cultura, milano, politica

Trovare il modo di salvare i graffiti del Leoncavallo

E’ ironico che lo sgombero del Leoncavallo arrivi a poche settimane dall’inchiesta urbanistica che mette in discussione buona parte degli interventi realizzati in città negli ultimi anni, facendo finire ai domiciliari assessori, costruttori e architetti. Pare che l’ordine questa volta sia arrivato direttamente da Roma: il centro sociale milanese sarebbe, dunque, una questione nazionale. Ma il Leoncavallo è un simbolo, e si può capire.

Trasferito nella sede di via Watteau nel 1994 (era nato due decenni prima nell’omonima strada dalle parti di piazzale Loreto), incuneato in una mesta periferia urbana, il centro sociale in poco tempo ha ridisegnato la fisionomia dell’area.

Il quartiere Greco, a nord di Milano, è un’accozzaglia post industriale di spiazzi, capannoni, strade bigie, e pochissime vecchie case basse di ringhiera in stile meneghino. D’altro resta ben poco: torri residenziali che svettano in mezzo al nulla, un paio di supermercati, una farmacia. Poco più in là c’è il quartiere Bicocca, nato attorno all’università all’inizio del millennio, e mai realmente decollato. Si tratta di un’area divisa tra le aule dell’ateneo e grossi condomini, con pochi locali più che altro rivolti a un pubblico di studenti, un centro commerciale e nessuno spazio di aggregazione.

Quanto detto basta per ricostruire la fisionomia di una zona della città ispirata, a dir poco, alla mera funzionalità; dove le necessità di base sono soddisfatte, ma che giace da sempre al confine tra il non luogo e il dormitorio. Territorio dove è difficile incontrare, e incontrarsi.

Non è sempre stato così. Milano è una città policentrica per nascita, somma di comuni un tempo autonomi e autosufficienti: e Greco, che esiste da secoli, è citato già dal Manzoni. Renzo vi arrivava da Sesto san Giovanni sulla strada per il capoluogo, in tasca una lettera di Fra’ Cristoforo. La città era in preda alla rivolta per il pane. Come ricorda lo scrittore ottocentesco, ci troviamo abbastanza vicino a Lecco perché il viandante potesse girare la testa e ammirare i “suoi” monti.

Uno scorcio di Greco, il quartiere in cui si trova il centro sociale Leoncavallo

Il centro sociale, si diceva, trasloca in via Antoine Watteau nel 1994, dopo un paio d’anni di lotte. Uno spazio enorme, dotato di cucina, ampio salone per concerti, e ben tre bar. Prezzi popolari: una birra tre euro, un piatto di pasta poco più. Un’eccezione, nella Milano di quegli anni; figuriamoci di questi.

Ci ero tornato una sera del luglio scorso, dopo parecchio: e la sensazione era stata di insperato sollievo. Pareva che, tra quelle mura, il tempo si fosse fermato. L’ecosistema digitale – passatemi l’espressione – in cui ci troviamo nostro malgrado immersi non trovava cittadinanza nelle stanza ampie del Leoncavallo; sui muri erano ancora ben vive le vestigia del passato, con i manifesti delle lotte, i libri polverosi a disposizione di chi voleva portarli a casa, i volantini ciclostilati. Murales caleidoscopici, foto, panchine di legno. Odore di fumo di sigaretta e non solo (dispiacerà ai salutisti, ma il divieto di Sirchia qui non è mai arrivato; e l’odore di tabacco fa parte dell’arredamento).

Ai centri sociali fu concesso molto perché nati come risposta a esigenze trascurate: si accollarono, negli anni Settata, l’onere di fornire, alle periferie delle città, una serie di servizi che le amministrazioni non erano in grado di garantire. Corsi, asili, spazi di riunione e dibattito culturale: attività che sono presenti ancora oggi. Erano gli anni della prima emigrazione interna dal Meridione. Agli albori del nuovo millennio, i locali hanno aperto le porte agli stranieri, agli immigrati, che qui trovavano un posto dove riunirsi senza spendere troppo, e soprattutto essere giudicati, soprattutto nei primi, bui, tempi degli sbarchi.

Concerti, ce ne sono stati tanti nel corso degli anni; artisti di peso si sono alternati sul palco, e l’elenco è troppo lungo per farlo qui. Bandita la vendita di droghe: non il consumo – parliamo di cannabis –, in linea con la visione antiproibizionista. Ma ormai il tema è sdoganato ovunque.

Veniamo allo sgombero di giovedì 21 agosto 2025. Si dirà: resta pur sempre occupazione di proprietà privata, e poi al Leoncavallo non sono dei santi. E’ vero. La verità non sta mai da una parte sola. Certe prese di posizione, un certo oltranzismo, soprattutto negli anni duri della contestazione e delle guerre in Iraq e Afghanistan, sono stati decisamente opinabili.

Non è tutto passato. Al presidio di giovedì 21 agosto, sotto l’acqua, c’erano un paio di migliaia di persone. Tante, tantissime, considerato il periodo agostano e la pioggia. Durante la manifestazione, una parte del corteo ha sfidato i poliziotti che bloccavano  i cancelli urlandogli in faccia slogan carichi di insulti. Poche decine di persone, protette e ringalluzzite dalla psicologia della folla. 

Ora, è evidente che questi atteggiamenti, pur non rappresentendo la posizione ufficiale del centro sociale, spesso vi hanno indiscutibilmente trovato casa e accoglienza. Ma già i Clash negli anni Settanta avevano spiegato che tra i poliziotti ci sono molti proletari, mentre quelli che li insultano spesso sono i figli dei borghesi. Non si tratta di chiudere un occhio sulle violenze delle forze dell’ordine, ma di non lasciarsi trascinare dal branco. E un certo tipo di distinguo, purtroppo, nei centri sociali non hanno quasi mai trovato cittadinanza.

