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Se le startup dei giovani ci salveranno

Com’eravamo dieci anni fa? C’erano il posto fisso, il mutuo facile e mancava il web. Mettete tutto nello shaker, agitate bene con la crisi peggiore degli ultimi 80 anni, e guarnite con i voli low cost che hanno permesso ai giovani di girare il mondo:  avrete una generazione di ragazzi svegli in grado di trainare anche gli adulti. Se avranno voglia di rimettersi in gioco.

Ho partecipato al meeting di StartupItalia il 18 dicembre a Milano e trovato una situazione diversa rispetto a qualche tempo fa. Più consapevolezza delle potenzialità che derivano dal mettersi in proprio, maggiore conoscenza delle dinamiche di business, e una cognizione dei limiti – esistono anche quelli – di questa scelta.

Certo, ormai non si può prescindere da formazione costante, cambiamenti contrattuali (il jobs act, seppur migliorabile, va già in questa direzione) e da una rivoluzione nella mentalità: via foto e data di nascita dal curriculum, basiamoci sulle competenze, che sono quello che serve.  Un mondo al contrario, dove i giovani salvano gli adulti, è possibile. Chissà, magari a pensarlo forte accade davvero.

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economia, salute

Epatite C, la UE e lo strapotere delle lobby

L’articolo che segue è stato pubblicato su TiSOStengo a questo link

Un nuovo farmaco contro l’epatite C promette l’eradicazione del virus in una percentuale attorno al 90% dei casi. Certo, non significa guarigione per tutti (se c’è cirrosi conclamata, il danno strutturale non è riparabile): ma, se non altro, si impedisce l’evoluzione della malattia. C’è, però, un problema: il farmaco costa tanto, troppo.

L’anno scorso sono stati spesi, in Italia, 1.7 mld di euro per curare 31.069 ammalati (fonte: elaborazione su dati AIFA). Il trattamento per il virus nel nostro paese costa 55.000 euro a paziente.

QUESTIONE DI PREZZO – Si ripropone la questione del prezzo dei medicinali. La Gilead, azienda californiana che produce il preparato in questione (Sovaldi), è infatti in grado di contrattare con le varie agenzie nazionali del farmaco condizioni di vendita più che favorevoli.

Funziona così: dal punto di vista dell’azienda che produce un bene necessario (ad esempio, il farmaco per l’epatite C, ma anche i pannoloni per gli incontinenti, per restare in ambito sanitario), un mercato frammentato è quanto di più desiderabile. Se al tavolo delle contrattazioni si siedono soggetti relativamente piccoli (come le agenzie del farmaco dei singoli paesi), la negoziazione sarà a senso unico: l’ideale per un’azienda farmaceutica che mira al massimo profitto (ricordiamo che, in fondo, si tratta di business, e l’etica c’entra poco). Le trattative, tra l’altro, sono per lo più segrete.

Ma cosa accadrebbe se la contrattazione fosse concordata a livello sovranazionale, diciamo europeo?
Probabilmente, quello a cui si assiste per un altro bene “di prima necessità” , i già citati pannoloni: prezzi più bassi se lo Stato ne acquista centralmente grandi quantità, distribuendole tramite il sistema sanitario. Nella Ue esiste senz’altro la possibilità di centralizzare le decisioni di acquisto. Basta trovare l’accordo.

IL PROBLEMA DI STIMOLARE LA RICERCA – Tutto risolto, quindi? Non proprio. Anche Big Pharma ha le sue buone ragioni (ne avevamo parlato qui): prezzi troppo bassi significano perdere lo stimolo per la ricerca e, quindi, ogni incentivo allo sviluppo di nuove terapie. Cerchiamo di spiegarci.

In pratica, per come è strutturato il settore, nessuno investe in ricerca su farmaci che, nel lungo periodo, non hanno il potenziale di ripianare i costi. E dato che, fra le tante molecole testate, sono poche quelle che superano le severe fasi disperimentazione, è solo ed esclusivamente da quelle capaci di arrivare in commercio che le aziende dipendono per tenere in piedi i bilanci e fare utili. Le altre rappresentano perdite secche. Un esempio evidente del meccanismo sono i farmaci orfani (leggi qui), quelli che curano malattie poco diffuse: fare ricerca in questo campo non conviene a nessuno perché manca un mercato sufficientemente ampio. Con tutto quello che ne consegue nei termini di un diritto alla salute che cessa di essere universale.

TRASPARENZA ZERO – Ci si addentra in un terreno estremamente scivoloso che dall’economia declina verso la politica. Se le aziende ragionano in base ai bilanci e alle logiche di mercato (e non potrebbe essere altrimenti), spetta ai governi intervenire con correttivi utili ad aggiustare i prezzi, badando però a non azzerare lo stimolo che porta ad assumersi il rischio di impresa.

In concreto, sono due le strade che gli Stati impiegano per incentivare le aziende a investire: ricorrere ad aiuti diretti oppure fornire agevolazioni indirette come, ad esempio, sgravi fiscali (probabilmente un’opzione migliore).

