ambiente, economia, sostenibilità

L’accordo sulla plastica fallisce nel silenzio dei media

La conferenza di Ginevra per arrivare a un trattato vincolante sulla plastica è naufragata il 14 agosto. Di nuovo. Il percorso è cominciato nel 2022, e dopo quattro rinvii, questa volta – la quinta – doveva essere quella buona. Due i fronti principali: chi vuole un tetto alla produzione (un centinaio di paesi, tra cui la delegazione Ue, ma non l’Italia, coinvolta nella filiera del packaging) e chi preferisce puntare sul recupero e riciclo (i paesi produttori di petrolio, perché la plastica si ricava dagli idrocarburi; ma c’è anche la Russia). Ci sono, naturalmente, molte altre questioni sul tavolo: per esempio quelle legate al tipo di sostanze chimiche da bandire, e a una progettazione che renda più semplice il riciclo, oltre al meccanismo finanziario che dovrebbe consentire la transizione.

Non la faccio molto lunga, ma dopo dieci giorni di discussioni non si è arrivati a un accordo.
Il motivo è semplice: come sempre quando si parla di ambiente oggi, nel 2025, è impensabile affrontare la discussione senza legarla all’aspetto economico. Il petrolio come combustibile sarà abbandonato, e i paesi che lo producono vedono nella plastica una risorsa per continuare a valorizzarlo ; altri, come l’India, non sono esportatori ma insistono sul fatto che i costi della transizione e degli adeguamenti debbano essere adeguatamente ripartiti, anche guardando ai dati storici (just transition).

Per chi le segue, il canovaccio è più o meno lo stesso visto alle Cop, le conferenze delle parti sul clima. E anche la complessità dei negoziati, che si sono protratti fino a notte fonda. Non mancano le stranezze: ho visto un paper dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) che consiglia di smettere di produrre sigarette col filtro. La spiegazione è che normalmente viene disperso nell’ambiente da chi getta i mozziconi a terra, e questo è facile da comprendere. Ma dal punto di vista della salute? La risposta è che peggiorando il gusto, si spera di diminuire l’affezione dei consumatori.

Quello in cui questi negoziati, tenuti a Ginevra, non assomigliano per niente alle Cop è che sono stati poco o nulla coperti dalla stampa, e anche dagli addetti ai lavori, complice il caldo agostano.
Eppure un accordo avrebbe un significato epocale.

Siamo sempre più nell’era di Instagram, per cui si può organizzare una Cop del clima (che viaggia in media attorno ai 70mila partecipanti) in una piccola cittadina brasiliana inadatta a ricevere delegazioni cosìnumerose per rivendersela mediaticamente come “la Cop dell’Amazzonia”; ma si parla poco, pochissimo di una conferenza sulla plastica come quella di Ginevra che, avesse avuto successo, sarebbe finita sui libri di testo.

Così è se vi pare. Nota di demerito per le lobby degli industriali, anche questa volta la singola delegazione più rappresentata. Coinvolgere l’industria non è sbagliato, è impensabile dimenticare un attore importante della società se si vuole realmente implementare le decisioni: ma è importante che il lobbismo avvenga allo scoperto, nella maniera più manifesta e trasparente possibile. Cioè con nomi e cognomi delle aziende, e un’indicazione chiara delle proprie posizioni, in modo da poter inchiodare ciascuno alle proprie responsabilità ed evitare il solito greenwashing.

Foto: enb.iisd.org

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ambiente, clima, cop, inchieste, reportage

Un crowfunding per Hope, documentario sulla Cop30

Li ho conosciuti in questi anni passati in giro per il mondo a seguire conferenze sul clima, le Cop: da Glasgow a Sharm El Sheikh, da Dubai a Baku loro c’erano, cellulari e pc alla mano, per raccontare quello che accadeva. Sono giovani, svegli, preparati. Soprattutto, lavorano bene sui media digitali per portare a un pubblico ampio i temi del cambiamento climatico – quello che in ambito universitario viene chiamato disseminazione della conoscenza: perché la ricerca non basta, se non impara a uscire dai corridoi degli atenei.

L’associazione è Change For Planet, e per la Cop30 di Belém (Brasile, in scena a novembre) ha pensato di girare un documentario che racconti le contraddizioni dello Stato sudamericano. “Nel cuore pulsante dell’Amazzonia, tra Belém e Manaus, seguiremo il cammino di giovani attivisti e attiviste dall’Europa e dall’America Latina, uniti a ong e comunità indigene che ogni giorno affrontano, vivono e combattono gli effetti della crisi climatica”, dice la presidente Roberta Bonacossa. Un lavoro ambizioso e indipendente, per raccontare gli aspetti meno mediatici dell’appuntamento.