Gli anni, comunque, non passano invano. La linea è progressivamente diventata più moderata, complice anche la guida di una generazione più giovane rispetto a quella dura formatasi negli anni Settanta, quando la lotta politica poteva facilmente sfociare in violenza.

Il bilancio di mezzo secolo di storia, dunque, resta ampiamente positivo. E che il Leoncavallo abbia aggiunto valore a Milano, non il contrario, lo avevano riconosciuto anche tifosi insospettabili. Nel 2006 Vittorio Sgarbi, allora assessore alla Cultura del sindaco di centrodestra Letizia Moratti, organizzò una mostra sui graffitari (i writer) rimasta negli annali. Durante un tour coi giornalisti in via Watteau, gli fu chiesto come poteva un politico di destra appoggiare le scritte sui muri, e di conseguenza, il centro sociale. Risposta lapidaria (chi scrive era presente): “”Sono la Cappella Sistina della contemporaneità. Ma non vedete questi palazzi di merda…”

La somma di tutto fa un luogo che merita di sopravvivere. A Milano, negli ultimi anni, gli spazi di controcultura sono spariti quasi ovunque, e quelli rimasti sono sterilizzati da designer e dai soliti modelli di business che mischiano cultura, glam e profitto. Insomma, per usare un anglicismo: sono fake.

Il diritto alla proprietà privata dell’immobiliarista Cabassi non è in discussione, almeno per chi scrive. Non siamo d’accordo con le spese proletarie, le occupazioni, gli assalti alla polizia; ma con le lotte, anche quelle condotte a muso duro, sì. Con la resistenza allo strapotere del capitale, sì. Non dimentichiamo che la Milano perbenista non ha mai fatto una manifestazione contro la speculazione edilizia e il caro casa, salvo svegliarsi e piagnucolare quando a scoperchiare la pentola ci ha pensato la magistratura.

Al Leoncavallo, invece, certi temi sono sempre stati all’ordine del giorno. E a ragione. Per questo, se sgombero sarà, va trovata una sede adeguata alla storia che questo spazio si è conquistato sul campo, assieme al modo di assegnargliela in via definitiva.

Non solo. L’area che sarà lasciata vuota se il centro sociale se ne andrà (di proprietà dell’immobiliarista Cabassi) potrebbe essere occupata da nuove torri residenziali, che andrebbero a completare lo schema del quartiere dormitorio. Un dormitorio, per di più, destinato ai ricchi. I cosiddetti sviluppatori potrebbero addirittura mimetizzare la speculazione come va di moda oggi in città, con uno studentato da millecinquecento euro al mese a camera.

C’è da augurarsi che Palazzo Marino, che si è detto consapevole del valore dell’esperienza del “Leo”, sappia indirizzare la destinazione d’uso in maniera adeguata. Anche a costo di pronunciare qualche no, insolito a queste latitudini. Il centro sociale potrà pure andare altrove; ma la sua impronta nel quartiere non può più essere rimossa. E, anzi, mi spingo un passo oltre: bisognerebbe trovare il modo per salvare i graffiti del Leoncavallo, ormai parte irrinunciabile della cultura urbana e del paesaggio milanese. E’ possibile?

(Le foto sono mie. Qui di seguito qualche video tratto dalla manifestazione di ieri 21 agosto e pubblicato sul mio canale Instagram 1 | 2 | 3 )

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cultura

Se l’arte è (anche) politica

Edison Vieytes è un artista di Montevideo in Italia dal 1982. L’ho conosciuto su una spiaggia calabrese che frequento da molto tempo. Il caldo ci costringe a spogliarci degli abiti, e con essi, di buona parte dei nostri costrutti sociali. In costume, sulla battigia, si resta, più o meno, quello che siamo.

Presentati da un amico, ci siamo rapidamente piaciuti e trovati a parlare di Sudamerica, disuguaglianze, ambiente. Del ruolo dell’arte e della cultura in una società sempre più tecnica, parcellizzata, distante dall’essenziale. Il poeta- albatros (il pittore, nel suo caso) – guarda il mondo dall’alto, supera i confini tra le discipline, scova significati appannati dalla coltre di rumore.

Il mare, l’acqua, conciliano le chiacchiere. Mi ha raccontato delle praterie dell’Uruguay, dalle natura, della colonizzazione delle multinazionali. Di solito gli artisti hanno ego smisurati: non è il suo caso.

La Calabria, come tanti altri territori, sta sperimentando il cambiamento climatico. Fa più caldo, e più a lungo. L’erosione costiera è una realtà. Ma, tra i tanti problemi di questa terra, all’ambiente non spetta un posto. Compito dell’arte, allora, è riportarci all’essenza. Mentre scrivo queste righe, ho sul comodino, come tutti gli anni quando vengo qui,“L’utilità dell’inutile” (Bompiani), del compianto Nuccio Ordine, indimenticato studioso di Diamante (Cosenza), apprezzato un po’ ovunque e mancato troppo presto lo scorso anno.

Ordine, con penna leggera e senza mai trascendere nel giudizio pedante, insiste sull’importanza di non abbandonare l’arte e lo studio dei classici, di non cedere alla mera cultura della tecnica: a non lasciarsi, cioè, guidare solo da ciò che è utile, pur riconoscendone il valore. Le sue pagine, che ormai hanno oltre dieci anni, sono un appiglio solido in questi tempi di frenetico nonsenso. Uno dei pochi, e meritano di essere rilette.

Nelle foto:
Salvezza
@vieytesedison

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cinema, cultura

Il Signore delle Formiche, l’Italia bigotta descritta da Amelio

Il Signore delle formiche è un film bello da vedere, forse leggermente lungo, ma ben realizzato. E che fa riflettere. La pellicola di Gianni Amelio ha il merito di dipingere tutti i chiaroscuri di un caso giudiziario realmente accaduto, il processo per plagio ad Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) negli anni Sessanta, primo caso di applicazione del reato in Italia.

