uso del Recovery Fund, fanno bene Tito Boeri e Roberto Perotti, autori di questo articolo uscito su Repubblica, a sottolineare che il piano Marshall partì solo tre anni dopo la fine della guerra. In altre parole: va bene investire, ma le categorie più svantaggiate vanno aiutate. Adesso.

Si può essere populisti parlando di sussidi a pioggia; ma lo si diventa, e giova ricordarlo, anche insistendo unicamente su prospettive ventennali, per forza di cose attraenti solo per le elite (è il caso di chiamarle così) dallo stipendio garantito, mentre metà del paese non arriva alla terza settimana del mese.

Riporto un estratto dell’articolo di Boeri, che povero certo non è ma è stato presidente dell’INPS e quindi conosce bene la situazione. “La teoria e il buon senso ci dicono che la risposta corretta a uno shock temporaneo come una pandemia, combinato con un massiccio impoverimento delle categorie più deboli, sono sussidi alle persone e alle imprese, ben concepiti. Le ingenti risorse del Recovery Fund sono invece dedicate quasi esclusivamente a investimenti pubblici per la ricostruzione, come se la guerra fosse finita. A differenza che nel caso del Piano Marshall, avviato tre anni dopo la fine delle ostilità, oggi siamo ancora lontani dalla vittoria finale. Si parla molto anche di una riforma radicale e simultanea di tutte le tasse. Obiettivo condivisibile, ma ci si dimentica che questo strumento non ha alcun effetto sulla povertà: non cambia niente per chi già in partenza non paga le tasse o ne paga pochissime, perché troppo povero. Ciò di cui abbiamo bisogno è una riforma altrettanto onnicomprensiva degli ammortizzatori sociali“.

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brexit, coronavirus, economia, esteri, salute

Vaccino Covid, cosa significa per Londra arrivare primi

L’approvazione del vaccino Pfizer-BioNTech da parte dell’ente di vigilanza britannico, primo al mondo, ha un impatto pratico (ovviamente, quello legato alla protezione della popolazione) ma anche un significato politico molto più ampio. Il vaccino sarà disponibile dalla prossima settimana. Da Europa e USA, invece, non ci sono notizie sui tempi.

Il Regno Unito è tra i paesi più colpiti dal coronavirus dal punto di vista economico, in parte anche per le scellerate decisioni del premier Boris Johnson nelle fasi iniziali. Johnson sottovalutò i rischi puntando a un’immunità di gregge molto costosa in termini di vite umane per garantirsi una ripresa precoce, salvo poi, ammalarsi egli stesso, e correggersi nel giro di qualche settimana. La pandemia ha toccato Londra nel momento peggiore: pochi mesi prima, il paese aveva sbattuto per l’ennesima volta la porta in faccia all’Unione Europea e chiuso la telenovela Brexit, che durava da oltre tre anni.

Un problema serio, perché l’economia non beneficerà del generoso Recovery Fund messo in piedi da Bruxelles.

Oggi il Regno Unito è un paese solo, con le mani libere, ma che viaggia in mare aperto senza scialuppe. Avere approvato per primi il vaccino significa cominciare a distribuirlo subito e poter, quindi, sperare in un recupero più rapido. Ma non solo: significa anche guadagnare le copertine dei notiziari, e soprattutto: siamo qui, non siamo morti. Siamo sempre uno dei paesi più avanzati al mondo dal punto di vista tecnologico. Venite da noi, ce la possiamo fare.
Oltre che di impatto per gli investitori esteri, l’annuncio rinvigorisce il morale sul fronte interno.

Che basti, non è detto. I prossimi anni saranno duri, e a Downing Street lo sanno bene. Inoltre, l’attendismo delle agenzie del farmaco europea e americana sull’approvazione è un segnale chiaro: meglio andare sul sicuro che rischiare un nuovo disastro, in termini di vite umane e di immagine internazionale. Ma la tentazione, per Londra, è stata troppo forte: dopo una serie di sconfitte a cui il paese non era abituato, quello di oggi è il primo colpo messo a segno da tempo. O l’ennesimo flop di un leader nato per stupire, forse non per governare.