Hope, questo il nome del progetto, sarà finanziato da un crowdfunding. Aiutarlo con un piccolo contributo è un’idea da considerare (qui ci sono tutte le informazioni per farlo): Change for Planet ha svolto un ottimo lavoro in questi anni, e merita la chance di salire sull’aereo per il Sudamerica. L’opera di divulgazione che l’associazione ha portato avanti non ha padrini compromessi con il mondo delle fonti fossili  ed è ritenuta da molti giovani più affidabile (non a torto) di quella di tanti giornali.

Ma la scelta di finanziare questi ragazzi ha anche il senso di farli crescere come professionisti, consentendogli di lavorare a un progetto strutturato e più ambizioso di quelli realizzati finora. La Cop30 brasiliana sarà una conferenza mediatica, preparata per Instagram e per catturare like, e c’è bisogno di voci alternative, fuori dal coro. In bocca al lupo.

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cultura

Se l’arte è (anche) politica

Edison Vieytes è un artista di Montevideo in Italia dal 1982. L’ho conosciuto su una spiaggia calabrese che frequento da molto tempo. Il caldo ci costringe a spogliarci degli abiti, e con essi, di buona parte dei nostri costrutti sociali. In costume, sulla battigia, si resta, più o meno, quello che siamo.

Presentati da un amico, ci siamo rapidamente piaciuti e trovati a parlare di Sudamerica, disuguaglianze, ambiente. Del ruolo dell’arte e della cultura in una società sempre più tecnica, parcellizzata, distante dall’essenziale. Il poeta- albatros (il pittore, nel suo caso) – guarda il mondo dall’alto, supera i confini tra le discipline, scova significati appannati dalla coltre di rumore.

Il mare, l’acqua, conciliano le chiacchiere. Mi ha raccontato delle praterie dell’Uruguay, dalle natura, della colonizzazione delle multinazionali. Di solito gli artisti hanno ego smisurati: non è il suo caso.

La Calabria, come tanti altri territori, sta sperimentando il cambiamento climatico. Fa più caldo, e più a lungo. L’erosione costiera è una realtà. Ma, tra i tanti problemi di questa terra, all’ambiente non spetta un posto. Compito dell’arte, allora, è riportarci all’essenza. Mentre scrivo queste righe, ho sul comodino, come tutti gli anni quando vengo qui,“L’utilità dell’inutile” (Bompiani), del compianto Nuccio Ordine, indimenticato studioso di Diamante (Cosenza), apprezzato un po’ ovunque e mancato troppo presto lo scorso anno.

Ordine, con penna leggera e senza mai trascendere nel giudizio pedante, insiste sull’importanza di non abbandonare l’arte e lo studio dei classici, di non cedere alla mera cultura della tecnica: a non lasciarsi, cioè, guidare solo da ciò che è utile, pur riconoscendone il valore. Le sue pagine, che ormai hanno oltre dieci anni, sono un appiglio solido in questi tempi di frenetico nonsenso. Uno dei pochi, e meritano di essere rilette.

Nelle foto:
Salvezza
@vieytesedison

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ambiente

Vince Eni: per il Consiglio di Stato il diesel può essere “green”

Il Consiglio di Stato ha deciso: è possibile definire “green” anche un carburante. Il caso riguarda Eni, multinazionale italiana dell’oil and gas; la comunicazione della sentenza è arrivata l’altro giorno dopo una vicenda durata quattro anni, ed è stata accolta “con sodisfazione” dal cane a sei zampe.

La suprema corte amministrativa, afferma l’azienda, “ha accertato che nessuna pratica commerciale scorretta è stata messa in atto da Eni ai danni dei consumatori, e che gli addebiti a suo tempo mossi dall’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e il Mercato) sono da ritenersi infondati, disconoscendo il principio secondo cui termini quali ‘green’ e simili non possono mai essere associati a prodotti considerati, per loro natura, “non a impatto zero. Del resto, alle stazioni di rifornimento abbiamo da decenni la benzina “verde”. O no?