Il professore piacentino, personalità magnetica, era accusato di abusare dei propri allievi sfruttando la propria influenza. Dettaglio centrale, Braibanti era omosessuale. Amelio descrive in maniera efficace come il processo sia stato condizionato dal clima sociale, ai tempi estremamente moralista. E induce lo spettatore a pensare come, da allora, il nostro Paese abbia percorso parecchia strada, anche grazie a chi non è rimasto in silenzio.

Bravi gli attori (applauso all’esordiente Leonardo Maltese, Ettore), dialoghi mai banali, bella fotografia. Stupenda l’ambientazione nella campagna piacentina, il contrasto, così profondamente italiano tra la bellezza della provincia e il bigottismo cinico che si consuma all’ombra dei campanili.

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cronaca, cultura

Qualche ragione per essere ottimisti

Siamo abituati a guardare il brutto di questi anni, e ce n’è tanto: la guerra, il covid, l’inflazione, le disuguaglianze. Tempi difficili, ma è dalle crisi che nascono le cose migliori. Viviamo in un mondo in cui, alla fine e dolorosamente, gli stranieri si stanno integrando nella nostra società, che, non avendo avuto praticamente colonie, è sempre stata chiusa. Si parla liberamente di esprimere la propria sessualità in pubblico, a volte uscendo dal seminato, ma si fa, finalmente; anche le battaglie sulle desinenze dei nomi (che spesso non condivido) sono comunque il segno che ci siamo evoluti da quando ci si scannava pressoché esclusivamente su veline, calcio e governi ladri.

Passi avanti sono stati fatti sulla parità, e oggi sognare un bel lavoro per una ragazza non è più vietato. Il fine vita è sulle prime pagine dei giornali, e, forse, per restarci. Anche l’ambiente ci è arrivato: si mettono in discussione le politiche delle aziende, si chiede loro conto di quello che fanno, si vanno a verificare gli impegni, ci si organizza per fare contro-lobby. Pensiamo solo a vent’anni fa. E’ cambiata, grazie alla pandemia e in larga misura, la cultura del lavoro: lavorare da casa non è piu richiesta da scansafatiche in grado di garantire il “le faremo sapere” in qualunque colloquio, ma una conquista per molti. E poi, ognuno si regoli come vuole. Non si guarda più al fatturato come unico indicatore, si comincia a valorizzare chi è capace di far cadere la penna alle sei come persona di carattere, e non un lazzarone; fermo restando che, se a uno piace quello che fa, le ore difficilmente si contano. C’è stato un dibattito sui sovranismi, nazionalismi, populismi che ci hanno condotto a governi difficili anche solo da immaginare: ma era latente. Finalmente si è esplicitato, e si sono prodotti gli anticorpi per digerire le posizioni più estreme, che continuano a poter essere espresse. Vengono solo prese per quello che sono.

Tanto, tanto, tanto resta ancora da fare. Ma siamo fortunati, più liberi di esprimerci, di vivere la vita che sognavamo. Molte di queste cose sono accadute negli ultimi vent’anni, quelli che, se ci pensiamo, associamo all’11 settembre, alla crisi del 2008, quella del 2012, al covid, alla guerra. Non sarà facile, ma tutto sommato qualche ragione per essere ottimisti, credo, ci sia.

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il filosofo coreano Byung-Chul Han
cultura

La società senza dolore

“Proprio nella società palliativa avversa al dolore si moltiplicano i dolori silenti, confinati ai margini, che persistono nella loro assenza di senso, di linguaggio e d’immagini. Alla base del dolore vi sono svariate forme di violenza. Le repressioni, ad esempio, rappresentano una violenza della negatività. Ma la violenza non emana solo dagli altri. La violenza è anche un eccesso di positività che si esprime in forma di sovraprestazione , sovracomunicazione, sovrastimolazione. La violenza della positività conduce a dolori opprimenti. Sono infatti algogiche quelle tensioni soprattutto psichiche che caratterizzano la società della prestazione neoliberista. Esse recano tratti auto-aggressivi. Il soggetto di prestazione si infligge violenza da solo. Si sfrutta volontariamente fino a crollare. Il servo prende la frusta dalle mani del signore e si frusta per diventare signore, sì, per essere libero. Il soggetto di prestazione fa guerra a sé stesso. Le pressioni interiori emerse in questo modo lo spingono alla depressione. Provocano anche dolori cronici. [..]L’eziologia dei dolori cronici ha molte facce. Le fratture, gli stravolgimenti e le contrazioni nel tessuto sociale provocano o rafforzano i dolori cronici. Non ultima, è l’assenza di senso nella società attuale a rendere insopportabili i dolori cronici. Essi rispecchiano la nostra società svuotata di senso, il nostro tempo senza narrazione in cui la vita è diventata nuda sopravvivenza. Qui gli analgesici o le indagini interiori possono fare ben poco. Ci rendono solo ciechi dinanzi alle cause socioculturali del dolore ”. (Byung-Chul Han, La società senza dolore, Einaudi, 2021).

Il saggio di Byung-Chul Han analizza come il dolore sia scomparso dalla società contemporanea. Ma senza dolore non c’è rottura, non c’è crescita; c’è, piuttosto, un continuo ritorno dell’Uguale. In cambio, siamo tormentati da miriadi di acciacchi spesso cronici di cui non riusciamo a liberarci e di cui non intravediamo il senso. Analizzarsi serve a poco, anche adattarsi, alla lunga, può non pagare; l’unica soluzione, se non per annullare, per rendere sopportabile il dolore, è quello di dargli un senso. E di coglierne le cause socioculturali inscritte nel dna di una società della prestazione che ci porta a compiacerci nell’autoinfliggerci umiliazioni.