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È giusto che i manager pubblici siano pagati poco?

Non mi appassiona la vicenda dello stipendio di Tridico. Scandaloso trovo, anzi, il fatto che il presidente di un istituto (l’INPS) che è il primo centro di spesa italiano guadagnasse molto, molto meno rispetto ai dirigenti di prima fascia delle amministrazioni pubbliche. Chi può lamentarsi che i migliori restino nel privato se li paghiamo poco? E che il pubblico non funzioni? La retroattività mi sembra inopportuna, chiaramente, e lo sarebbe anche se dalle verifiche ne emergesse la correttezza dal punto di vista tecnico.

Ma, come spesso accade, si sta strumentalizzando una vicenda su cui sarebbe opportuno, invece, discutere in maniera aperta e schietta, da paese moderno. Perché il tema è lo stesso del taglio allo stipendio dei parlamentari: se vogliamo che a scrivere le leggi della Repubblica (o meglio, a votarle) siano persone preparate, va dato atto che la competenza costruita in anni di studio e di professione va ricompensata. E non facciamone una questione di spirito di servizio: a nessuno piace rinunciare ai quattrini. Detto, per inciso, da un giornalista freelance di sinistra.

Ma il punto, per gli scontenti e pure per la sinistra, è proprio questo: con l’invidia sociale si passano le serate al bar, ma si resta poveri. Meglio offrire a chi ha voglia di rimboccarsi le maniche una strada chiara da seguire per migliorare la propria condizione: la ragionevole certezza che l’impegno sarà ricompensato. E che certe nomine non siano solo, come appare spesso ora, un terno al lotto, questione di fortuna.

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Dalla Brexit alla pandemia, così nasce la nuova Europa

C’è un filo rosso che accomuna il voto britannico del 2016 con il risultato ottenuto ieri notte dal Giuseppe Conte, oltre 200 miliardi di euro ripartiti tra prestiti a lunghissima scadenza e aiuti a fondo perduto.

Nel giugno di quattro anni fa, l’Unione era sul ciglio di un baratro. La pressione dei migranti ai confini, i postumi della recessione mai completamente smaltiti se non nelle grandi città, la proposta di soluzioni che un tempo – dieci anni fa – si sarebbero dette xenofobe e oggi sono state nobilitate con il nome di sovranismo la tenevano alle corde. Personalità interessate alla propria carriera politica più che al bene comune (Farage, Salvini, Le Pen, tra gli altri) avevano guadagnato consensi crescenti. Pensando di poter gestire il problema affrontandolo di petto, David Cameron concesse il referendum su Brexit, convinto di vincerlo.

Ma, dopo una campagna elettorale giocate sulle menzogne, a prevalere fu il Leave.


Sin da subito Londra fece la voce grossa. “Brexit means Brexit” andava ripetendo Theresa May, convinta che un consesso, come era quello di Bruxelles, sempre incapace di trovare l’accordo su poche, ma nodali, questioni relative all’integrazione continentale (politica estera e fiscale, su tutte) non sarebbe stato in grado di raggiungere una visione comune sull’uscita del Regno Unito. Divide et impera, dicevano i Romani. Che era la cifra della presenza britannica nelle istituzioni continentali.

May si sbagliava. Fu nel no alle smargiassate di Londra che cominciò a prendere forma l’embrione di una nuova di Europa. Un’entità in cui le differenze nazionali continuano a esistere, ma sono bilanciate da una volontà altrettanto forte di cooperare che finalmente ha trovato modo di manifestarsi.

I semi gettati negli anni precedenti stavano giungendo a maturazione.  Oggi, negli uffici che ospitano la classe dirigente continentale, sempre più spesso le scrivanie che contano sono occupate da membri a pieno titolo dalla “generazione Erasmus”, quella che ha potuto approfittare dell’Unione per viaggiare, studiare e arricchirsi; il tutto mentre un’altra coorte di giovani, quella dei nati a cavallo del millennio, sta arrivando al voto. E si tratta di ragazzi che la lira (o il franco, il marco, il peso) non l’hanno mai conosciuto. Così come non hanno mai conosciuto la frontiera con la Francia o con l’Austria: per loro è naturale muoversi e oltrepassare distrattamente valichi che hanno significato sangue e terrore per secoli.