Così prosegue la multinazionale, che ultimamente appare come sponsor anche in Festival culturali come quello della letteratura di Mantova, in una nota diffusa a margine:

“Il Consiglio di Stato ha integralmente accolto il ricorso di Eni nel procedimento con il quale la società era stata condannata al pagamento di una sanzione di 5 milioni di euro. L’AGCM nel 2020 aveva contestato la valorizzazione in termini di beneficio ambientale della componente green costituita dalla percentuale di HVO (biocarburante idrogenato) miscelata nel diesel. Con la sentenza del Consiglio di Stato si chiude una vicenda che ha causato a Eni un rilevante danno economico nonché reputazionale, avvalorando ingiuste accuse di ‘greenwashing’ che ora si rivelano totalmente infondate“.

In realtà, la “benzina verde” cui siamo abituati è un reliquato degli anni Ottanta, quando era necessaria per utilizzare le prime marmitte catalitiche e distinguerla da quella classica, che di conseguenza prese a essere chiamata colloquialmente”rossa”.

Quasi mezzo secolo dopo, pare proprio che si tratti di una distinzione superata. E che sia, piuttosto, un grosso regalo alle società che estraggono idrocarburi.

Il fatto è che è acclarato dalla scienza che il riscaldamento globale cui stiamo assistendo è di origine antropica: e, per dirla in parole povere, non è il caso di alimentare dubbi al riguardo, accostando colorazioni e aggettivi che richiamano la sostenibilità ai combustibili fossili.

Ma, secondo il Consiglio di Stato, le cose non stanno così: “Non può dubitarsi – scrivono i magistrati – in linea di principio, della legittimità dell’impiego di claim ‘green’ anche in relazione a prodotti (come nel caso di specie un carburante diesel) che sono (e restano) in certa misura inquinanti ma che presentano, rispetto ad altri, un minore impatto sull’ambiente”. Insomma, liberi tutti. Eppure, cinque milioni sono una sanzione minuscola per i bilanci di Eni. E quanto alle accuse di greenwashing, si è già detto che sempre più spesso si vede l’azienda presenziare a eventi culturali di grande prestigio. Forse i magistrati intendevano suggerire che sarebbe più appropriato parlare di bookwashing.

Secondo il Guardian, negli ultimi sette anni l’80% delle emissioni carboniche è stato prodotto da sole 57 aziende globali, tra cui l’Eni. Il conteggio(effettuato dagli scienziati di Carbon major database, che tengono un archivio specializzato) è stato avviato nel 2016, all’indomani dell’accordo di Parigi sul clima. Petrolio, gas, cemento: alcune sono private, altre controllate dagli Stati o a capitale misto. E la quota di quelle in cui sono proprio i governi a investire (come il gigante italiano) è aumentata nel tempo, impennandosi tra il 2000 e il 2010 (all’indomani del protocollo di Kyoto) e, ancora, dopo il 2016.

Invece di diminuirla, dice Carbon Major, la maggior parte delle società ha espanso la produzione dopo l’accordo firmato nella capitale francese a metà del decennio passato, quello che ha segnato una svolta nelle politiche climatiche.

E intanto, mentre estraggono, raffinano e vendono carburanti “green”, le multinazionali del fossile provano a spostare il baricentro della responsabilità sui consumatoti. Così scrivono Greenpeace e ReCommon:

Nel 2004, racconta il giornalista Mark Kaufman su Mashable, la multinazionale britannica BP – attiva nel settore dell’oil&gas – promosse uno strumento di comunicazione che ha (purtroppo) avuto nel tempo uno straordinario successo. L’azienda, spiega Kaufman nella sua inchiesta, presentò in quell’anno ‘il suo ‘calcolatore dell’impronta di carbonio’, in modo che si potesse valutare come la normale vita quotidiana – andare al lavoro, comprare cibo e viaggiare – sia in gran parte responsabile per riscaldamento del pianeta’.”

In pratica, si è cominciato a cercare deliberatamente di convincere il cittadino che modificando il proprio stile di vita, per esempio usando i mezzi pubblici qualche volta in più, avrebbe dato un contributo decisivo a salvare il pianeta in fiamme. In parte è senz’altro vero; ma i tempi sono biblici, e non è quello di cui abbiamo bisogno. Non solo.

Diversi studi dimostrano che le simpatie ecologiste dei consumatori raramente si traducono in comportamenti di acquisto coerenti: la situazione pare stia migliorando, ma non c’è corrispondenza netta: in pratica, davanti al carrello della spesa o alla vacanza low cost dall’altra parte del mondo, siamo molto meno ecologisti di quanto ci piaccia credere. Inconsciamente, ci dimentichiamo dei nostri convincimenti. Su questa divergenza qualcuno ha anche costruito delle app, vendute ad aziende che vogliono rifarsi il belletto. Ma sono dettagli, e in fondo è business.