Mi chiedo spesso il perché di questa tendenza a godere nell’essere giudicati, umiliati, senza un accenno di ribellione. In nome di cosa, di quale fine ulteriore. Perché, dopo anni passati sui banchi di scuola, non sempre con voglia, si desideri trascorrere la serata guardando alla televisione dilettanti che si sfidano nel canto, cuochi della domenica che competono ai fornelli, persino – pare sia successo su RaiTre – scrittori che duellano a colpi di aggettivi. Una forma di sublimazione? Rivedersi, dietro al filtro dello schermo, nel cuoco umiliato dal grande chef o nella coetanea trasandata “rimessa a posto” dal sedicente esperto di stile (che finisce per conciare tutti nello stesso modo) aiuta ad allontanare l’ossessione della prestazione, come se non ci riguardasse? E invece ci riguarda, quando abbassiamo la testa di fronte all’ennesimo sopruso, sperando che prima o poi il nostro valore venga riconosciuto. Ci riguarda, quando facciamo i conti con acciacchi perenni che potrebbero addolcirsi se avessimo imparato a mandare al diavolo il despota di turno… Ci riguarda quando perdiamo la parte migliore della vita che, trascorsa così, di riduce a mera sopravvivenza. (Riflessioni al rientro da un viaggio, seduto in piscina di fianco a un paio di quarantenni-manager che parlano di fatturati, ordini e altre stronzate mentre dovrebbero starsene zitti a prendere il sole).

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cultura

Venezia da (ri)scoprire

A Milano o in qualunque altro posto, mi racconta mentre chiacchieriamo, io a spasso col mio cane, lui a godersi il sole delle undici, ci si riconosce dalla macchina. Italiana, straniera, grande piccola. “Qui le auto non ci sono, ovviamente. A Venezia basta la camminata. Da qui a cinquanta metri siamo in grado di identificare chiunque. Abbiamo sviluppato un occhio infallibile per l’andatura. E per i dettagli”.

Me la racconta così, la città di San Marco, quest’uomo di ottant’anni, mentre si gusta una passeggiata mattutina in Campo San Geremia, a due passi dalla stazione. Uno dei pochi veneziani orgogliosamente rimasti ad abitare in questa città unica, sempre uguale a se stessa, da secoli maestosa, imponente, commovente. Roba da stropicciarsi gli occhi, da darsi un pizzicotto per timore che, riaprendoli, il miracolo svanisca.

Perché i giochi dell’acqua, il suo rumore, il gorgoglio dei mulinelli tra i palazzi raccontano molto del genio italiano. Quello che, come una spina dorsale, attraversa la Penisola da millenni. Le facciate magnifiche testimoniano ancora oggi lo splendore della potenza che dettò legge nell’Adriatico, e non solo. Il paragone con il presente è impietoso.

Venezia, dopo il virus, è molto diversa. Presa d’assalto da decenni da un turismo mordi e fuggi che ne ha celato l’essenza e la lentezza, senza una visione che andasse oltre i profitti, ha l’occasione di riprendersi da se stessa.  Inutile guardare all’esterno: le ragioni del business hanno prevalso su tutto, e la scelta è stata proprio di chi avrebbe dovuto difenderla, i locali. Attenti “ai sghei”, e che il resto andasse a farsi benedire. 

La pandemia è arrivata dove la mano – o l’avidità – dell’uomo non avrebbero potuto: ne ha pulito le acque, svuotato i vicoli, restituito la bellezza. Che, nella quiete di un agosto diverso da tutti gli altri, ricorda la poesia di certi scorsi della Roma immortalata da Sorrentino. 

Le immagini delle navi da crociera stipate di migliaia di persone che – incredibilmente – incrociavano di fronte a piazza San Marco, in una fotografia cheap e americanoide, sbiadiscono poco a poco, ricordo di un’epoca che appare lontana.

Torneranno? Forse. Per il momento, è bello godersi ogni angolo, ogni sestiere, ogni scorcio. I mille ponti semivuoti, il ghetto ebraico – il più antico d’Europa – e i suoi silenzi. I viali assolati e coloratissimi di Burano. E la semisconosciuta Torcello, undici abitanti, in origine forse persino più importante del capoluogo, una cattedrale e un mosaico alto almeno otto metri che da soli valgono la visita.

Lascio la Laguna con la sensazione di aver vissuto un’esperienza riservata a pochissimi. Il virus, penso, ci ha restituito Venezia. Anche i prezzi – vivaddio – sono scesi. In fondo dista solo un paio d’ore di treno, perché non sono venuto più spesso? mi chiedo. 

Probabilmente, il problema è la folla. Molti di noi ricordano la Laguna come un pollaio in cui andare, mettere una croce, e poi scappare. Difficile muoversi, la sensazione onnipresente di essere spennati. Qualcuno, negli anni scorsi, ha persino pensato di farsi un caffè con un fornelletto sulle scalinate di San Marco. E’ stato multato e allontanato, con grande eco sui giornali. Senza sminuire la superficialità del gesto, pochi hanno ricordato che nei bar della zona un espresso può costare dieci euro. 

Prendo il treno per Milano promettendomi di spandere il verbo, prima che sia troppo tardi. Lo so, ci ho messo un po’. In trenta giorni, la paura del virus trattiene molti dal muoversi. Ma, per chi può, consiglio almeno un weekend qui: questo stato di grazia potrebbe non durare. Il futuro della città è nelle mani dei veneziani. Sarà banale dirlo, ma vale la pena di ricordarlo. 

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cultura, libri, musica, sport

Quattro autobiografie da leggere, quarantena o meno

Anche se il peggio è alle spalle e molti hanno ripreso a lavorare da casa, il lockdown non è ancora terminato. Mi permetto di offrire qualche consiglio di lettura per passare le ore che restano. Si tratta di un post che avevo in mente di scrivere da tempo ma che, per una ragione o per l’altra, non ho mai avviato. Rimedio ora: con la premessa che, a parte l’ultimo, si tratta di libri che ho letto uno o due anni fa. Mi si perdonerà, quindi, se non scendo troppo nei particolari. 