Ma c’è una terza arma, probabilmente ancora più efficace: la trasparenza, e una regolamentazione vera delle lobby. Che, a Bruxelles, sono da sempre un’istituzione parallela. Stazionano nei palazzi del potere, preparando comodi riassunti (ovviamente interessati) sulle questioni del giorno, ad uso di parlamentari che di farmacologia non masticano più di quanto si intendano di fiscalità internazionale o dimensione delle olive.

Se poi ai bignami si accompagna la “riconoscenza” dell’industria, e Big Pharma sa essere munifica, si comprende come mai, a tutti i livelli, sulle lobby si preferisca non decidere. Ma quanto converrebbe portare tutto alla luce del sole, come qualche forza politica (ad esempio i Cinque Stelle) chiede a ragione?

Guglielmo Pepe su Repubblica ricorda che per trattare tutti i malati – gravi e meno gravi – di epatite C nel nostro paese servirebbero 8 miliardi di euro l’anno, pari circa alla metà di una finanziaria di media portata. Una cifra da spendere da qui al 2025, cui va aggiunto il resto della spesa farmaceutica. Certo, si tratta di un investimento. Ma sedersi al tavolo delle contrattazioni nella maniera migliore per spuntare un prezzo equo è quanto farebbe ogni “buon padre di famiglia” recandosi al mercato. E quindi, anche ciò che dovrebbe fare l’Europa

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economia, esteri, londra

EMA: Milano in corsa per l’Agenzia Europea del Farmaco

Ancora Brexit, questa volta in chiave italiana. Milano potrebbe avvantaggiarsi dell’uscita dall’Unione Europea della Gran Bretagna. Tra le agenzie che nel capoluogo lombardo potrebbero trovare collocazione ideale ci sono l’EBA (European Banking Agency, che regola il settore bancario) e l’EMA (European Medicines Agency, che si occupa dei farmaci). Due giganti. Ecco perché l’Italia questa volta può farcela. L’articolo  qui sotto  è stato pubblicato su TiSOStengo e si trova in originale a questo link. 

L’EMA, l’Agenzia Europea del Farmaco, presto potrebbe spostarsi da Londra. Per trovare casa in Italia? Si tratta, per il momento, solo di una proposta presentata dal presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi. Qualche riflessione, però, è d’obbligo, visto il voto anti-Europa del Regno Unito che rende difficile immaginare una permanenza dell’authority nella capitale inglese.

“A nostro favore giocano importanti fattori – spiega Scaccabarozzi in una nota – L’industria farmaceuticamade in Italy è ormai una realtà 4.0 di primo piano in Europa. Seconda per produzione a un’incollatura dalla Germania, ma prima per valore pro-capite. Con un export da record che supera il 70% della produzione, un’occupazione qualificata in ripresa (+6.000 addetti nel 2015) e investimenti in crescita (+15% negli ultimi due anni). E a un passo dal diventare un hub europeo per la ricerca, anche clinica, con investimenti di 1,4 miliardi (700 milioni solo in studi clinici)”. Le stime della Camera di Commercio di Milano basate su dati Istat confermano: l’export farmaceutico del capoluogo è in crescita del 21,4% (comparazione tra il primo trimestre 2015 e il primo trimestre 2016): numeri che rendono credibile l’ipotesi di un trasferimento all’ombra della Madonnina.

Ma non è tutto. “L’Italia può contare – continua Scaccabarozzi –  su un’Agenzia del farmaco (Aifa) riconosciuta a livello internazionale come modello di best practice per l’innovatività delle modalità di accesso ai farmaci. Un modello a cui guardano molti Paesi e che andrebbe reso ancora più efficiente”.

SOSTEGNO TRASVERSALE – Chi nella Brexit vede innanzitutto un’opportunità ha raccolto la sfida. La proposta ha riscosso plauso trasversale dal Pd fino alla Lega, segno che l’entusiasmo di occupare lo slot prevedibilmente lasciato vuoto da Londra non conosce colore. Parere favorevole ha espresso il responsabile salute del PD Federico Gelli, parere favorevole ha espresso anche il governatore della Lombardia, il lumbard  Roberto Maroni.

Quest’ultimo ha corroborato la candidatura annunciando l’intenzione di costituire un fondo da 50 milioni di euro per spingere i ricercatori italiani scappati all’estero a rimpatriare. Non è chiaro come il politico intenda conciliare le posizioni anti-europee  delle camicie verdi con l’ambiziosissima candidatura per il capoluogo; ma l’idea sembra buona.