Sono le imprese, ed è qui il punto, ad avere la responsabilità di cambiare i propri modelli di business per trovarne di più sostenibili. Guidate come sono da consigli di amministrazione esperti, hanno gli strumenti per la transizione; invece, spingono al massimo finché è possibile, perché hanno compreso che il vento sta davvero cambiando.

lIl dibattito (anche quello, se mi perdondate la battuta) è inquinato. Non aiuta la poca chiarezza da parte dei policymaker. Come raccontavo su Wired, la Corte dei Conti europea ha recentemente bastonato i politici di destra e sinistra per le banalità – quando non proprio frottole – che raccontano agli elettori sul clima. Per esempio, il passaggio alla mobilità elettrica fosse a costo zero (dimenticano le infrastrutture necessarie e non ancora pronte, i costi ambientali dell’estrazione e molto altro, come l’indotto dell’auto a motore endotermico, fondamentale per tante persone); ma anche il fatto che i test sulle vetture elettriche sono condotti male. Quasi un electric gate,  per chi ricorda il tragicomico Dieselgate della Volkswagen, con le centraline taroccate perché le auto performassero meglio in termini di emissioni quando si accorgevano di essere sui banchi delle officine di valutazione.

A condire quest’insalata amara ci si mette, da par suo, il simpatico meloniano Pietro Fiocchi, erede dell’omonima famiglia di produttori di cartucce da caccia. Fiocchi ha riempito Milano di gigantografie sponsorizzando la propria candidatura al Parlamento europeo, e, nel farlo, se la prende con l’attivista Greta: “Miss Thunberg, go back to school” dice con aria da maestro e tanto di occhiali. Non avendo spiegato cosa intende fare in alternativa rispetto a chi ha avuto il merito di rendere comprensibile la crisi del clima, il consiglio che viene da dargli è che si metta a studiare lui.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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clima, cop

Troppi partecipanti: chi può permettersi di organizzare le Cop?

Dubai – Pare che nessuno voglia organizzare le prossime Cop. O possa permetterselo. La conferenza viene assegnata a turno, procedendo per macroaree , ma è necessario il consenso di tutti i paesi della zona per ottenere l’incarico. L’anno prossimo toccherebbe all’Europa dell’est, ma il veto della Russia, contraria a paesi Ue per via del sostegno all’Ucraina, rischia di bloccare tutto. Se l’accordo non arrivasse, le regole prevedono che tocchi all’ultimo organizzatore, cioè gli Emirati. Ma il presidente Sultan al Jaber ha già detto, in sostanza, che il Paese non è disponibile.  Si valuta l’idea di andare a Bonn, dove tutto cominciò negli anni Novanta. Ma anche la Germania non ci tiene. E nelle ultime ore ha preso quota l’ipotesei Azerbaijan. Come finirà lo vedremo.

Il fatto è che le conferenze stanno diventando sempre più grandi: quest’anno ci sono circa ottantamila partecipanti. Anche una città come Dubai e una struttura come quella del centro congressi costruito per l’Expo 2020 faticano a ospitarle. Il record precedente appartiene a Sharm el Sheikh l’anno scorso: praticamente un raddoppio in dodici mesi. Bonn, città di trecentomila abitanti, non potrebbe permetterselo. Anche per la difficoltà di alloggiarle: come si vide bene a Glasgow, con stanze affittate anche a cinquemila euro a notte dagli speculatori, e delegati che dormivano a due ore di treno.

A Dubai invece gli spazi ci sono, ma il problema sono le code dovute ai controlli che le procedure antiterrorismo impongono. I primi giorni servivano anche due ore per entrare. Il che pesa, e parecchio, sulla fatica dei delegati, le cui giornate cominciano molto presto e finiscono, al solito, molto tardi. La situazione è migliorata, ora che ci si avvia alla fine.

Insomma, per fare una battuta, a causa delle code pare che non ci sia la fila per organizzare le Cop. Il Brasile ha già prenotato quella del 2025 a Belem, in Amazzonia. Darebbe visibilità a un Paese che si trova ad affrontare una crisi dopo l’altra, l’ultima la siccità proprio nel polmone verde.