Il primo è “Life“, autobiografia di Keith Richards, leggendario chitarrista dei Rolling Stones. Il musicista inglese ripercorre la propria parabola personale e quella della band raccontando episodi inediti, ma anche i dettagli su origine, stile di vita e modo di lavorare del gruppo. Richards – o chi per lui – scrive bene. La descrizione della rivalità con Jagger porta a concludere che gli Stones, pragmaticamente, abbiano sempre scelto di restare insieme perché consapevoli di avere un potenziale economico non indifferente. Entrambi i leader tentarono strade soliste, tornando, poi, all’ovile. Più dell’ambizione poté il denaro, ma così va il mondo, e non è il caso di fargliene una colpa.


Il testo è imprescindibile per i fan, e va letto, a mio parere, tenendo come colonna sonora i dischi della band. Mano a mano che le pagine scorrono, diventa più chiaro il mood in cui gli album sono stati composti e registrati, la ricerca ossessiva di un suono chitarristico particolare – e dobbiamo ammettere che l’obiettivo è stato centrato, quello di Keef è inconfondibile – e lo sforzo che c’è dietro a una carriera del genere. Per fare un esempio: il chitarrista inglese re-imparò, da capo, a suonare la chitarra quando era già famoso “solo” per essere in grado di sfruttare le accordature aperte, in grado di fornirgli il sound giusto. Uno sforzo non proprio da tutti.

Come Jagger, Richards è altrettanto convinto dei propri mezzi, ma molto meno vanitoso, e sicuramente meno sbruffone. Un carattere più riflessivo, che lo porta a considerazioni interessanti e anche a una certa autocritica. Come quando racconta della session per una canzone. Un amico scuote la testa e gli dice che no, così non va. “Dov’è il groove?” chiede. Il commento è laconico. “Aveva ragione. Non c’era”. Difficile immaginare Mick ammettere un episodio del genere. O quando la figlia si rende conto che un brano degli Stones del ’97 firmato da Jagger (Anybody seen my baby) riprendeva il ritornello di una canzone in rotazione qualche anno prima, Constant Craving della canadese K.D. Lang.

Pare non fosse la prima volta. “Oh no, l’ha fatto di nuovo” sbottò Richards. Il plagio forse era involontario, ma c’era. Funzionava  più o meno così, racconta: il cantante degli Stones arrivava carico a mille per una nuova idea che gli ronzava in testa da qualche giorno, fino a che qualcuno non trovava il coraggio di dirgli che non era sua ma già registrata da qualcun altro. La cosa si risolse, in quel caso, inserendo la Lang nei credits, dal momento che il disco era già pronto e stava per uscire nei negozi. Insomma, si tratta di un libro imperdibile se siete fan della band, ma anche se volete calarvi in quegli anni che sono l’età dell’oro della musica rock. E magari rispondere alla domanda: “Ma come ha fatto a sopravvivere con tutto quello che si è preso?”

Il secondo è “True“, autobiografia di Mike Tyson. Dalle origini di ragazzo povero e ladruncolo a Hell’s Kitchen, quartiere di New York, agli allenamenti con Cus D’Amato, leggendario trainer che lo scoprì in carcere ma non fece in tempo a vederlo campione del mondo: già vecchio, morì poco prima.

Tyson è il prototipo della personalità autodistruttiva. Talento immenso, grandissima disciplina che lo portò a diventare un grande pugile già da giovanissimo, alternata, però, a momenti di blackout ed eccessi di ogni tipo: donne, alcol, droga. La potenza devastante di cui era dotato lo portava a vincere comunque, di solito al primo round. Quasi nessuno voleva combattere con lui, e anche gli sponsor non erano proprio contenti di incontri che duravano regolarmente meno di tre minuti. Sembrava inarrestabile, ma fu un’accusa di stupro a spedirlo in galera. Una volta uscito, non fu più lo stesso.

Se Richards era il drogato cronico ma capace di controllare le sostanze, la mente e i propri sballi, Iron Mike, come lo chiamavano, era completamente schiavo delle proprie ossessioni e dipendenze. Ci provò tante volte, a mettere la testa a posto, ma ogni volta gli amici e l’abitudine lo trascinarono indietro. Fu anche sfortunato: Don King, il suo agente, lo derubò di milioni di dollari, un figlio si impiccò per sbaglio con una corda trovata in garage. Tyson, in qualche modo, riuscì sempre a raccogliere i cocci, sopravvivendo a colpi che avrebbero steso molti.

Bambino solitario, preso in giro dai compagni, si trasformò nel giro di qualche anno in pugile devastante per prendersi le proprie rivincite. Ma la fragilità interiore non si cancella con gli allenamenti, e nemmeno con le vittorie. Citazione, non dal libro, ma che rende l’idea della lotta dilaniante: “Senza sforzo, non c’è progresso. Ci deve essere sforzo nella vita. Per controllare il tuo ego devi aumentare l’esperienza. Perché, sai, un ego può essere frantumato, può essere ucciso, può essere schiacciato: ma torna indietro. Non muore mai. Questo è il problema dell’ego: non muore mai”.

Un racconto appassionante, che ripercorre anche tutti gli incontri del pugile americano, narrati con disarmante semplicità. Di solito, una volta sul ring, gli bastava uno sguardo all’avversario per inquadrarlo e capire l’esito del match, a volte persino il numero di riprese (sempre poche) prima di mandarlo al tappeto. La storia  è quella di una lotta senza fine alla ricerca della serenità; una lotta che mostra, però, ancora una volta, come non si diventa mai campioni per caso.

E’ un libro più forte di quello di Richards; qui si parla di furti, rapine, violenza, droga. Il senso di inquietudine è costante, e, mentre alla fine il chitarrista tossico si è diventato un nonno felice e ricco, Mike deve ancora raggiungere il proprio equilibrio. Sicuramente il volume ha rappresentanto una terapia necessaria per sgravarsi dei troppi carichi accumulati nel corso di una vita altalenante, come tanti grandi del pugilato che hanno bruciato il proprio talento.