IL LUOGO IDEALE – Milano, del resto, parte bene. La città è pronta a mettere sul piatto l’area Expo, ora ribattezzata Human Technopole: un complesso da un milione di metri quadri su cui insiste un piano del Governo con prospettive ad ampio raggio, e su cui si insedieranno colossi come l’IBM (con il progetto Watson Health) e Nokia. Si tratta, con tutta probabilità, dell’area più ricca di infrastrutture d’Europa, proprio perchè pensata in vista dell’Esposizione Universale del 2015: aeroporti e autostrade vicini, strutture alberghiere e ricettive di qualità nei paraggi e Fiera Milano a far da corollario. Senza contare la stazione ferroviaria e la metropolitana in loco. Insomma: il luogo ideale per il viavai che caratterizza le organizzazioni internazionali.

Qualcuno (in primis Renzi, che ne ha parlato a Bruxelles, e il neosindaco Giuseppe Sala ) si è spinto oltre, fino a immaginare una sorta di zona franca per attirare le imprese: un’area a regime fiscale speciale come ne esistono altre in Italia (Livigno, ad esempio) e nel mondo (la Polonia ne conta ben 14, ma ce ne sono anche in Francia, Germania, Danimarca, Cina, tra gli altri paesi). Idea eccellente: per realizzarla occorre, però, il nulla osta dell’Unione Europea, che non dovrebbe ravvisare nel progetto gli estremi dell’ “aiuto di Stato”, vietato dalle norme comunitarie.

CANDIDATURE – Milano è in lizza anche per un’altra agenzia di peso: si tratta dell’ EBA (European Banking Autorithy), organismo che dal 2011 fissa le regole del sistema bancario nel Vecchio Continente. A favore del capoluogo lombardo gioca un fattore politico non da poco: Francoforte è già sede della BCE e dell’EIOSPA (l’Autorità europea sulle assicurazioni), Parigi dell’ESMA (una sorta di Consob europea) e Madrid dello IOSCO (che raccoglie le autorità di vigilanza sui mercati finanziari): all’Italia manca un’assegnazione di peso.

Nel caso la politica possa scegliere, non c’è dubbio che cercherebbe di portare in Lombardia il cuore della finanza continentale: troppe implicazioni economiche e di prestigio. Ma in realtà, più che sul tavolo delle Borse, l’Italia ha buone carte da spendere nel settore farmaceutico. E non è escluso che Roma si decida a giocare la partita più “facile”, per portarla a casa senza problemi.

La decisione sulla strategia da seguire spetterà a Palazzo Chigi, che dovrà intessere il lavoro diplomatico su cui costruire la candidatura.  Il fatto che a capo dell’EMA ci sia l’italiano Guido Rasi potrebbe senza dubbio aiutare, così come il fatto che il sindaco meneghino sia un manager dotato di ampia visione internazionale e ottime entrature nei palazzi europei comeSala. Sempre che la Gran Bretagna non decida di restare nella UE, magari usando il referendum come grimaldello per spuntare condizioni insperate.

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economia

No exceptions rule

Ogni tanto mi capita di rendermi conto – come accade un po’ a tutti – di quanto la burocrazia sia in grado di rallentare l’erogazione di permessi, autorizzazioni e altri documenti che spesso abbiamo assolutamente diritto di ottenere.

Mi piace pensare che sia lo scarso senso civico della popolazione a costringere lo Stato a infarcire le pratiche di formulari, autorizzazioni e controverifiche. Ma ovviamente non è tutto qui.

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economia, media

L’Economist parla italiano: Agnelli sale al 43,4%

Sembrava impossibile. E invece è vero. La notizia più interessante di questi mesi è stata la scalata di Exor fino al 43,4% di The Economist. La holding della famiglia Agnelli, guidata da John Elkann, ha annunciato l’acquisto il 12 agosto. Il settimanale londinese è un punto di riferimento per l’informazione economica mondiale. Noto per lo stile chiaro e omogeneo, dovuto in buona parte all’assenza di firme alla fine degli articoli, si trova oggi a confrontarsi con la svolta digitale. Exor ha il controllo di una quota doppia rispetto a quella di una delle grandi famiglia del capitalismo mondiale, i Rotschild, fermi al 21%. E anche se non potrà esprimere la maggioranza del cda (ma un massimo di 6 consiglieri su 13), avrà un peso decisivo nelle scelte strategiche. economist berlusconi

La testata deve confrontarsi con un calo di vendite e la necessità della transizione al digitale. Una sfida che a Torino hanno già brillantemente raccolto con La Stampa, sempre in prima linea sul fronte delle nuove tecnologie.

A questo punto, non è vietato sognare. Anche, ad esempio, che alla testa del celebre magazine inglese possa esserci un direttore italiano. Personalmente, vedrei bene Mario Calabresi. Giovane, con esperienza internazionale, ha diretto uno dei quotidiani più prestigiosi d’Italia rendendolo un modello e restando sempre un passo avanti agli altri. Personalmente, amo le personalità che sanno spaziare, e sono abbastanza diffidente dei tecnici. Calabresi non ha un background economico, ma è senza dubbio in possesso delle qualità per costruirselo nel giro di un decennio.  E, soprattutto, sa fare i giornali. Speriamo sia lui il primo italiano a dirigere uno dei principali organi di informazione a livello mondiale.

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