Ma se organizzare una conferenza delle parti è il modo per ottenere l’attenzione che molte tematiche richiedono e di cui molti Stati hanno bisogno, il problema è che non tutti sono in grado di gestire un impegno del genere a livello logistico. Da conferenze di nicchia, per esperti, come erano nate negli anni Novanta (la prima a Bonn fece registrare tremila delegati, tutti tecnici), le Cop si sono democratizzate di  pari passo con il ruolo che la crisi del clima ha assunto nel dibattito pubblico.

È il paradosso dell’inclusività – dice Jacopo Bencini, policy advisor della rete di scienziati Italian Climate Network -. Si è risposto sì alle richieste di incremento badge da parte delle delegazioni, che si sono costruite delle professionalità di cui nei primi anni non disponevano e le portano con sé per dare forza all’azione negoziale; ma si è risposto in maniera affermativa anche alle nuove richieste di rappresentanza da parte di media, osservatori e società civile”. Senza parlare dei lobbisti, un esercito che cresce di anno in anno e comprende molti grandi gruppi coinvolti nelle fonti fossili, in grado di mettere pressione ai governi e ai negoziatori. Quest’anno si è toccato il numero record di 2.456 persone con legami con l’industria del petrolio e delle fonti fossili, secondo la stima della rete Kick Big Polluter Out.

Non solo. L’attenzione internazionale può trasformarsi facilmente in un boomerang: tutto deve essere perfetto, nessuno può permettersi di sbagliare con il meglio della stampa internazionale radunato in massa per coprire l’evento. L’anno scorso a Sharm el Sheikh divenne virale il video di una perdita del sistema fognario: un odore nauseabondo per un paio di giorni si sparse sulla vasta area della conferenza, con liquami che scorrevano tra i viali. Non una bella fotografia. Per non parlare del fatto che la costruzione dei siti spesso viene portata a termine con l’impiego di manodopera a basso costo, e l’attenzione mediatica attira le inchieste.

Inoltre, il tema delle proteste: se gli Stati mediorientali negli ultimi due anni non si sono fatti problemi a vietarle nonostante le critiche a livello internazionale, in alcune realtà la faccenda può diventare più problematica, se non altro per una questione di reputazione: non sono molti i governi che ci tengono ad apparire come autoritari.

La somma porta alla difficoltà, per le Nazioni unite, di trovare un sito. L’Australia si è offerta per il 2026; il presidente indiano Modi ha proposto l’India per il 2028. La partita è aperta. Un altro dei nodi da sciogliere per i prossimi anni, e nemmeno il più semplice. In crisi c’è il criterio della turnazione: quello, cioè, che fornisce rappresentatività anche alle aree del mondo meno mediatiche.

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ambiente, clima

Sotto i nostri occhi

Partecipo volentieri alla campagna degli amici di Italian Climate Network, che con una bella idea di comunicazione cercano di accendere un faro sul neonato fondo per il loss&damage in attesa che Cop 28, la Conferenza delle Parti in programma a Dubai a dicembre (e che seguirò da lì come tutti gli anni) prenda avvio. Cosa sia questo fondo ve lo avevo raccontato qui, qui e qui.
A mio modo di vedere, la situazione del clima è seria ma disperarsi aiuta poco. Meglio cercare di raccogliere il buono che c’è e guardare avanti con tranquillo impegno. Gli evangelisti moderni non sono solo quelli di Apple, ma anche le persone comuni, che possono spiegare senza fanatismi che cosa sta accadendo. Senza dimenticare il fatto che spostare l’attenzione sui consumi individuali è una strategia delle grandi aziende inquinatrici per continuare il business as usual.

Infine, una riflessione sul massimalismo, a poca distanza dalle elezioni parlamentari europee (in primavera) e presidenziali americane (a novembre), due appuntamenti che segneranno il futuro: puntare a stravincere serve solo a inimicarsi gli scettici, gli indecisi e i moderati, che in democrazia sono la maggior parte. I programmi dei partiti purtroppo non saranno quelli che ci saremmo aspettati nel 2019, prima di pandemia, guerre e inflazione. Cambiare abitudini non è facile, soprattutto quando manca un adeguato sostrato di conoscenze, ancora poco comuni, e il mondo come lo conoscevamo fino a due anni fa va a rotoli. L’importante è continuare a marciare. Come si trovò a dire Annibale che si accingeva a scendere in Italia da Cartagine, “aut inveniam viam aut faciam“. Troveremo una strada, o la costruiremo.