Open“, invece, è il titolo dell’autobiografia di Andrè Agassi. Il libro fu un successo clamoroso quando uscì, una decina di anni fa, e riportò in auge il genere delle autobiografie, anche se scritte con l’aiuto di un ghost writer. E’ ancora difficile trovarlo in biblioteca, tanto è richiesto. Provare per credere.

André è il figlio di un immigrato iraniano che, intravisto il talento del figlio, in perfetto stile americano, decide di farci un bel mucchio di quattrini. Per riuscirci, lo sottopone sin da piccolo ad allenamenti massacranti con una macchina sputapalline che il piccolo paragona a un mostro, e lo spedisce in Florida all’accademia quasi militare di Nick Bollettieri.

Ribelle e controcorrente, il talento e il look stravagante impongono il Kid  di Las Vegas all’attenzione rispettivamente dei circoli tennistici e dei media sin da giovanissimo. Chi c’era a fine anni Ottanta ricorda bene la sua chioma fluente e i pantaloncini colorati. Agassi si allena, vince, ma è un ragazzo insicuro che non è mai riuscito a completare il proprio sviluppo psicologico, forse perché gli è stata strappata l’infanzia dalla figura ingombrante del padre-despota. Non pervenuta la madre. La sua fragilità emotiva lo portò a vittorie fulminanti e a crolli disastrosi. Si ritrovò, a un certo punto, a ricominciare da zero, dai tornei per dilettanti, per ri-costruire il proprio stile di gioco e, soprattutto, la propria psiche. Arrivò un nuovo allenatore, estremamente pragmatico, che lo aiutò a badare al sodo, a non perdersi in ghirigori mentali: la vittoria tornò, ma quanta fatica.


Ovviamente destinato in primis agli amanti del tennis, Open è godibile anche da chi (come il sottoscritto) non rientra nel novero degli appassionati. Contiene, inoltre, due grandi rivelazioni, che ai tempi scioccarono la stampa: la prima è che Agassi ha odiato il tennis da sempre, e con tutte le forze. Difficile da credere, ma è così.

La sua è la storia di un ragazzo baciato da un dono eccezionale, ma incapace di provare amore per lo sport che lo rese famoso. La descrizione di questo sentimento è straziante, e credo che molti possano, in qualche maniera, ritrovarvisi. La seconda è che la sua ben nota chioma era, in realtà, un parrucchino, che, con il sudore e lo sforzo del campo, si impiastricciava fino a creare situazioni di cui non mi spingo a parlare. L’attenzione portata all’eccesso per il look da parte di uno sportivo – non, quindi, di un attore – ne evidenzia il bisogno di piacere ed essere accettato.

Il filo conduttore del libro è la rivalità con un altro grandissimo del tennis: Pete Sampras. Innumerevoli gli scontri tra i due. Alla fine la spunterà Sampras, più regolare: ma, probabilmente, è stata proprio questa sfida a fornire ad Agassi le motivazioni che, senza avversari all’altezza, avrebbe perso ben presto. E comunque, se non ricordo male, in questo duopolio tennistico fu solo lui a vincere tutti e quattro gli Slam. 

Uno dei pochissimi italiani citati nel volume è Andrea Gaudenzi. Mi capitò di intervistarlo, tempo fa. Alla domanda su quale fosse il giocatore più forte mai incontrato in carriera mi rispose così: “Senza dubbio Agassi. Quando era in forma, sembrava che lui giocasse a tennis e tu a ping pong”.  Se dovessimo sintetizzare cinquecento pagine, in questa frase si trova tutta l’essenza del campione statunitense.

Per concludere, un libro a metà tra biografia e l’autobiografia. Si tratta del lavoro di Sebastian Marroquìn, alias Juan Pablo Escobar, figlio del narcotrafficante ucciso in Colombia nel 1993. Mi ci sono imbattuto perché durante il lockdown mi sono lasciato appassionare da Narcos, serie di Netflix che avevo sempre snobbato perché non amo il marketing cinematografico (e non solo) che al giorno d’oggi si usa fare con droga e mafie. Premetto che in Colombia ci sono stato l’anno scorso, e ho avuto modo di apprezzarla di persona: magari ne scriverò, ma immergermi nella serie mi ha dato modo di rivivere luoghi e atmosfere, che, devo dire, sono descritti molto bene.


Il libro si chiama “Il padrone del male” (gli scagnozzi chiamavano il capo “patron”) e racconta la figura del boss dal punto di vista del figlio.


Quello che ne esce è il ritratto di una personalità scissa tra l’amore per la famiglia, che rese Escobar un padre affettuoso e attento, e la ferocia del criminale. La realtà, narra Sebastian, è stata molto peggiore di quella – già terrificante – raccontata da Netflix. La Colombia degli anni ’80 e dei primi ’90 (per non parlare di Medellìn) era un paese in cui la vita non valeva nulla e si poteva morire ammazzati per un’autobomba o crivellati di colpi mentre si faceva la spesa. La strategia terroristica del narcotrafficante faceva impallidire quel che accadde in Italia con la strategia della tensione, le Brigate Rosse e la stagione mafiosa. Del resto, il boss era un grande estimatore di Totò Riina, sanguinario leader dell’ala stragista di Cosa Nostra.


Il successo di Escobar comincia a vacillare quando si mette in politica: un tempo solo imprenditore amato dai poveri ma dalle attività poco chiare, una volta entrato in Parlamento la sua fortuna venne passata sotto la lente di ingrandimento. Fu l’inizio della fine. Il primo a rimetterci la vita fu il ministro della Giustizia, Lara Bonilla; ma el patron, da quel momento in avanti, condusse una guerra scoperta e sempre più efferata contro lo Stato colombiano, con l’obiettivo di ottenere l’abrogazione del trattato che consentiva l’estradizione dei narcos negli USA. Una guerra che, tra alti e bassi, lo condusse alla morte.