Londra, la terra promessa


Nel momento più duro della crisi 2008-2012, Londra esercitò un fascino eccezionale su chi cercava una seconda chance. Furono moltissimi i connazionali che si trasferirono in riva al Tamigi in cerca di fortuna, a volte trovandola, a volte no. Molti furono i delusi. La comunità tricolore rese la capitale britannica la terza città italiana, con oltre mezzo milione di abitanti.

Per questo il maldestro tentativo di distacco dall’Unione portato avanti da Downing Street ci coinvolse tanto: tutti avevano un parente o un amico che aveva attraversato la Manica. E fu così che, per la prima volta, il dibattito europeo entrò quotidianamente in un palinsesto televisivo che lo relegava ai margini.
A forza di sentir parlare di Brexit, la popolazione cominciò a conoscere pregi e difetti dell’Unione e a farsi un’idea propria. Grazie agli oppositori alla Salvini, ma anche alle difese appassionate.

Pur non volendo, Londra offrì un contributo fondamentale alla causa europea: tra ripensamenti, elezioni, leader da fumetto, manifestazioni di protesta, ci mise ben tre anni per lasciarsi alle spalle il Continente. La fuga dall’Europa venne percepita dai più per quello che era: un’operazione politica orchestrata da leader piccoli, che avevano sfruttato il malcontento popolare per diventare grandi. Ma certi treni passano una volta sola.


Il recovery fund


Per questo, al dibattito sul Recovery fund le opinioni pubbliche sono arrivate molto più preparate rispetto a qualche anno fa. E l’esempio della Gran Bretagna, ancora una volta, è servito: fuori dalla Ue, e con una crisi da coronavirus devastante (peggiorata dalle incertezze del premier Boris Johnson) Londra non potrà avvalersi del mutuo supporto cui avrebbe avuto diritto.

Raramente la sorte ha giocato contro un paese in maniera così sfacciata. L’Europa, che si era mostrata compatta parlando con la voce del capo negoziatore Michelle Barnier e stava per approvare il bilancio 2021-2027, aveva margine di manovra grazie alla vastità di un territorio colpito in maniera molto disomogenea dalla pandemia, e che per questo poteva redistribuire risorse laddove necessario. Perché fu subito chiaro che il recupero sarebbe stato lungo e che da questa prova i Ventisette sarebbero usciti assieme. L’alternativa era che il banco saltasse definitivamente.

Questo spauracchio ha pesato sicuramente nelle trattative. Si è discusso allo sfinimento, ma, una volta verificato che la frattura non è solo tra paesi “cicale” e paesi “formiche”, ma tra realtà colpite in maniera più o meno forte dal virus, la conclusione è stata più o meno questa: chi vuole andarsene, da oggi è libero di farlo. Le conseguenze, il Regno Unito insegna, sono sotto gli occhi di tutti. Per questo era inevitabile che si arrivasse a un compromesso, fatta la tara al posizionamento elettorale di leader come l’olandese Rutte, pronto a incassare la cedola dell’opposizione alle elezioni del 2021.


Il futuro e il piano di riforme


Ora si tratta di fare buon uso dei denari ottenuti. Conte, che si è dimostrato un abile politico nei cinque mesi (e non nei cinque giorni) di trattative con gli altri paesi, dovrà dimostrare di avere un piano serio di investimenti strutturali, di riforme (tra cui quella del lavoro e l’abolizione della sciagurata quota 100), misure per la riqualificazione della popolazione e la diffusione di competenze informatiche e inglese. È anche il momento per parlare di Europa, finalmente, in una chiave positiva.

L’Italia ha incassato il capitale di fiducia guadagnato piegandosi nel 2012. E, checché se ne dica, la riforma in un sistema pensionistico come il nostro era indifferibile. Ma a prendersene la responsabilità e gli oneri fu la sola Elsa Fornero, cui, invece, andrebbe tributato un grazie.
In sintesi: quella di oggi è un’occasione irripetibile per trasformare il piombo della pandemia in oro, un’occasione che l’Italia – e non solo – non può permettersi di perdere.

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