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ambiente, cronaca, sostenibilità

Alluvione in Romagna, non sempre c’è un colpevole

Proviamo a fare il punto a mente un po’ più lucida su questi giorni di alluvioni e disastri in Romagna. Tanti – e anche molti giornali – parlano di urbanistica, consumo di suolo, di responsabilità delle amministrazioni: ma è solo una parte del problema, un altro modo per buttarla in politica, o in caciara.

Le alluvioni ci sono sempre state; l’aumento della frequenza è attribuibile al riscaldamento globale. Ciò premesso, certamente le politiche di gestione del territorio possono aiutare a controllarne gli effetti; ma non si può impedire agli eventi di verificarsi, lasciando passare il concetto (tristemente giornalistico) del “mai più”, come qualcuno si fosse dimenticato di spegnere l’interruttore. La natura non funziona così. Ha sempre colpito con violenza, e di fronte alla potenza degli elementi siamo stati – e restiamo – piccoli. Anche quando crediamo di poterla dominare. Anche se a una società senza dolore piacerebbe che esistesse una leva da tirare per potersi liberare di questi fastidiosi imprevisti.

Non solo. Occorre un po’ di onestà intellettuale. L’agricoltura, come quella praticata in Romagna, consente al nostro Paese di avere grande disponibilità di prodotti di qualità a prezzi accettabili; fatevi un giro all’estero per capire cosa significa mangiare melanzane che non sanno di nulla, o seguire, per una vita, una dieta a base di carne e patate. Prendersela con la coltivazione intensiva senza sapere di cosa si sta parlando non rende onore all’intelligenza di chi pontifica. Il nostro stile di vita, quello che amiamo perché così piacevole, passa innanzitutto dal cibo. Senza agricoltura intensiva, ci troveremmo pomodori a 15 euro, e a poterseli permettere sarebbero solo i ricchi. Il fatto che a Milano e Londra già accada non significa che sia un buon esempio. Ragionare così è una mancanza di rispetto per chi di agricoltura vive, senza guadagni spropositati, e nelle ultime settimane ha perso molto. Certo, il suolo può essere usato meglio di oggi; ma serve tempo per rompere gli schemi consolidati, per insegnare nuove tecniche, insomma, per imparare. E la storia dell’umanità insegna che un solo grande evento avverso vale più di mille ragionamenti, di migliaia di pagine e discorsi.

Terzo punto. Mi pare di aver letto – ma potrei sbagliare – che solo il 5% delle abitazioni in Italia sia provvisto di un’assicurazione contro i rischi di questo tipo. Forse converrebbe cominciare a pensarci. Anche perché, in maniera tutto sommato controintuitiva, le compagnie hanno tutto l’interesse a lottare contro il cambiamento climatico: liquidano danni per decine di miliardi l’anno a causa degli eventi estremi, e la cosa inizia a pesare sui conti. Con la massa di capitali di cui dispongono, sono un ottimo alleato per portare avanti le negoziazioni dove conta, cioè a livello internazionale, dove si decidono le sorti delle nostre economie, e del futuro, anche climatico. Sia chiaro: le assicurazioni non agiscono e non agiranno mai per filantropia: è mero interesse, che però andrebbe sfruttato. Anche pungolandole quando fanno greenwashing, come non di rado accade.

In definitiva, migliorare l’adattamento si può, ma nessuno – nessuno – potrà garantire che tragedie del genere non accadano più. Meglio prepararsi al futuro tenendo conto dei vincoli, economici e non solo, che abbiamo. Vogliamo andare su Marte, ma restiamo sempre piccoli rispetto all’universo. I giornali non aiutano a ristabilire le proporzioni. Per me il consiglio resta il solito: disintossichiamoci dalle news. Soprattutto quelle online.

(foto Lapresse, a dispozione per rimuoverla)

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Una centrale nucleare: assieme al gas, l'atomo è entrato nella tassonomia green dell'Unione Europea
ambiente, politica, sostenibilità

Perché gas e nucleare non possono entrare nella tassonomia green

L’approvazione da parte del Parlamento Europeo della tassonomia è la risposta sbagliata a un dubbio legittimo, quello sul massimalismo ambientalista riguardo alla transizione ecologica. Il documento è l’elenco delle fonti finanziabili sotto la voce di iniziative “verdi”.

Del nucleare possiamo parlare, ha il problema delle scorie ma aiuta (non l’Italia, che ha perso il treno, complici due referendum tenuti a ridosso dei disastri di Chernobyl e Fukushima: nel primo caso volutamente, nel secondo per sfortuna). Ma, il gas, verde non lo è davvero. Certo, la transizione ecologica non si fa col massimalismo, e (ancorché progressivamente ridotto) assieme all’atomo è necessario a decarbonizzare e contrastare il cambiamento climatico; ma non è la tassonomia il documento giusto per affermare questo concetto.