Tutto questo viene raccontato con dovizia di particolari nel libro da Marroquìn. Classe ’77, il ragazzo fu ben presto reso edotto delle attività del padre, rimanendo, però, sempre scettico, almeno a quanto racconta. Il genitore morì nel ’93, quando lui aveva 16 anni, non senza averlo trascinato prima in un vortice di fughe, nascondigli, sparatorie, e messo a parte di tanti delitti.


Quello che colpisce è come Marroquin sia riuscito a diventare un uomo profondamente distante dal genitore. Architetto e designer, fu costretto a cambiare identità per poter provare ad avere un futuro con la propria famiglia fuori dalla Colombia: dopo molti rifiuti – comprensibili a quel tempo – li accolse solo l’Argentina. Il cognome continuava a perseguitarli, e, nonostante l’impegno, rifarsi una vita non fu facile.


Morto il padre, i boss del cartello rivale di Cali considerarono l’idea di ucciderlo: avrebbe potuto vendicarsi, un giorno. Ma non voleva. “Mi chiusi in me stesso e iniziai a immaginare il modo in cui avrei potuto portare a compimento la mia minaccia [di uccidere i nemici del padre]. Il desiderio di vendetta era immenso. Ma in un lampo di lucidità, che sarebbe stato provvidenziale, mi si presentarono di fronte due strade: trasformarmi in una versione più letale di mio padre, oppure mettere da parte, per sempre, il suo cattivo esempio. In quell’istante mi tornarono alla mente tutti i momenti di depressione e di noia vissuti insieme a lui, quando ci nascondevamo nei suoi covi. Allora pensai che non potevo seguire le sue orme, che tante volte avevo criticato”.


Il giovane si trovò di fronte a una scelta. Sapeva vivere come un mafioso, conosceva i trucchi del mestiere, la diffidenza e la scaltrezza necessarie per scampare a un agguato e anche quelle per trattare con criminali, polizia e governo (che, nella Colombia di quegli anni, avevano ruoli intercambiabili) ma non aveva mai preso un autobus e non sapeva ordinare un hamburger da McDonald’s perché c’era sempre stato qualcuno a farlo per lui.


In Argentina si mise a studiare sodo, laureandosi. La sua storia fu scoperta, e non sempre trovò clienti disposti a farlo lavorare: ma si guadagnò con sudore una reputazione da persona onesta. Parliamo di un uomo che da designer prendeva uno stipendio di circa mille dollari al mese, buono per pagarsi l’affitto e le utenze, certo: ma soldi “che fino a qualche anno prima avrei lasciato in un paio di mance”. Un uomo abituato a comandare che si trovò, all’improvviso, a essere un parìa. Senza patria e senza colpa alcuna, dal momento che non aveva commesso crimini, né avrebbe potuto impedire quelli del padre.


Il cartello di Cali gli impose di non dedicarsi al narcotraffico, la cosa più semplice per uno come lui. E chissà quanto abbia contato la minaccia di un fucile puntato per costringerlo a rigare dritto. Quel che è certo è che, oggi, le parole di Marroquìn sono capaci di criticare Escobar in maniera implacabile ed estremamente lucida per tutto quanto fu capace di fare al di fuori dell’ambito familiare. Si tratta di un giovane a cui è stata rubata la vita, e che non ha mai potuto condurre un’esistenza veramente libera. E’ solo possibile immaginare, in lui, lo strazio, lo scoramento e  il conflitto tra gli istinti peggiori e la ragione. Ha sempre prevalso la seconda. Anche questa è resilienza. 

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cinema, cultura

Perché vedere (o non vedere) l’ultimo di Tarantino

Lo dico subito, così non ci pensiamo più. C’era una volta a Hollywood, il nuovo film di Quentin Tarantino, non mi ha convinto. Non che sia una brutta pellicola, ma il regista californiano ci ha abituato fin troppo bene, e il risultato, una volta tanto, delude le aspettative. Che erano, da par suo, altissime.

Tarantino prende spunto dalla strage di Bel Air, eccidio che nel 1969 vide trucidata Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, assieme ad altre quattro persone, mentre il polacco si trovava a Londra.

L’eccidio fu compiuto da una setta di fanatici hippy ispirati da Charles Manson (che però non partecipò all’agguato, preferendo rimanere nascosto nella comune dove viveva), e scioccò il mondo immerso nel flower power del 1968.

Questa la cornice, che fa da sfondo alla storia di Rick e Cliff, un attore di serie B e il suo storico stuntman, amici per la pelle anche se divisi da un abisso in termini di ricchezza. Lo stile di vita, fatta la tara ai guadagni, è più o meno lo stesso: birra, cocktail, sigarette, musica a tutto volume, nessun orario. Il regista descrive le alterne fortune della carriera di Rick, che ha al suo fianco un amico fedele in grado di tirarlo fuori da guai quando occorre.

Un racconto carino dello spirito dei tempi e del mestiere dell’attore. Il problema è che tutto finisce qui. Il film è calato nell’atmosfera di quegli anni formidabili, ma non scava nel rapporto umano tra i due, restando in superficie, e dice poco anche sui tormenti di chi recita e vede la carriera scemare. Non che la specialità del regista di Los Angeles sia insegnare qualcosa, ma personalmente mi è rimasta la sensazione di un‘incompiuta. Manca la tensione narrativa, una trama compatta che riesca a tenere avvinto lo spettatore, per un regista che del climax ha fatto il suo marchio di fabbrica. La pellicola scorre placida e godibile, e questo è tutto. Anche qui, intendiamoci: ciò che a molti sarebbe perdonato, con Tarantino lascia spiazzati.

Il film, nonostante tutto, è carino, con numerosi siparietti divertenti (notevole quello con Bruce Lee), e le due ore e mezzo scorrono, tutto sommato piacevoli.  Le inquadrature sono coloratissime (il regista californiano con la macchina da presa ci sa fare, non è una novità, e lo stile anni Sessanta non passa mai di moda) e anche la colonna sonora è godibile  (ma meno di altre occasioni, vedi Pulp Fiction o Kill Bill).