Mischiare le carte facendo ciò che conviene alla bisogna, creando documenticchi ibridi privi di impatto toglie credibilità alle istituzioni europee: che, ancora una volta, vengono percepite come prone alle lobby. A sguazzarci saranno le aziende (e i gestori finanziari) che venderanno i propri portafogli definendoli green. Non a caso, alle fiere di settore, buona parte della comunicazione è ormai da mesi incentrata sulla sostenibilità. A questo punto, non resta che affidarsi alla stampa: sperando che non si accontenti delle veline, e si metta a fare inchieste per stabilire, di volta in volta, dove sta la verità.

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ambiente, sostenibilità

Essere sostenibili è cool, ma non per tutti

Fino a pochi anni fa, l’ecologia era una cosa da ambientalisti, e da ingegneri. Fuori dal giro delle riviste di settore se ne parlava poco, e quando capitava era con superficialità.

Il settore in sé non si presta. Parafrasando Jung, a nessuno piace soffermarsi sui propri lati oscuri. E quello dei rifiuti è l’altra faccia del benessere.

Parlare di spazzatura, materia sporca per definizione, non era bello sui giornali, ma nemmeno nei consigli comunali: difficile spiegare agli elettori inferociti che inceneritori e depuratori da qualche parte bisogna pur costruirli, e che questo è il prezzo delle comodità cui non sappiamo rinunciare.

Oggi, il vento è cambiato. Essere sostenibili, chi l’avrebbe detto, è addirittura di moda, o cool, se amate gli anglicismi.

I quotidiani aprono supplementi dedicati (l’ultimo di chiama Green and Blue, di Stampa e Repubblica), le aziende ingaggiano società in grado di spiegar loro come inquinare meno e c’è persino un movimento (FlightShame) che addita chi vola.

Le premesse per un cambio di passo, insomma, ci sono. Solo nel 2012, a Greta Thurnberg non sarebbe stato dedicato molto più di un trafiletto, o un articolo nelle pagine interne; oggi l’adolescente nordica parla all’ONU.

Non solo. I grandi gruppi finanziari, da Blackrock in avanti, sostengono le rinnovabili non solo (figuriamoci) per ecologia: nella scelta strategiche entrano, piuttosto, una serie di ragionamenti e proiezioni che vanno oltre la filantropia, dalle perdite delle assicurazioni (costrette a risarcire miliardi di euro di danni per le alluvioni che si verificano ai quattro angoli del pianeta) al progressivo esurimento delle riserve di petrolio, gas e minerali; l’elenco è lungo un chilometro e non è il caso di farlo qui.

Il risultato, comunque, è positivo, dal momento che queste realtà posseggono (o sponsorizzano) i principali media: alla sostenibiltà è stato concesso (finalmente!) di fare notizia ed essere inquadrata in maniera accattivante. La ragazzina bionda che attraversa l’oceano in barca è il personaggio perfetto per incarnare questo nuovo corso.

I consumatori seguono, e anche quelli di fascia media – non solo i ricchi – stanno progressivamente diventando più sensibili, modificando le proprie abitudini di acquisto. Arrivano anche i governi, in un circolo virtuoso che pare innescato.

Ma non è sempre stato così. Ci indigniamo per quello che accade nell’est Europa o in Cina, dove le normative nazionali sono molto più permissive che da noi o le autorità chiudono un occhio; scordiamo, però, quanto avveniva in casa nostra fino a non molto tempo fa.

Ogni tanto compro su una bancarella il libro di un vecchio giornalista. Le raccolte di articoli di cronaca e costume molto datati fotografano in maniera vivida il passato, a volte meglio delle immagini. Rileggere quei pezzi mi porta ai tempi dell’infanzia.

Sfogliando un volume di Luca Goldoni, ottima penna, sono tornato agli anni Ottanta, quando a essere “in via di sviluppo” eravamo noi. Con larghe zone del paese appartenenti al secondo mondo più che al primo, il benessere di oggi era inimmaginabile. Qualche esempio della questione ambientale che, con urgenza, si poneva.

Il mar Adriatico era pieno di alghe e mucillagini. Il Po, il fiume più lungo d’Italia, di schiuma nel migliore dei casi biancastra. I parchi erano zeppi di rifiuti ( e di siringhe) abbandonati da chissà chi. La centralina di rilevazione degli scarichi peggiore di Milano era quella di via Senato, in pieno centro, dove oggi passano solo poche auto grazie a un divieto di transito chiamato area C.

Gli anni Settanta erano peggio. Mio padre mi racconta di quando, arrivato in Lombardia dal Sud, si meravigliava di soffiarsi il naso e trovare il fazzoletto annerito: la causa erano ciminiere e tubi di scappamento. Sesto San Giovanni era la Stalingrado d’Italia per le sue fabbriche, Genova e Torino gli altri vertici di quello che, col capoluogo lombardo, era detto il Triangolo Industriale. Non solo: per chi faceva le elementari in quegli anni c’era una sigla diventata familiare, CFC, clorofluorocarburi, contenuti nelle bombolette spray e – vado a memoria – nei frigoriferi.

Insomma, un altro mondo. Oggi, in questa porzione del globo, i problemi sono incomparabilmente minori. Ma al benessere sta arrivando una parte di mondo che prima certi lussi poteva solo sognarli (o vederli grazie alle parabole satellitari). Ed è la più consistente. Cina, India, America Latina, Africa erano escluse dai consumi di massa. E vogliono recuperare il terreno perduto.

Il barista sotto casa, persona intelligente e gran lavoratore, è cinese. E’ preoccupato, mi confessa: teme che, per recuperare dalla crisi dovuta alla pandemia, possa scatenarsi un’altra guerra. E, inutile dirlo, ha paura che ad essere aggredito sia proprio il suo paese. Pechino gioca un ruolo di primo piano sullo scenario economico e politico mondiale. “Adesso tocca a noi”, mi dice. “Perché non volete che il nostro popolo goda del benessere che avete avuto per tanti anni?”.

Un fisico dell’ENEA mi raccontava come vedono la questione a Dehli, in India. A un congresso di scienziati e ministri (tema, l’energia) si riteneva disonorevole che il consumo pro capite di elettricità dei paesi vicini potesse superare quello locale. Bisognava, cioè, trovare il modo di aumentare – avete letto bene: non diminuirlo – anche quello indiano. Questione di reputazione.

In America Latina la vedono più o meno allo stesso modo. Difficile spiegare il climate change a persone che vivono in città cadenti, per cui il benessere è rappresentato dalle lattine colorate di Coca Cola, grandi televisori a cristalli liquidi e magliette di squadre di calcio europee. Proprio ciò che noi, sazi, cominciamo a ritenere superfluo.

Fermare (o, almeno, gestire) il cambiamento climatico è molto complicato perché non è solo una questione tecnologica, ma culturale. Non bastano batterie migliori, plastiche bio ed energia solare: si torna sempre lì, essere sostenibili, in certi contesti, non è una priorità. Come direbbe Celentano, non è rock, è lento. Anzi, fa un po’ sfigato, proprio come da noi fino a qualche anno fa, quando dicevi ambientalista e ti venivano in mente la zia hippy e il marito fricchettone.

Sono incuriosito da quanto tempo ci vorrà al resto del mondo per completare la transizione. Finanza, opinione pubblica, politica. Se il percorso sarà simile al nostro o se, come alle volte accade, chi arriva dopo potrà saltare qualche passaggio. In molti stati africani le soluzioni di pagamento fintech sono più avanzate rispetto a gran parte dell’Europa: con il denaro contante difficile da procurarsi, maneggiare e custodire, i cellulari, invece, sono universali: la scelta è stata immediata.

Non siamo senza colpe. Le stesse compagnie che si ripuliscono l’immagine finanziando progetti green non hanno ancora smesso di commettere le peggiori nefandezze, naturalmente al riparo da occhi indiscreti. Il codice di autoregolamentazione del settore internazionale del gioiello racchiude un lungo elenco di comportamente discutibili e vietati: dalla corruzione all’inquinamento, dallo sfuttamento del lavoro minorile al finanziamento dei signori della guerra, non c’è condotta turpe che manchi all’appello. Evidentemente il problema era grosso come un diamante da un milione di carati.

Basterà l’autodisciplina? Chissà. Sicuramente in questa fase contano, e molto, le scelte dei consumatori occidentali. Il loro potere di informarsi e condizionare le politiche di aziende e governi è un’arma potentissima. Insomma: se davvero lo vogliamo, dobbiamo prenderci la responsabilità di guidare il cambiamento. Magari rinunciando a qualche comodità, o lusso, in cambio di un pianeta migliore.

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