Brad Pitt e Di Caprio? Che dire, sono bravi e si sapeva. Anche in questa occasione si confermano all’altezza. A giudicare dagli ululati, il pubblico femminile in sala non ne apprezza solo le doti recitative. C’è anche una particina per De Niro, che non si scatena.

Dicono che Tarantino abbia lavorato alla sceneggiatura per cinque anni. A me pare che si sia preso una lunga, lunghissima vacanza in attesa di tornare con il decimo – e a suo dire ultimo  – film. Ci auguriamo che non sia così.

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cultura, salute

Padiglione cancro, di Aleksander Solgenitzin

Aleksander Solgenitzin vinse il premio Nobel negli anni ’70, ma non, come molti credono, per “Arcipelago gulag”, la sua opera più famosa. Gli accademici di Svezia lo incoronarono per un’opera poco conosciuta,  il romanzo “Padiglione Cancro”.

Ne avevo sentito parlare e mi incuriosiva, così quando l’ho trovato sullo scaffale di un negozio di libri usati l’ho comprato subito. Di Solgenitzin non avevo mai letto nulla.

Mi aspettavo un autore pesante e un libro noioso, insomma ero rassegnato e pronto ad abbandonarlo.  Mi sbagliavo. Ho scoperto che il nostro è un grandissimo scrittore, capace di rendere con tratti rapidi ed efficaci uno spaccato della quotidianità in un ospedale sovietico, senza rinunciare, in più di una circostanza, a toni persino umoristici.

Siamo nell’Uzbekistan degli anni Cinquanta.  Nelle corsie del padiglione 13, quello riservato ai malati oncologici,  si intrecciano le storie dei protagonisti: paure, ansie, infatuazioni, piccole e grandi meschinità. Medici e pazienti vengono descritti con una profondità di sguardo e una conoscenza dell’animo umano che a tratti meraviglia.

L’autore, che negli anni Cinquanta aveva ricevuto una diagnosi di cancro ed era stato ricoverato proprio come i personaggi del libro, riversa nelle pagine parte della propria esperienza; del resto, la terminologia ricca di dettagli lascia pochi dubbi sulla sua padronanza della materia.

Ma Padiglione cancro è almeno altre due cose. In primis uno spaccato su una malattia, e relative terapie, per come era percepita quando ancora lasciava poche speranze. Allora si moriva molto più di oggi; ma è interessante vedere come gran parte delle tecniche di cura fossero già impiegate (chirurgia, radioterapia, chemio, ormonoterapia; per chi fosse interessato al tema, consiglio anche “L’imperatore del male – una biografia del cancro” di Siddharta Mukherjee).

L’altro profilo per cui si tratta di un romanzo da scoprire (o da rileggere) è che la vita di corsia e l’intrecciarsi dei destini offrono uno visione estremamente realistica e particolare della società sovietica. Lontano dall’inferno dei gulag, Solgenitzin racconta la quotidianità di un paese dove per fare la spesa serve la tessera e per spostarsi da una città all’altra bisogna chiedere il permesso alla polizia. Il comunismo ne esce per quello che fu, un gigantesco esperimento sociale capace, in nome dell’ideologia, di sacrificare milioni di esistenze; ma, al di là della valutazione storica, mi sembra che questo lungo romanzo possa essere considerato come l’antesignano di tutto il filone di “medical tv” che, da ER in poi, ha spopolato in Occidente. Scritto trent’anni prima. Insomma, leggetelo.

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cultura, milano

Milano saluta Dario Fo

Scroscia la pioggia, cappotti bagnati. I funerali sono eventi tristi. Ce ne sono di  baciati dalla sorte, con il cielo che accompagna le parole e infonde speranza. Non e’ il caso di Dario Fo. A Milano un ticchettio incessante puntella ombrelli e impermeabili.

Il seguito che ha accompagnato l’attore in vita, nascosto fino a ieri nelle case sotto i maglioni di inizio autunno, emerge come un fiume carsico.  Fo, semplicemente, non c’e’ piu’, e al cuore manca un pezzo. funerali-dario-fo

E’ il popolo di chi  conosce la fame, il dolore,  la fatica di vivere e non riesce a convincersi che le carte non siano truccate. Di chi la mattina si alza dal letto per i figli, piu’ che per se stesso. Di chi ha il fiato grosso per la rabbia di vivere in una societa’ sempre piu’ lontana dai bisogni primari, in cui la forbice tra chi ha troppo e chi non possiede nulla si allarga senza pieta’. Fo non ha mai perso la capacita’ di ascoltarne il lamento. La sua opera teatrale, come ha ricordato Carlo Petrini nella splendida orazione funebre, e’ inscindibile dalla politica, perche’ il suo teatro nasceva dalla vita. Quanto fosse importante per Milano si legge nelle lacrime che sciolgono il rimmel di signore attempate e ragazze ancora giovani. Si intuisce dalla strana assenza di fotografi da cellulare, normalmente attenti a immortalare ogni cosa.

Ci lascia un altro gigante. Ho assistito ai funerali di Umberto Eco, a febbraio. Per quanto la cultura del professore piemontese abbia significato per l’Italia e le migliaia di persone che si sono recate al Castello Sforzesco a salutarlo, Eco era un intellettuale d’accademia e d’osteria. A Fo, e lui sarebbe contento di sentirlo, dell’accademia non fregava niente. Era l’amico a cui e’ andata meglio, che non dimentica chi e’ rimasto indietro, quello che ti ascolta, non ti da’ consigli, ma spende un’ora – o una vita – per farti ridere e ricordarti che dietro alla maschera di un sorriso puo’ esserci il tuo stesso dolore. Una signora sotto la pioggia regge un ombrello.  C’e’ scritto “allegri”, un marchio come tanti. Rivoli d’acqua lo lambiscono, e scivolano a terra. Come a dire, anche il dolore passa.

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